Carlo Ginzburg
Che cosa gli storici possono imparare da una narrazione sui generis come la Recherche
Lessi per la prima volta la Recherche
in francese, tra il 1959 e il 1960, nell’edizione in tre volumi della
Pléiade, curati da Pierre Clarac e André Ferré (ho imparato il francese
leggendo Proust e Baudelaire). E tuttavia l’esistenza della traduzione
di mia madre (che ho letto molto più tardi) ha fatto sì che il francese
si sia configurato per me, subito, dal punto di vista affettivo, come
una specie di lingua materna: e tale è rimasta, al di là della
competenza raggiunta. (In confronto l’inglese, che pure ho usato più
spesso, è per me una lingua infinitamente più povera di connotazioni
emotive).
Quella lingua straniera e a suo modo materna mi fece entrare nel mondo misterioso, pieno di sorprese mirabolanti, della Recherche. Ma in che modo (mi chiedo oggi) lessi allora la Recherche? Attraverso quali filtri? Trovo un inizio di risposta in un saggio che scrissi vent’anni dopo, Spie. Radici di un paradigma indiziario. “Si può dimostrare agevolmente – scrivevo – che il più grande romanzo del nostro tempo, la Recherche,
è costruito secondo un rigoroso paradigma indiziario”. Oggi aggiungerei
una precisazione: “E che il ‘paradigma indiziario’ è stato in larga
misura ispirato dal romanzo di Proust”. Qui di seguito cercherò di
chiarire il significato di quest’affermazione, che coinvolge lettori di
Proust di gran lunga più rilevanti e più influenti di colui che vi
parla.
Nel proporre il “paradigma indiziario” mi ero richiamato a Leo Spitzer, oltre ad Aby Warburg, a Marc Bloch (soprattutto per I re taumaturghi), e ad Adorno (soprattutto per Minima Moralia). Dopo aver finito la Recherche lessi il saggio di Spitzer Sullo stile di Proust.
Ma il senso vero di quelle pagine, che certo segnarono un momento di
svolta nella traiettoria ermeneutica di Spitzer, mi è diventato chiaro
solo recentemente. Esse si aprono dicharando il profondo debito
intellettuale contratto nei confronti di un altro saggio su Proust,
apparso tre anni prima: quello di Ernst Robert Curtius, pubblicato nel
1925. Scriveva Spitzer: “Il metodo con il quale Curtius giunge a
scoprire lo ‘spirito’ Proust nella sua lingua, l’ha insegnato Proust
stesso, ed è il medesimo che io vado proponendo da anni. Il critico
comincia a leggere, ed è dapprima sorpreso da quello stile così
singolare, fino a quando non trova una ‘frase quasi trasparente’, che
gli fa presentire il carattere dello scrittore: proseguendo la lettura
incontra una seconda e una terza frase dello stesso genere, e finisce
così per intuire la ‘legge’ che permette di comprendere ‘lo spirito
formale di un autore’. (…) a mio parere, questo metodo, che in fondo
vuol essere soprattutto un invito a leggere e rileggere i testi
studiati, non vale solamente per Proust, ma per ogni autore, di cui si
voglia veramente comprendere la lingua”.
Inutile sottolineare l’importanza di
questa dichiarazione di metodo per interposte persone. Il plurale è
d’obbligo: Spitzer rinvia a Curtius che rinvia a Proust. Questa
genealogia intellettuale, delineata da Spitzer in pochi vigorosi tratti,
non può essere accettata a scatola chiusa; ma ignorarla sarebbe
assurdo. Eppure essa non è discussa là dove uno la aspetterebbe. Per
esempio, nell’introduzione di Pietro Citati alla raccolta italiana di
saggi di Spitzer che s’intitola Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna
Curtius viene ricordato con il rilievo che gli spetta, senza però
menzionare il suo saggio su Proust. Quanto al saggio premesso da Jean
Starobinski a Études de style, la scelta di saggi di Spitzer
apparsa in traduzione francese nel 1970, il nome di Curtius non vi
compare affatto. Eppure chi legga oggi il saggio di Curtius su Proust ha
l’impressione di trovarsi di fronte a un testo fondatore, che agì, sia
immediatamente sia a scoppio ritardato, su due lettori d’eccezione: Leo
Spitzer ed Erich Auerbach. (Questo debito intellettuale fu poi oscurato
dalle tensioni, scientifiche e personali, tra chi era stato costretto
all’esilio e chi aveva scelto l’“emigrazione interna”.
