Questa mattina voglio riproporre
la rilettura di un classico della letteratura - «L’idiota» di Fedor Dostoevskij – compiuta da
Rossana Rossanda:
.
La bontà non ha
fortuna in letteratura. Alcuni eroi sono «anche» buoni – come Federico
nel Principe di Homburg o Levin in Anna Karenina –
ma prima sono altro: Federico è un gran guerriero e sovrano, Levin un giusto.
La loro bontà è aggiuntiva al carattere, ne è una modalità. Buoni sono certi
uomini di Dio, ma pur sempre anzitutto di Dio, e spesso buone le eroine
seconde, specie se adulte e madri, come se la bontà fosse qualità privata e
minore. Ma la Brigitta di Stifter, modello d’eroina privata, non è specialmente
buona.
La bontà ha scarse
icone. Non è una delle virtù teologali -fede speranza e carità -, anche se
della carità è parente, e tanto meno una delle cardinali – fortezza, sapienza,
prudenza, temperanza – fecondissime di personaggi. Evocata familiarmente «sii
buono, non è buono» resta vaga e in ogni caso scarsamente rappresentata.
Il 31 dicembre 1867
Fëdor Dostoevskij – quarantasei anni, alle spalle Umiliati e offesi,
Memorie da una casa di morti, Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, Il
giocatore e una foresta di racconti – scrive all’amico A. N. Majkov di
essere preso da tempo dall’idea di «rappresentare un uomo del tutto buono» ma
«temevo di trarne un romanzo, perché è troppo difficile. Nulla di più
difficile, specie al tempo nostro» [1]. E il giorno dopo lo ripete in una
lettera alla nipote S. A. Ivanova: «È un compito smisurato»: nel mondo è
esistita una sola persona «positivamente buona, Cristo, sicché l’apparizione di
quest’uomo smisuratamente, sconfinatamente buono è uno sconfinato miracolo». E
aggiungeva:
Tutti gli
scrittori, non solo russi ma europei, che hanno affrontato la rappresentazione
di un uomo positivamente buono hanno fallito [...]. Di uomini buoni nella
letteratura cristiana il solo compiuto è don Chisciotte. Ma è esclusivamente
buono perché è anche comico. Pickwick di Dickens è un’idea più debole, tuttavia
enorme e anch’egli comico, e per questo ti prende tutto [2].
E tuttavia stava
misurandosi con questo inquietante personaggio: «Il romanzo si intitola
L’idiota [Idiot 3]».
Meno d’un mese dopo
consegnava alla stampa la prima delle quattro parti del romanzo – ne aveva
previste otto – e per tutto il 1868 ne avrebbe dettato il testo alla moglie
rivedendolo rapidamente. Nell’ottobre scrive ancora a Majkov: «L’idea
dell’Idiota m’è volata via… ma sono amaramente convinto che mai ho avuto
un’idea poetica più bella e ricca di quella che m’è venuta adesso nel piano
della quarta parte» [4]. E nel gennaio 1869 alla nipote: «Finalmente l’Idiota è
finito! Ho composto gli ultimi capitoli giorno e notte in uno stato d’angoscia…
Di questo romanzo non sono contento, non esprime nemmeno la decima parte di ciò
che volevo». Ma dice di amare ancora molto «la mia idea abortita» [5].
Un’idea che sembra
essersi imposta con prepotenza. Ne testimoniano i taccuini: la tentazione d’un
eroe assolutamente, positivamente buono si affaccia nell’autunno del 1867,
mentre lavora a un romanzo nel quale appare un «idiota», un giovane di incerta
origine e il cui comportamento sorprende ma è una figura minore. La storia non
girava attorno alla bontà, ma alla colpa; gli era stata suggerita da una
notizia di cronaca nera, di quelle che lo attrassero sempre come sintomi d’un
tempo malato. Una giovinetta, Olga Umeckaia, aveva dato fuoco alla casa dei
genitori ma il tribunale l’aveva assolta perché la vessavano orribilmente.
Insomma una colpa quasi necessitata. Ma mentre stende alcuni brogliacci del
romanzo, via via succede che la giovinetta resta sfuggente e presto diventa una
eroina seconda in una vicenda di agnizioni, violenze e denari nella quale
appare anche un idiota. Su questa trama Dostoevskij lavora per tre mesi.
