Cesare De Seta - Il sogno nel Rinascimento a Firenze
"A me, proprio mentre guardavo questo profluvio di sciocchi di cui il nostro tempo abbonda, del tutto disgustato, venne in mente che per vivere secondo le mie abitudini il posto migliore è dove si rifugiano i sognatori": queste parole Leon Battista Alberti le mette in bocca a Libripeta nell’intercenale del Somnium, introducendo un tema che affonda nella cultura più raffinata del Rinascimento e che avrà una sua restituzione visiva nel solare mezzogiorno e nel notturno e diabolico nord. Il sogno deve essere rappresentato: già, ma come? Visto che esso è inafferrabile persino a chi sogna e svanisce col sonno di chil’ha vissuto. Questa la temeraria sfida dell’iconografia nel corso di almeno due secoli, sfida che accettano molti artisti e mallo della mostra Il Sogno nel Rinascimento, a cura di Chiara Rabbi Bernard, Alessandro Cecchi e Yves Hersant, nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, a Firenze (fino al 15 settembre), catalogo Sillabe, con saggi di non comune impegno e tenuta scientifica. Hersant nel testo fondante d’apertura, propone una tassonomia del tema innovativa, che ha il pregio di scompaginare le carte di una copiosa tradizione storico-artistica, avvalendosi, con understatement che apprezzo molto, di una lettura semiologica che è alla base delle sezioni che scandiscono la mostra.
Oltre settanta pezzi tra sculture, tele, manoscritti, disegni, libri ci raccontano il sogno, così come l’ha vissuto una cultura che affonda le sue radici nell’imitatio della natura, ma che dinanzi al sogno vive una renovatio che non è solo quella dell’Antico, ma un modo di vedere l’irrappresentabile. Combinando cioè fantasia e mimesi, termini che erano e potevano apparire inconciliabili.
Lorenzo Lotto nella tavola Sogno della fanciulla o Allegoria della Castità (1505 ca.) rappresenta un sereno paesaggio con alberi e montagne sul fondo, al cui centro sta una fanciulla vestita che sogna a occhi aperti, sulla cui testa piove una pioggerellina di fiori bianchi che sparge un Amore alato senza frecce o faretra. Una satiressa, dietro un albero, spia divertita un satiro: la composizione è un enigma, un filo teso tra voluptas e virtus.
Virtù e voluttà sono per altro il tema del coevo Sogno del cavaliere di Raffaello, dove il Sanzio dispone il soggetto disteso a terra a occhi chiusi, alla destra una fanciulla con abito trasparente, e sulla sinistra un’altra con abito castigato e tra le mani una spada e un libro: l’allegoria è di trasparente evidenza e riprende il tema mitologico di Ercole al bivio. Il paesaggio è di una struggente malìa: poggi verdeggianti, un borgo e sul fondo un castello turrito, a sua volta allegoria della virtù.
Ben altra l’iconografia adottata dal Correggio che in Venere e Amore spiati da un satiro (1521 ca.) fa sgorgare la sua sensualità nel corpo completamente nudo della dea, mentre Amore con ali e faretra dorme accanto: i riferimenti possono essere l’Arianna del Belvedere in Vaticano, Tiziano o Francesco Colonna del Polifilo. Il satiro sta a guardare la dea e l’ostentata bellezza del suo splendido corpo luminoso, ma essa dorme, ha occhi chiusi e induce alla contemplazione del bello e alla sublimazione dell’arte, come voleva Marsilio Ficino.
Da associare e pressoché coeva il Risveglio di Venere, tela attribuita a Dosso Dossi: Cupido si scorge tra le nuvole e viene a destar la madre perché partecipi a una festa nuziale per assicurare fecondità all’unione.
Assai diversa la tela con l’Allegoria di Pan (1528-32): opera complessa per le interpretazioni che sollecita. Una fanciulla nuda dorme, sotto un manto blu si scorge uno spartito, una vecchia tende le mani per proteggerla da Pan, pendant di un’altra fanciulla abbigliata: un grande albero d’aranci domina la scena e sul fondo si schiude un magnifico paesaggio sorvolato da amorini che scoccano frecce. Marco Paoli sul Sogno di Giove di Dossi, Pacini Fazi editore, ha appena pubblicato un bel saggio molto pertinente al tema.
Ma se nel mondo mediterraneo i miti dell’Antico rivivono in forme sontuose che possono assumere forme erotiche e angeliche, nel nord dei Paesi Bassi il sogno assume fattezze diaboliche: il sogno diviene un incubo. Tale senza dubbio il caso di Hieronymus Bosch che nei quattro pannelli della Visione dell’Aldilà (1505-10) ci fornisce una versione postagostiniana e post-dantesca del Paradiso, con l’Ascesa all’empireo, la Caduta dei dannati e l’Inferno: sono queste due ultime tavole di una straordinaria drammaticità: sia per la scurissima cromia da cui emergono i mostri che tormentano i dannati, sia per il fuoco crepitante dell’inferno. Un’opera che è una sorta di premonizione di quanto si vedrà molti secoli dopo nella cultura simbolista e surrealista. La mostra ha anche il merito di offrire opere provenienti dai maggiori musei del mondo che in Italia di rado si sono viste.
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