Ma il Curtius lettore di Proust non
faceva che riecheggiare, con grande intelligenza, Proust stesso: in
particolare, la prefazione con cui si apre La Bibbia di Amiens
di Ruskin da lui tradotta. Ne cito due passi: “Ora, parlando una volta
con una persona, si possono notare in lei dei gesti singolari; ma è
soltanto per il loro ripetersi in circostanze diverse che si possono
riconoscere come caratteristici ed essenziali. Per uno scrittore, per un
musicista, o per un pittore, questa variazione delle circostanze
permette di notare, come in una specie di esperimento, i segni
immutabili del carattere e la varietà delle opere. (…) In fondo, aiutare
il lettore a rilevare questi segni singolari, mettere sotto i suoi
occhi i modi analoghi che gli permettano di considerarli segni
essenziali del genio di uno scrittore, dovrebbe essere il compito più
importante di ogni critico”. Leggere nella prefazione alla Bibbia di Amiens un annuncio della Recherche
è, oggi, inevitabile. Come sempre in Proust pratica e riflessione
teorica si alternano, intrecciandosi, sia in scritti di diversa natura
sia nella Recherche stessa (un caso d’intreccio analogo, nella
letteratura europea, è Dante). Attraverso il suo romanzo – che è anche,
com’è noto, un metaromanzo – Proust ha dato ai suoi interpreti gli
strumenti per interpretarlo. Non si tratta di armonia prestabilita,
bensì di una costrizione esercitata dall’autore sui propri lettori. I
critici della Recherche non hanno potuto sottrarsi agli
strumenti interpretativi predisposti da Proust. La definizione che
Pietro Citati diede di Proust a metà del Novecento – il “più grande
critico stilistico del nostro secolo” – va presa alla lettera e, se
possible, approfondita. La critica stilistica ha radici antiche, almeno
cinquecentesche (un tema che spero di poter affrontare in un’altra
occasione). Ma se Proust non fosse esistito, la critica stilistica come
oggi la intendiamo non sarebbe mai nata.
Rileggo un passo della prefazione di Proust alla Bible d’Amiens: “Per uno scrittore, per un musicista, o per un pittore, questa variazione delle circostanze permette di notare, come in una specie di esperimento,
i segni immutabili del carattere e la varietà delle opere”.
Quest’accenno all’esperimento – all’esperimento scientifico – verrà
sviluppato nel romanzo, a cominciare dal titolo. Che la Recherche abbia a che fare con la recherche,
ossia con la ricerca scientifica in particolare, e con la conoscenza in
generale, è un dato che s’impose subito ai lettori. Cito quasi a caso,
da Marcel Proust. An English Tribute: un volume apparso nel
1923, che raccoglie scritti di vari autori (tra gli altri, Joseph
Conrad) in gran parte, ma non tutti, elogiativi. Francis Birrell, uno
scrittore vicino al gruppo di Bloomsbury, osservò che il titolo À la recherche du temps perdu (tradotto in inglese, poco fedelmente, come Remembrance of Things Past)
“va molto al di là del desiderio di scrivere un’autobiografia, di
ricapitolare la propria effimera esperienza. È il tentativo di
ricostruire integralmente il passato (to reconstruct the whole of the past)”.
Sì, ma in che modo? Spitzer ci viene in
aiuto: “La distanza tra narratore e narrazione presta alla narrazione
una più intensa realtà e autonomia: i suoi personaggi Proust vuole
allontanarli da chi vede, simile in questo allo storico (ma non
all’annalista) che tratta una materia molto remota da lui”. Spitzer
analizza con grande sottigliezza gli strumenti adoperati da Proust per
sottolineare questa distanza: le parentesi, l’uso del congiuntivo e così
via. E a un certo punto osserva: “La locuzione più banale può custodire
i più profondi segreti dell’anima. Proust è un grafologo e un
fisionomista della lingua individuale, e va alla ‘ricerca’ dello spirito
della lingua quotidiana, ormai in essa disperso, frantumato, ‘perduto’.
Allo stesso modo che la moderna psicologia costruisce degli apparecchi
per scoprire la menzogna, Proust confronta tono e discorso, e si serve
del primo per svelare la ‘bugia’ del secondo”.
Spie apparve nel 1979; l’anno dopo pubblicai su “Critique” una recensione della raccolta di saggi di Jacques le Goff intitolata Pour un autre Moyen Age.