Fra il 30 novembre
e il 30 dicembre del 1867 nei taccuini c’è una interruzione. Come se in
quell’intervallo L’idiota si fosse divincolato e liberato
demolendo l’impianto originario. Sparisce la giovinetta colpevole, spariscono
le figure intorno e l’idiota, uscito dalla crisalide, diventa il protagonista.
Non è più un misto di opposte pulsioni, è l’uomo assolutamente buono. E non un
marginale, è un principe. Il principe Myškin.
Ma Myškin non solo
non somiglia agli «idioti» del romanzo precedente, non somiglierà neanche a don
Chisciotte. Non vive in un mondo fantastico, né combatte contro i mulini a
vento, non è innamorato di ciò che non è: se mai sprofonda nel reale, nel
troppo umano. Non è risibile né di lui ridono, anche se ne giudicano eccessiva
la generosità e imbarazzante la consequenzialità del condursi. Dicono «idiota»
come per dispetto, la sua disponibilità urta la tepidezza altrui. Ma chi
comincia ad ascoltarlo con un sorriso, termina serio. Myškin non è mai comico.
E non è neanche una
figura cristica, anche se molta critica cosi l’ha veduto con favore o furore a
seconda che appartenesse alla corrente mistica o marxistica negli anni
sovietici: non ha nulla di messianico, non si sente portatore d’una missione in
terra (non più di quella che Dostoevskij assegna al buon popolo russo), non sarà
incoronato di spine e deriso perché non si dice mai re, non fa miracoli,
conosce l’incertezza e il timore. Inoltre porta la tara d’un male, è vero,
quasi divino – il grande male – l’epilessia. Un male che monta in un crescendo
di inquietudine per attingere a uno stato breve di estrema lucidità e
precipitare nel buio. Dal quale ci si risolleva lucidi, soltanto stanchi e
consapevoli che tornerà. Dostoevskij sapeva che cos’era.
E dunque un
personaggio senza precedenti. Forse quel che accomuna Myškin al cavaliere della
Mancha è la sconfitta d’una creatura a suo modo d’eccezione. Più tardi,
nel Diario di uno scrittore, Dostoevskij scrive del Don
Chisciotte: «L’uomo non dimentichi di prendere con sé per l’ultimo giudizio
il più triste dei libri… che poi è quel che resta in mano della vita» [6].
Anche al principe Myškin nulla resta in mano. L’ironia – «la più amara ironia
che si potesse esprimere» [7] – è nella disfatta della bontà. Messaggio
paradossalmente anticristiano.
Biondo, gli occhi
miti e azzurri, il principe Myškin appare nel treno che sta arrivando a
Pietroburgo in un’uggiosa alba di novembre, nebbia e gelo che si scioglie,
stagione impura. Rientra da una clinica svizzera dove era stato mandato fin da
bambino e curato da uno psichiatra dal metodo dolce, vivendo felice fra i
ragazzini. Parla con un coetaneo, ventisei anni, ma bruno, lo sguardo cupo.
Quanto Myškin è luminoso e aperto, l’altro, Rogožin, figlio ricco d’un
mercante, è oscuro e diffidente. E fra loro interviene il cicalante Lebedev,
coro dei clientes che farà da sfondo alla vicenda, un prometeo
dell’umiliazione. Lo stesso giorno a Pietroburgo Myškin incontra le altre personas
dramatis, tutte, a cominciare da Aglaja Epančina, la giovinetta bellissima
che si affaccia alla vita, sorella delle Nastaša Rostova e Kitty Šcerbàtskaja,
e una creatura dallo sguardo altero e tragico della quale lo colpisce un
ritratto e che prima di sera si troverà davanti aprendo una porta. E Natas’ja
Filíppovna che, rimasta orfana e allevata da un amico di casa, ha scoperto di
essere stata cresciuta non come moglie ma come squisita amante, e non lo
perdona né a lui né a se stessa. Il principe entrerà fin dal primo giorno nel
destino di tutti tre, accompagnandolo e quasi spingendolo a esiti fatali.
