14 giugno 2013

RIVOLUZIONE A MESSINA





GIANFRANCO FERRARO - BUON GIORNO MESSINA

Momento storico nella città dello Stretto: Renato Accorinti, candidato con una lista civica, va al ballottaggio. Prima l’esultanza, poi quattro giorni per contare e ricontare voti su verbali mal compilati, con una commissione elettorale stremata e presidenti di seggio introvabili. Eppure alla fine “Renato” ce la fa davvero: compattando sinistra e movimenti, e trascinando il mondo delle parrocchie e dello sport, il professore messinese, uomo-bandiera del No Ponte e dell’antimafia, supera il candidato del centrodestra e va al ballottaggio contro il candidato del centrosinistra Felice Calabrò, uomo simbolo dell’accordo al centro tra due giovani lupi d’antico pelo democristiano, ora nella stessa maggioranza a Roma: il ministro Udc D’Alia e il deputato Pd Francantonio Genovese. Una partita locale, ma non troppo…
Messina è città terracquea: terra e mare sono elementi indissolubilmente uniti nel corpo della città. Corpo geologico, architettonico, ma anche economico e sociale. È su questo corpo che i due elementi si affrontano, si azzannano a volte. Come accade talvolta con i poteri che tentano di dominarlo. Gli uomini, fin qui, hanno curato le ferite di questo scontro, imponendo una presenza chissà quanto duratura. Alla terra e al mare ruggisce a mezzogiorno il leone del campanile del Duomo, prima dell’Ave Maria su cui i messinesi regolano l’orologio. Già, Maria, venerata a Messina come “a Matri ‘da Littra”, la Madre della Lettera, in virtù di un’antichissima leggenda, i cui echi risuonano di icone bizantine, che vuole la comunità locale benedetta personalmente dalla madre di Cristo, da quel vicino Oriente che forse un tempo era ancora più vicino, proprio in virtù del mare. “Vos et ipsam civitatem benedicimus”, come è scritto all’entrata del Porto. Madre protettrice e rasserenante, semidivinità che accompagna dal mare il destino della città.
Ma c’è un’altra Maria, a Messina, dionisiaca. È quella della “Vara”, trascinata in una corsa infernale da migliaia di uomini e donne a piedi nudi il giorno dell’Annunziata, nel pieno della fornace di agosto, sulla sommità di un carro mobile in cui gli angeli si muovono in cerchio intorno al sole. Il grido “Viva Maria”, con cui i “capocorda” danno lo strattone iniziale, ha soppiantato nei secoli quello di “Viva il re!” che deve aver accolto la prima processione del carro, un carro trionfale appunto, dedicato all’imperatore Carlo V. Le liturgie religiose e civili provano ogni anno a dare una “forma” alla cosa, con difficoltà: è tradizione infatti che il sindaco corra dietro al carro per tutta la durata della processione, mentre il vescovo, da parte sua, si limita ad aspettarlo all’arrivo. Proprio nella piazza in cui, recita una lapide, “fatti precorrendo e idee Messina iniziava qui il Risorgimento italiano il 1 settembre 1847″.
Eppure, in quella doppia figura mitica di Maria, di terra e di mare, le anime della città, sempre a disagio tra i nuovi dominatori che attendono di passare lo Stretto dal “Continente” e gli antichi pronti a colpirla da dietro, dall’Isola, trovano plastica rappresentazione ancora adesso. Ma tra dominatori antichi e nuovi, il potere locale, oggi quello di poche famiglie borghesi indifferenti e incapaci di qualunque visione non predatrice sulla città (gli armatori Franza o gli ex birrai Faranda, ad esempio), è sempre costretto a confrontarsi con forme mobili, instabili come lo è la costa sabbiosa caratteristica di queste zone. E accade infatti, in momenti storici particolarmente liquidi come quello attuale, che, con tutta la sua forza, un potere non riesca tuttavia ad addentare completamente la città, né dalla terra né dal mare: a dare e a darsi forma. Il fondo sembra allora muoversi da sé. Le due Madonne si incrociano sul limitare del porto, ma a differenza del 15 agosto, quando si benedicono a colpi di fuochi d’artificio, stavolta non si salutano neppure.