A un certo punto, quasi tra parentesi, osservai che gli storici, invece
di usare, dandolo per scontato, il modello narrativo del romanzo
naturalista, avrebbero fatto meglio a raccogliere la sfida lanciata dai
grandi romanzieri del Novecento: Proust, Joyce, Musil. Dietro la mia
battuta c’era un obiettivo polemico non dichiarato: il saggio di
Lawrence Stone The Revival of Narrative: Reflections on a New Old History
apparso su “Past and Present” e subito tradotto da “Le Débat”. Anni
prima avevo partecipato, imparando moltissimo, al seminario del Davis
Center di Princeton diretto da Lawrence Stone. Ma la tesi di un “ritorno
alla narrazione” proposta da Stone mi lasciò deluso, perché dava per
scontato che la narrazione fosse una sola: quella, per l’appunto,
modellata sul romanzo naturalista. Ma quali potevano essere le
implicazioni cognitive di un modo diverso di raccontare la storia?
Certo, sarebbe impossibile definire la Recherche
di Proust “narrazione rigorosamente storica”. Ma che cosa succederebbe
(mi chiedevo) se adottassimo una definizione più ampia di quella
adottata da Benveniste? Non si trattava, ovviamente, di proporre agli
storici di scimmiottare Proust. Si trattava di capire che cosa gli
storici potrebbero imparare da una narrazione storica sui generis come
la Recherche.
Su questi temi ho riflettuto per anni,
affrontando aspetti molto diversi tra loro, ma tutti legati in un modo o
nell’altro al rapporto “vero falso finto”: tre termini che
costituiscono il sottotitolo della mia ultima raccolta, Il filo e le tracce,
ma che se non sbaglio definiscono l’intero ambito delle ricerche che ho
condotto, su temi molto eterogenei, dalla metà degli anni ottanta.
Nella discussione prolungata con le tesi neo-scettiche, secondo cui una
distinzione rigorosa tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione
sarebbe impossibile, sono tornato più e più volte a Proust. Perché?
Potrei rispondere a questo domanda ricorrendo, ancora una volta, a
un’osservazione di Spitzer: “Nessun gruppo di parole, difatti, è in
Proust così frequente e denso di nostalgia come reel, réalité, réaliser”.
Nessuno, nemmeno il più accanito neoscettico, potrebbe accusare Proust
di positivismo ingenuo. La ricerca della realtà e della verità (senza
virgolette) si accompagnano in Proust all’acuta consapevolezza degli
innumerevoli ostacoli, soggettivi e oggettivi, che questa ricerca deve
superare.
Sull’impulso che spingeva Proust a
rendere con la massima precisione possibile il timbro delle innumerevoli
voci che popolano il suo ciclo romanzesco, si è scritto molto. È un
impulso in cui convergevano il poeta e lo scienziato. Ma il compito che
si propone lo storico non è molto diverso. Credo di poter dire che la
consapevolezza di questa prossimità sia stata rafforzata, nel mio caso,
da una lunga consuetudine con i processi dell’Inquisizione: documenti in
cui l’alternarsi delle voci dei giudici e degli imputati nasconde
spesso una prevaricazione dei primi sui secondi, accompagnata da una
violenza, talvolta fisica, culturale sempre. Per poter cogliere
quest’intreccio di voci senza deformarle lo storico deve imparare a
sterilizzare gli strumenti dell’analisi: in altre parole, deve imparare a
non proiettare le proprie aspettative e i propri pregiudizi nei
documenti. Deve imparare a mettere da parte quello che sa, per guardare
la realtà come qualcosa di opaco, di incomprensibile, di estraneo; deve
rinunciare a capire per capire di più.
Qualcosa di estraneo. Anni fa ho cercato
di ricostruire la genealogia del procedimento letterario che Viktor
Sklovsky, in un celebre saggio, definì ostranienie, estrangement.
Di fronte a coloro che (da Marco Aurelio a Montaigne, da Voltaire a
Tolstoj) si sono serviti dello sguardo straniante del contadino, del
selvaggio, dell’animale per criticare le convenzioni sociali, Proust
sembra andare in una direzione diversa: l’impulso che spinge Elstir a
dipingere il mare come un prato (non ciò che sa ma ciò che vede) è uno
straniamento puramente estetico. Ma alla fine della Recherche il procedimento di Elstir ricompare in un contesto diverso, e più ampio. In una pagina stupenda, e giustamente famosa, di Il tempo ritrovato
il narratore parla a Gilberte di suo marito, Robert de Saint-Loup,
morto da poco: “C’è un lato della guerra ch’egli cominciava ad
afferrare, cioè che la guerra è umana, la si vive come un amore o come
un odio, potrebbe essere raccontata come un romanzo, e per conseguenza,
se il tale o il tal altro van ripetendo che la strategia è una scienza,
questo non li aiuta per nulla a capire la guerra, perchè la guerra non è
strategica”. Ma a questa dichiarazione sull’inferiorità della scienza
rispetto al romanzo subentra quasi subito, la proposta di una scienza
diversa da quella convenzionale: “E se volessimo supporre che la guerra
sia scientifica, bisognerebbe dipingerla come Elstir dipingeva il mare,
alla rovescia, e partire da illusioni e credenze che vengono a poco a
poco rettificate, come avrebbe fatto Dostoevskij nel raccontare una
vita”.