Perché il male è
già avvenuto. Il compagno di viaggio dagli occhi brucianti, Rogožin, è divorato
dalla passione per Natas’ja Filíppovna, passione che è frustrazione, bisogno e
arroganza. Anche Natas’ja Filíppovna è ossessionata dalla caduta che considera
irrimediabile: l’ex amante ha messo a disposizione una gran somma perché
qualcuno la sposi togliendola onorevolmente di torno, e lei accetterà il
giovane ambizioso che ha bisogno di quei soldi e però si vergogna di lei. Ma si
deve sapere di questa abiezione. Mentre lei lo svela in pubblico per umiliare
se stessa e i due, arriva Rogožin con una somma più forte: ti compro io.
Per il principe quella messa a nudo è insopportabile. Prega Natas’ja di
accettare la sua mano. Natas’ja è folgorata, le è restituita la dignità cui
pensava di non avere più diritto. Ma è un attimo: come trascinare in una caduta
ormai consumata quell’essere nobile e innocente ? Dice a Rogožin: portami via.
Prima o poi ti sposerò.
Questa di Myškin è
bontà. Ma non è un’oblazione. Myškin non regge quella messa a morte simbolica,
è trafitto dentro dalla sofferenza di Natas’ja, umiliata e offesa. Natas’ja non
si sbaglia su di lui, non lo chiamerà mai idiota, è il solo uomo, dirà, che ha
conosciuto. Non accettandolo gli rende, pensa, bene per bene. Ma non si
risolve a sposare Rogožin, sta con lui e non vi sta, mentre è il matrimonio che
lui ardentemente vuole, il vincolo che solo la farebbe sua. C’è in
Rogožin un bisogno tormentoso, un avere per essere e non riuscirvi, che
spaventa il principe come un altro dolore.
Nell’inverno che
seguirà a Mosca – ma ne sapremo da lontano, attraverso le voci di Pietroburgo –
il principe s’è scoperto ricco, in casa di Aglaja si parla di lui, Natas’ja
lascia Rogožin, corre dal principe ma di nuovo se ne va, lo sguardo di
Rogožin non lascia Myškin del quale è cupamente geloso. Ma i due si
attraggono come i poli magnetici, come gli opposti (la critica psicanalitica
penserà Rogožin come una proiezione del principe e viceversa); quando
Myškin torna a Pietroburgo qualcosa lo spinge a cercare la casa di Rogožin. La
riconosce dall’aspetto fosco e, in quella che è forse la scena più bella del
romanzo, Rogožin, che non parla mai, con lui parla, per quanto può si confessa,
prega la vecchia madre, quasi un’icona, di benedire Myškin. E davanti a una
copia della deposizione di Holbein a Basilea, parlano del Cristo che vi appare
così finito da far dubitare della resurrezione, chiave del cristianesimo. Che è
amore e speranza, come la Russia semplice e fedele che pure è il luogo degli
eccessi, va sempre «oltre» anche nell’errore. E Rogožin propone di
scambiare le croci che portano al collo, ma appena si lasciano – e
Rogožin ha balbettato una rinuncia a Natas’ja – una febbre lo riprende,
rincorre il principe e lo ucciderebbe se Myškin non fosse colto da un attacco
di epilessia sotto il coltello.
Quel coltello e gli
occhi di Rogožin saranno il fantasma che insegue il principe nel luminoso
giugno, attratto da Aglaja Epančina nel chiacchiericcio della villeggiatura
dove Natas’ja fa le sue provocatorie apparizioni. L’amore del principe per
Aglaja è trepido e umano, venato da tenerezza per quella inquieta gioventù. Ma
Natas’ja è malata di dolore e non gli aveva detto Rogožin «La tua
compassione è più forte del mio amore?» Aglaja non sopporta quel primato di
Natas’ja, la cerca, la invita crudelemente a smettere di ammantarsi del suo
martirio, di incombere sugli altri con la sua tragedia, vada a lavorare, sposi
un brav’uomo, la finisca – e Natas’ja, offesa in ciò che più le brucia, si
rivolta: se glielo chiedo, grida ad Aglaja, il principe sceglierà me. Myškin,
sconvolto dall’odio fra le due donne ha un attimo di esitazione, e quando
Natas’ja sembra svenire corre a sostenerla. Aglaja se ne va come una morta.