Verifica dei poteri
A pochi mesi dalla spettacolare traversata a nuoto di Grillo, è inutile nasconderselo, quello delle amministrative non è stato un risveglio postelettorale come tanti altri a Messina. Una brezza estiva ha ripreso a baciare lo specchio d’acqua dello Stretto, apparentemente immobile fin dentro la falce del porto, e stempera la stanchezza di quattro giorni di riconteggio da parte della commissione elettorale: quattro giorni che tagliano comunque in due la storia della città. Alle 20.30 di giovedì, cento ore dopo la chiusura dei seggi, i risultati sono finalmente ufficiali, e il lievissimo scarto con cui il candidato del centrosinistra Calabrò non riesce ad agguantare il 50% del corpo elettorale risulta infine confermato.
“Abbiamo fermato una portaerei con la mano”, dicono al quartier generale del pacifista Accorinti, in festa per i quattro consiglieri comunali conquistati e per i numerosi successi nelle circoscrizioni. Da una parte lui, Renato, 59 anni, uomo-bandiera No-Ponte dotato di indubbio carisma, professore di educazione fisica per generazioni di messinesi, una vita in rivolta interamente trascorsa nella città dello Stretto prima come leader del movimento non-violento negli anni settanta e poi come strenuo oppositore del “verminaio” peloritano, ovvero di quel sistema di clientele e favoreggiamenti su cui la commissione Antimafia sollevò il velo alla fine degli anni novanta, proprio in occasione di un omicidio “eccellente”. Un sistema dentro il quale poche famiglie hanno costruito e mantenuto per decenni il proprio potere. E contro il “verminaio”, maglietta e jeans, Renato accetta mesi fa di candidarsi a sindaco. Con lui una lista civica costruita con pezzi importanti della sinistra peloritana, “tecnici” che godono di stime trasversali, e personalità del cattolicesimo di base: “cambiamo Messina dal basso”, un programma nel nome. Dall’altra parte, appunto, la “portaerei”. Di fatto una vera e propria verifica dei poteri in riva allo Stretto: ma che, per la posta di interessi e di figure in gioco, ha ricadute, soprattutto dopo il cappotto del centrosinistra agli ultimi ballottaggi, anche altrove.
Fuori partita il Pdl del deputato e segretario cittadino Enzo Garofalo, fermo al 18%, la massa critica del voto moderato messinese risulta spostato dal lato del candidato del centrosinistra Felice Calabrò: del resto, le liste berlusconiane non partivano favorite, vista la disastrosa avventura dell’ultima amministrazione di Giuseppe “Peppino” Buzzanca, figlioccio del vecchio senatore barcellonese, un tempo aennino, Domenico Nania. Per qualche tempo addirittura capogruppo a palazzo Madama ma caduto in disgrazia ad Arcore e non più ricandidato, l’anziano viceré di provincia mal digerisce lo sgarbo e prova a giocare il tutto per tutto alle amministrative, togliendo il sostegno al candidato della destra. Con dubbi risultati, per la verità. Arenatosi in un nulla di fatto il tentativo di Buzzanca di rigiocarsi come deputato regionale, dalle ombre della giunta di centrodestra, da non nominare in città a causa della palese irresponsabilità con cui ha accompagnato Messina sull’orlo del default (a sua volta altrettanto irresponsabilmente scaricato dal commissario pro tempore Croce sulle spalle del sindaco prossimo venturo), c’è chi si è salvato come poteva: Elvira Amata, per esempio, ex assessora, è passata bagagli e voti tra i banchi del centrosinistra, mentre un altro ex aennino come Gianfranco Scoglio, amministratore di provata esperienza nella gestione privatistica del pubblico, decide per una volta di esporsi in prima persona, fermandosi sotto il 3%.
Una nave in pezzi, insomma, quella del centrodestra, senza più controllo su interi bacini di voto, soprattutto quelli della banlieue peloritana. È proprio di questi che prova ad approfittare il centro-sinistra messinese. Un blocco che si presenta alle elezioni come invincibile armata, ma che proprio come l’armata spagnola di fronte al cedimento del punto di forza principale, in questo caso l’imbattibilità fondata sui grandi centri coagulatori di voti, rischia di rimanere come un re nudo per quello che è: ovvero un blocco di potere che più democristiano non si può.
Tolta infatti la leggera tinta gauchiste di Sel, spaccata in due dalla decisione della segreteria di non ascoltare le perplessità degli iscritti, che infatti si candidano a mucchi nelle liste di quartiere di Accorinti e che, c’è da giurarci, faranno pagare caro la vicenda alla dirigenza locale, presa di mira, ora, anche dagli organismi nazionali, le liste di centrosinistra erano capitanate da un “bonu figghiolu” (bravo ragazzo), come dicono da queste parti, come Felice Calabrò, uomo d’apparato e per anni consigliere comunale in quota Pd.
In realtà a guidare neanche troppo sottocoperta ci sono due lupi di mare: uno del calibro di Francantonio Genovese, “Franzantonio” per gli avversari politici, nipote quarantenne del defunto barone doroteo delle tessere Dc in Sicilia orientale Nino Gullotti, legato alla società monopolista dell’attraversamento dello Stretto, la Caronte&Tourist dei fratelli Franza e, per altre vie, alla gestione delle ricche prebende della formazione professionale siciliana, nonché sindaco di Messina dal 2005 al 2007; e un altro come Giampiero D’Alia, figlio del Salvatore, anche lui deputato storico della Dc, per anni piccolo viceré siciliano Udc, vicesindaco di centrodestra a Messina, proprio con l’impresentabile Buzzanca, da sempre in convergente disaccordo con Totò Cuffaro, e oggi, dopo che la magistratura lo ha liberato del potente alleato agrigentino e dopo che ha lui stesso mostrato a Casini e a Monti come e dove si prendono i voti, divenuto ministro della Pubblica Amministrazione del governo Letta.
Due figli insomma, Genovese e D’Alia, della migliore stirpe democristiana che, dopo anni di conflitto sottobanco, ormai approdati alle paludi romane, decidono di stringere infine una pace armata proprio in occasione delle amministrative della città d’origine: una pace armata che, nell’intento di estromettere definitivamente il clan barcellonese dalla guida della città, potesse riconsegnare ai legittimi potentati locali la guida di feudi ormai in preda all’anarchia. Ma l’accordo tattico e pieno di moine tra nobili amici prelude in realtà, a Messina, come sempre accaduto, ad un nuovo confronto tra correnti, in vista di ben più cruciali scontri futuri. Sul piatto delle tribù, oggi unite e domani chissà, la torta di un territorio già scempiato da incuria e concessioni edilizie “impossibili”, e reso letteralmente merce di scambio finanziario. Come ciliegine, il rischio del dissesto finanziario per il Comune, un Ponte che, da fantasma del futuro, rischia di diventare fantasma del passato a causa delle penali da pagare, e un tessuto economico ormai desertificato.
Imprevedibilmente però la pace fatta a Roma dai due baroni messinesi si arresta incredibilmente in città sullo scoglio di una quarantina di preferenze che non consentono al candidato Calabrò di raggiungere il fatidico 50% con cui passare al primo turno. Un risultato cui lo hanno trascinato le otto liste, tra cui quella del Presidente Crocetta, salito in corsa su un treno che pareva vincitore, e che gli darebbero, con oltre il 65%, una maggioranza assoluta in consiglio comunale. Forte del suo 49,94% per cento Calabrò rinuncia a sparare tuttavia la cartuccia del ricorso, in parte ritenendo scontata una elezione al secondo turno, in parte sperando nella buona sorte al riconteggio. Ma la sorte stavolta potrebbe anche essere cieca. E Calabrò lo sa.