Elstir, Dostoevskij, oppure il “lato Dostoevskij” di Madame de Sévigné, che in un passo delle Lettres,
che Proust cita a memoria, esce in una notte di luna e vede “frati
bianchi e neri, parecchie monache grigie e bianche, panni di bucato
buttati qua e là, uomini sepolti rigidi contro alberi ecc.”. E Proust
commenta: “Essa ci presenta le cose nella stessa maniera di Elstir,
nell’ordine cioè delle nostre percezioni, anziché cominciare con lo
spiegarne la causa”.
Accostarsi alla realtà (ai paesaggi,
alle persone) rinunciando alle spiegazioni precostituite che ci propone
l’intelligenza astratta: in queste pagine di Proust mi parve (e mi pare
ancora oggi) di riconoscere un modello conoscitivo di straordinaria
ricchezza. Il mio saggio sullo straniamento terminava così: “Per
descrivere il progetto storiografico in cui personalmente mi riconosco
utilizzerei, con un piccolo cambiamento, una frase di Proust tratta dal
passo citato poco fa: ‘E se volessimo supporre che la storia fosse
scientifica, bisognerebbe dipingerla come Elstir dipingeva il mare, alla
rovescia”.
Chi ama le etichette riconoscerà in
questo progetto storiografico la microstoria o, più precisamente,
un’interpretazione personale della microstoria. In un saggio uscito nel
2005, intitolato Latitude, Slaves, and the Bible, ho cercato di
sviluppare le implicazioni delle parole di Proust. Si trattava di un
esperimento (una parola cara a Proust), anzi di un esperimento al
quadrato, frutto di un uso sperimentale del catalogo elettronico della
biblioteca della Ucla. In italiano la parola “caso” ha due significati
che corrispondono, in francese, a due parole diverse: hasard e cas. Il
mio esperimento si riferiva a entrambe. Il caso, opportunamente
pilotato, mi fece incontrare un individuo di cui ignoravo l’esistenza:
Jean-Pierre Purry, un calvinista di Neuchâtel che al principio del
Settecento elaborò una serie di progetti di colonizzazione fondati su
una lettura originale della Bibbia, viaggiò in tre continenti, e morì in
una città che lui stesso aveva fondato in un luogo sperduto della South
Carolina (di quella città oggi resta solo un cimitero in una foresta, e
un nome: Purrysburg). Il caso, decisamente anomalo, di Purry aprì la
strada al riesame, da un punto di vista inatteso, di due interpretazioni
dell’accumulazione capitalistica primitiva: quella di Max Weber e
quella di Karl Marx. Il sottotitolo del saggio, An Experiment in Microhistory,
ricordava le ambizioni generalizzatrici che ritengo parte intrinseca
del progetto storiografico denominato “microstoria”. Il saggio terminava
con una citazione di Proust: “Gli sciocchi s’immaginano che le vaste
dimensioni dei fenomeni sociali siano un’ottima occasione per penetrare
più addentro nell’animo umano: dovrebbero invece comprendere che solo
discendendo in profondità nell’interno di un individuo abbiamo qualche
probabilità di capire la natura di quei fenomeni”.
A richiamare la mia attenzione su questo passo dei Guermantes
era stato un amico carissimo, Francesco Orlando. Dalla sua audacia di
teorico della letteratura e dal suo modo profondamente originale di
leggere testi soprattutto francesi (da Racine, a Baudelaire, a Proust
stesso) ho imparato moltissimo. Seguendo Orlando, avevo estratto dal
contesto (le battute di Françoise sulla guerra russo-giapponese) il
passo di Proust, sottolineandone la portata generale: partendo
dall’individuo, dalla sua misteriosa ricchezza e complessità, è
possibile scrivere la storia “alla rovescia”. Con ciò non intendevo
certo cedere alla moda neoscettica (oggi, se non m’inganno, in declino)
che cancella la distinzione tra romanzo e storia annegando tutto nella
finzione. Al contrario. La Recherche è ricerca della verità, è
un’esplorazione della realtà attraverso la finzione e al di là della
finzione. Proust era lontanissimo dall’idea di Barthes secondo cui “il
fatto ha un’esistenza esclusivamente linguistica”. Basta leggere la
pagina del saggio in cui Proust parlava di Flaubert come di “un uomo
che, attraverso il suo uso affatto nuovo e personale del passato remoto,
del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di
certe preposizioni, ha rinnovato la nostra visione delle cose quasi
quanto Kant, con la sua dottrina delle categorie e della realtà del
mondo esterno”.