Ma ancora una volta
Natas’ja non si autorizzerà a sposarlo e già in abito da sposa fuggirà verso
Rogožin e la morte. Il principe la cerca nella notte bianca di
Pietroburgo, nella mente confusione, premonizioni e angosce come alla vigilia
d’un attacco, finché scorgerà Rogožin ed assieme entreranno nel buio e nel
silenzio fino allo studio appena trascorso dalla luna, dove giace fredda
Natas’ja, che ha atteso con gli occhi aperti il coltello di Rogožin. E là
l’ultimo spezzato scambio di parole, fa caldo, fra poco si sentirà l’odore,
copriamola di fiori… Myškin e Rogožin passano la notte abbracciati davanti
alla tenda che nasconde la creatura uccisa, le parole sono esaurite, il
principe gli accarezza piano la testa. Finché verranno l’alba e la gente e la
polizia, e l’uno finirà in Siberia e l’altro tornerà nella clinica svizzera.
È durata da
novembre a giugno l’epifania del principe Myškin, sullo sfondo una Russia che
si perde nelle illusioni del progressismo, della tecnica, della democrazia, del
socialismo, raffigurate nello studente Ippolít, conteso fra suicidio e morte,
fra odio e amore per Myškin. C’è fra loro un discorrere tragico fra grandi
antinomie, al di sopra delle modeste agitazioni dei ricchi, delle beghe dei
decaduti, dell’avidità degli usurai, d’un’epoca senza bussola dove il delitto è
diventato banale come via d’uscita.
Una hýbris
ha trascinato alla perdita Natas’ja, Rogožin, Ippolít, e il patire con loro
riporta il principe nella follia. Soltanto Aglaja avrà un destino mediocre – la
sola non estrema, non toccata dal male, dunque nell’impossibilità di capire,
senza tragedia ma senza felicità.
Che è dunque la
bontà? L’assoluta disponibilità all’altro. L’altro viene prima. Il principe
ascolta sempre, capisce sempre. Non perché ne condivida i motivi, perlopiù non
li condivide. Pensa che Natas’ja sia malata, e ha ragione. Che Aglaja spesso
sbagli, e ha ragione. Che Rogožin è oscurato dalla passione, e ha ragione.
Ma ne penetra l’animo come nessuno, ma arresta il giudizio davanti alla
condizione umana, quel dibattersi fino alla vertigine del bene e del male. Ne
prova una infinita compassione nel senso proprio del patire insieme. Non volta
mai le spalle, non abbandona nessuno, Myškin, fa sempre quel poco che gli
uomini possono fare l’uno per l’altro, non lasciarsi soli, perdonarsi.
Condizione di
questa apertura è la semplicità. Come se soltanto la persona cresciuta come il
principe fuori dal frastuono del mondo, in rapporto con la natura e i piccoli,
fosse capace di ascolto del prossimo suo – naturaliter cristiana.
Naturalmente in grado di cogliere quell’annaspare dell’intelletto e del
cuore, quella fatica del pensato e sperato che è la gemma in fondo a ogni
vivente.
La bontà non è un
fare né dare – anche se il principe è generoso e per nulla sciocco – ma essere.
Essere con l’altro sulla croce. Ma chi vuole vedersi in quello specchio ?
Myškin fa quasi paura, salvo alla generalessa Epančina, «buona» in un suo modo
confusionario. Lo sentono vicino i ladroni, Natas’ja Filíppovna crocifissa
dalla sua caduta, Rogožin crocifisso dal suo bisogno. Lo sente Aglaja,
come impossibile compagno d’una vita normale.
La bontà è inerme.
Il principe Myškin si percepisce debole, teme di non farcela, non è atto a
galleggiare sui torbidi marosi del presente; in questo senso «idiota». Ma chi
galleggia? Non la classe cui lui appartiene, che manca ai suoi doveri, non chi
vorrebbe cambiare inseguendo i sogni del progressismo. Ai colti nobili o
borghesi o a Terentiev – anche lui in croce ma una croce, pensa Myškin,
sbagliata – il principe oppone il suo ragionare lucido e caloroso, Myškin non
delira. Ma nulla riuscirà a impedire, più capisce meno potrà modificare. Il
mondo è del male. Il peccato ne è la prova.
La bontà è inutile.