Una candidatura “dal basso”
Di scontato in politica non c’è mai nulla, ma a Messina men che meno: e sono in tanti a ricordare quando il magistrato progressista Franco Providenti sbaragliò al ballottaggio – erano gli inizi degli anni novanta – il candidato del centrodestra, medico-imprenditore della sanità privata, Carmona. Casi diversi, comunque. Ma è difficile capire come la candidatura Accorinti arrivi a diventare quasi una “moda”, se non si fanno i conti con gli eventi degli ultimi mesi. Prima le elezioni regionali, con lo sbarco di 16 deputati grillini a Palermo, tra cui la messinese Valentina Zafarana, ma anche col grande risultato personale ottenuto a Messina da una candidatura come quella di Gino Sturniolo, che non diventa deputato, ma che dimostra il consenso diffuso del movimento No-Ponte. È in questi stessi mesi che nasce, su Facebook, la candidatura a sindaco di Accorinti: una candidatura con radici lontane, fin dentro la storia personale del pacifista messinese, sottoposto a processo all’indomani della prima Guerra del Golfo e in prima fila contro la costruzione del Ponte, ma anche e soprattutto dentro la sua vita quotidiana di preparatore atletico e di professore di educazione fisica in una scuola media.
La campagna elettorale si adegua al personaggio. Poche migliaia di euro, rendicontate con un bilancio partecipato, qualche cartellone con Renato in bicicletta a campeggiare nei punti strategici della città, centinaia di volontari sparpagliati per la città, nei quartieri “bene”, così come in quelli più difficili. Nodo decisivo, questo. Accorinti raccoglie infatti in poco tempo non solo le ali più politicizzate della sinistra, ma il mondo delle parrocchie messinesi e il vasto orizzonte del cattolicesimo di base.
Se ci si chiede infatti chi appoggia Accorinti e come si stia formando un vasto consenso carismatico intorno alla sua persona e al suo programma elettorale bisogna guardare in quelle che fino a poco tempo fa erano semplicemente delle sacche di resistenza, politica in un senso molto ampio. Se ad opporsi criticamente al potere “di terra e di mare” dei Genovese (alleato dell’armatore Franza), dei D’Alia così come dei Ciucci, amministratore delegato della Società Stretto di Messina, sono sempre stati esponenti dei movimenti e della sinistra cittadina, ad opporsi ai “modelli” imposti da un capitalismo sempre più sfrenato, nelle “province dell’impero”, nell’orientare nichilisticamente le condotte di vita attraverso la pubblicità, ma incapace di dare risposte anche solo simboliche alle periferie e alle fasce di popolazione sempre più in coda di fronte agli sportelli di “compro oro”, sono stati a Messina anche e soprattutto quei centri di socialità cattolica, riuniti intorno ai preti di base, attivi soprattutto in periferia, o raccolti dai movimenti spiritualisti e neocatecumenali.
A queste direttrici si è aggiunto negli ultimi mesi il consenso trasversale raccolto dal movimento intorno ai “beni comuni”, coagulato a Messina da una esperienza di “restituzione” come quella del “Teatro Pinelli”, oggi in forze dalla parte di Accorinti.