Avevo citato questo passo straordinario in un saggio dedicato al famoso spazio bianco di L’educazione sentimentale, in cui partivo, ovviamente, da Proust e terminavo con Proust. Il saggio fa parte di un libro, Rapporti di forza. Storia retorica prova,
dedicato a Italo Calvino e ad Arnaldo Momigliano, un romanziere e uno
storico. Questa duplice dedica voleva sottolineare che la letteratura e
la storia sono accomunate dall’impulso a conoscere la realtà, anche
quando (e magari soprattutto) la letteratura si libra nei cieli o negli
abissi della finzione. Certo, non si tratta di una convergenza pacifica,
ma, più spesso, di una competizione, che non esclude fenomeni di
ibridazione. E tuttavia Proust potrebbe obiettare che l’ipotesi di una
convergenza trascura una differenza essenziale. Sentiamola (è un passo
di Il tempo ritrovato): “L’impressione è per lo scrittore ciò
che l’esperimento è per lo scienziato, con questa differenza però, che
nello scienziato il lavoro dell’intelligenza precede, nello scrittore
segue”. Questa contrapposizione mi pare troppo netta. Vorrei superarla
usando Proust contro Proust, evocando ancora una volta l’estrangement: un procedimento (un esperimento) che sospende deliberatamente, in determinate condizioni, l’attività dell’intelligenza.
In una pagina di Mimesis Erich Auerbach isolò e commentò un passo memorabile delle Memorie
di Saint-Simon, in cui il duca descrive un incontro improvviso col
Delfino: “Era là piantato sulla seggetta fra i suoi camerieri e due o
tre suoi primi ufficiali. Rimasi esterrefatto. Vidi un uomo con la testa
bassa, d’un rosso porporino, con un’aria inebetita, il quale non vide
nemmeno che mi avvicinavo a lui”.
In un saggio dedicato a Siegfried
Kracauer ho proposto di vedere in questo brano di Saint-Simon una
cellula generatrice di un passo famoso della Recherche. Il
narratore, di ritorno da un viaggio, entra, inatteso, in casa propria:
“Di me (…) c’era soltanto il testimone, l’osservatore, col cappello e il
soprabito da viaggio, l’estraneo che non appartiene alla famiglia, il
fotografo che viene a prendere un’istantanea di luoghi che non si
vedranno più. Ciò che, maccanicamente, registrarono i miei occhi quando
vidi mia nonna, fu proprio una fotografia (…). Per la prima volta e solo
per un attimo, perché scomparve subito, vidi sul divano, sotto la
lampada, rossa, pesante e volgare, malata, persa nelle sue
fantasticherie, scorrendo un libro con due occhi un po’ folli, una
vecchia sfinita che non conoscevo”.
“Vidi (…) una vecchia” scrive Proust;
“vidi un uomo” aveva scritto Saint-Simon. La decadenza fisica,
sottolineata dalla notazione di colore (“rosso porporino”, “rossa”)
cancella l’individualità, facendo affiorare l’appartenenza al genere (e
al genere umano). Nel caso di Proust, il riconoscimento mancato fa
vedere, sia pure per un attimo, con gli occhi dell’estraneo (“l’estraneo
che non appartiene alla famiglia”) quello che l’amore impediva di
vedere, e di accettare: l’approssimarsi della morte della nonna.
Sulla parentela tra i due testi non mi pare necessario insistere. Stranamente essa è sfuggita sia ad Auerbach, che costruì Mimesis sul modello della Recherche (e dei romanzi di Woolf) sia a Spitzer, che agli echi delle Memorie di Saint-Simon nella Recherche
dedicò un saggio. Ma tutto ciò rientra nella norma. In ogni
ricercatore, anche nei più grandi (come Spitzer, come Auerbach) c’è un
punto cieco: per questo la ricerca, per definizione, non ha fine.
(Il testo è una parte della
comunicazione letta dall’autore il 19 marzo 2013 al seminario di Antoine
Compagnon presso il Collège de France sul tema “Lecteurs de Proust”).
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