O almeno non appartiene all’universo dell’utilità. Neanche il Cristo vi
appartiene. La salvezza resta un mistero, il mistero della croce. Dopo il breve
passaggio a Pietroburgo e a Mosca, al principe non resterà che tornare alla sua
clinica svizzera o a Dostoevskij di rimandarvelo.
Terribile è la
bontà. Aveva ragione Rogožin. E più che cristiana, è cristiana ortodossa –
perché il cattolicesimo si è corrotto nel mondo. La sua dimora è l’antica
Russia dal cuore estremo, la spada alzata contro la modernità devastante,
liberalismo, democrazia, socialismo, questione femminile, tutte corruzioni d’un
bene originario, tutte in senso proprio idolatria.
Si potrebbe
dubitare infine che la bontà sia altro che una parossistica e fantasmatica
virtù occidentale. Nel fare dell’Idiota un film (Idiot, 1951), Akira Kurosawa
disegna la tragedia dei quattro in un gelido Giappone postbellico, senza il fumigante
secolo russo della metà dell’Ottocento, senza socialismo e senza cristianesimo.
È un capolavoro. Ma mentre Dostoevskij riconoscerebbe la splendida
Natas’ja (Setsuko Hara), la splendida Aglaja (Yoshiko Kuga), lo splendido
Rogožin (Toshiro Mifune) non riconoscerebbe Myškin in quella creatura
dolce e stupefatta (Masayuki Mori). Come se amore e gelosia e disperazione e
violenza fossero universali, l’assolutamente buono no.
1 Apollon Nikolaevic Majkov, poeta (1821-97) è uno
degli amici e corrispondenti più intimi. Cfr. E. Lo Gatto, Nota introduttiva a
F. Dostoevskij, L’idiota, Firenze 1958, p. 3. Una parte più cospicua della
lettera è pubblicata in F. Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e
cura di G. Pacini, Milano 1994, p. 81. Altri passaggi in V. Strada, Il «santo
idioto» e il «savio peccatore», introduzione a F. Dostoevskij, L’idiota, Torino
1994, traduzione di A. Poliedro. Il carteggio completo e in ID., Pis’ma, a cura
di S. Dolinin, vol. II, Moskva-Leningrad 1930, pp. 55-66.
2 Sofia Aleksandrovna Ivanova è la nipote più amata, cui sarà dedicato L’idiota. Cfr. Lo Gatto, Nota introduttiva cit. e più ampiamente in Dostoevskij, Lettere sulla creatività cit., p. 84.
3 Ibid.
4 Lo Gatto, Nota introduttiva cit., p. 14. Un altro
stralcio in Dostoevskij, Lettere sulla creatività cit., p. 92.
5 Lo Gatto, Nota introduttiva cit., p. 14.
6 Ibid., p. 7. Cfr. anche F. Dostoevskij, Diario di
uno scrittore, Torino 1943.
7 Ibid.
* * *
tratto da:
2002
Grandi Opere
pp. XIV – 748
€ 80,00
ISBN 9788806152918
Grandi Opere
pp. XIV – 748
€ 80,00
ISBN 9788806152918
Nella sala macchine del romanzo. Come funziona. Come
seduce. Come ci porta in altri mondi.