Beni comuni
E proprio la questione dei “beni comuni” diventa il punto di coagulo ora più che mai decisivo per il ballottaggio, con la proposta in campagna elettorale di creazione di una “flotta comunale” in grado di abbattere il monopolio privato dell’attraversamento dello Stretto, così come quella, elaborata dal neoconsigliere comunale Gino Sturniolo insieme ad altri, di dare vita ad un Assessorato ai beni comuni che insieme a degli organi consultivi, le “consulte popolari” appunto, estenda il bacino di decisione democratica ben al di là del Consiglio Comunale. Una delle carte “mancanti” di Accorinti è infatti proprio questa: l’assenza di una maggioranza in Consiglio comunale. Ostacolo superabile, per Sturniolo, proprio “estendendo l’alveo della partecipazione democratica al di là del consiglio comunale” e facendo in modo così che il consiglio stesso diventi solo il terminale esecutivo di decisioni che “nascono e si discutono continuamente nel corpo stesso della società messinese”.
Una proposta dunque, quella dei “beni comuni”, che a Messina si trasformerebbe dal basso in creazione di nuove istituzioni locali che andrebbero ad affiancarsi a quelle preesistenti: fanno da sponda, in questo, la conquista di una delle presidenze di circoscrizione del centro città da parte di uno dei “renziani” del Pd, sconfessato dal suo partito e appoggiato invece da Accorinti, come Francesco Palano Quero, così come l’appoggio incondizionato ad Accorinti dato a livello nazionale dalla “rete delle città solidali”, così come da intellettuali come Ugo Mattei, Mario Pezzella, Carla Benedetti, ed Elettra Stimilli.
Su queste basi, impensabili fino a qualche mese da, in città si fa sempre più forte la sensazione che, comunque andrà a finire, un nuovo contropotere, locale e partecipato, stia infine nascendo dal rimescolamento di carte di questi ultimi anni. Un esperimento, quello di Accorinti, da tenere sotto osservazione proprio perché non evita di confrontarsi con il problema del potere, ma se lo pone senza dare il destro a inciuci e senza mettere a repentaglio la radicalità della visione di città. E’ il problema di un potere partecipato, democratico, che si pone fino in fondo, in quanto tale capace di superare gli steccati tra forme di resistenza e di controcondotta identitaria. Un esperimento che sfrutta le modalità mobili e imprevedibili consentite dai gruppi dei social network così come le “testimonianze” di vita porta a porta, e i comizi improvvisati nei mercati o dei banchetti: un lavoro costante messo in campo a servizio, e non a dominio, della città. Una idea non professionale, ma vocazionale, della politica, dice Accorinti. Sta di fatto che tra terra e mare qualcosa, a Messina, stavolta sembra muoversi davvero, dal basso.


DA:  http://www.democraziakmzero.org/2013/06/14/buongiorno-messina/
 

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