Dall’anticipazione:
Dopo il primo volume, La cultura del romanzo, che ha analizzato il romanzo nel mondo (chi ha provato a mandare il romanzo in galera e chi se l’è portato in vacanza, il romanzo che dà una mano a rafforzare le lingue nazionali e il romanzo che baruffa con la scuola…), il secondo volume passa ora a vederlo dall’interno. È come aprire il cofano di questa macchina che racconta storie, per cercare di capire in che modo funziona, quali sono gli ingranaggi che la muovono e le caratteristiche che più la fanno amare: batteria, spinterogeno, raffreddamento… descrizione, stile, temporalità. Nel secondo volume a essere studiato non è più chi scrive i romanzi e perché, ma il come si scrivono. E ciò che subito emerge è che ci sono tanti come possibili. Il romanzo è in realtà: i romanzi, al plurale, come plurale è il titolo di questo secondo volume. I romanzi sono sia storie d’avventura sia discussioni filosofiche, raccontano sia le peripezie di fidanzati buonissimi e castissimi sia di amanti senza scrupoli e di giovanotti ambiziosi, usano una lingua facile oppure difficilissima, possono essere scritti in prima persona o in seconda o in terza, vanno avanti una sorpresa dopo l’altra oppure si perdono in mille digressioni. La verità del romanzo è che sono tanti. Il secondo volume mostra l’incredibile inventiva che nel corso dei secoli e dei paesi è stata sperimentata da questa forma. La struttura dell’opera, con saggi lunghi di dibattito e letture più brevi di approfondimento, permette di attraversare e di seguire percorsi impervi e poco battuti e nello stesso tempo di mettervi un po’ di ordine. La scommessa intellettuale è infatti come riuscire a ordinare questa specie di giungla senza sacrificarne la varietà. Il volume prova a farlo seguendo due direttrici. La prima è interna al romanzo: vengono esplorati i generi letterari e la scrittura romanzesca, si passa da storie con una fortissima carica idealizzatrice a quelle realistiche, dal sentimento all’avventura, dal romanzo rosa a quello nero, esplorando anche i rapporti del romanzo con l’industria culturale. La seconda direttrice è invece esterna, lo analizza in rapporto ad altre forme narrative “di confine”: l’epica, la novella, il giornalismo ecc. Il volume si conclude con la lettura di alcuni romanzi che hanno avuto la pretesa di essere onnicomprensivi: Bouvard e Pécuchet, Tristram Shandy, Il libro dell’inquietudine di Pessoa, o Paradiso di Lezama Lima. L’iconografia a colori firmata da Antonio Faeti racconta come nel corso dei secoli è stata illustrata l’avventura.
Dopo il primo volume, La cultura del romanzo, che ha analizzato il romanzo nel mondo (chi ha provato a mandare il romanzo in galera e chi se l’è portato in vacanza, il romanzo che dà una mano a rafforzare le lingue nazionali e il romanzo che baruffa con la scuola…), il secondo volume passa ora a vederlo dall’interno. È come aprire il cofano di questa macchina che racconta storie, per cercare di capire in che modo funziona, quali sono gli ingranaggi che la muovono e le caratteristiche che più la fanno amare: batteria, spinterogeno, raffreddamento… descrizione, stile, temporalità. Nel secondo volume a essere studiato non è più chi scrive i romanzi e perché, ma il come si scrivono. E ciò che subito emerge è che ci sono tanti come possibili. Il romanzo è in realtà: i romanzi, al plurale, come plurale è il titolo di questo secondo volume. I romanzi sono sia storie d’avventura sia discussioni filosofiche, raccontano sia le peripezie di fidanzati buonissimi e castissimi sia di amanti senza scrupoli e di giovanotti ambiziosi, usano una lingua facile oppure difficilissima, possono essere scritti in prima persona o in seconda o in terza, vanno avanti una sorpresa dopo l’altra oppure si perdono in mille digressioni. La verità del romanzo è che sono tanti. Il secondo volume mostra l’incredibile inventiva che nel corso dei secoli e dei paesi è stata sperimentata da questa forma. La struttura dell’opera, con saggi lunghi di dibattito e letture più brevi di approfondimento, permette di attraversare e di seguire percorsi impervi e poco battuti e nello stesso tempo di mettervi un po’ di ordine. La scommessa intellettuale è infatti come riuscire a ordinare questa specie di giungla senza sacrificarne la varietà. Il volume prova a farlo seguendo due direttrici. La prima è interna al romanzo: vengono esplorati i generi letterari e la scrittura romanzesca, si passa da storie con una fortissima carica idealizzatrice a quelle realistiche, dal sentimento all’avventura, dal romanzo rosa a quello nero, esplorando anche i rapporti del romanzo con l’industria culturale. La seconda direttrice è invece esterna, lo analizza in rapporto ad altre forme narrative “di confine”: l’epica, la novella, il giornalismo ecc. Il volume si conclude con la lettura di alcuni romanzi che hanno avuto la pretesa di essere onnicomprensivi: Bouvard e Pécuchet, Tristram Shandy, Il libro dell’inquietudine di Pessoa, o Paradiso di Lezama Lima. L’iconografia a colori firmata da Antonio Faeti racconta come nel corso dei secoli è stata illustrata l’avventura.
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