Non c’era un piano (così almeno presumo). Ma da un certo momento
in poi il piano ha preso corpo: quando i soggetti interlocutori (ovvero,
sia pure moderatamente e modestamente, distinti e contrari) sono così
deboli e/o rinunciatari, è facile – diviene cammin facendo sempre più
facile, – costruire un piano alternativo alle loro (peraltro
estremamente confuse) intenzioni. E da quel momento, – e cioè dal
momento in cui è diventata chiaramente visibile la confusione in cui i
vari proponenti versavano, – il piano è stato applicato con sempre più
lucida consapevolezza e con una davvero superiore capacità di controllo
della crisi. La gente comune, però, -cioè noi, – ha visto solo la punta
dell’iceberg. Chissà se esiste in Italia un valoroso giornalista
d’inchiesta, che, oltre ad occuparsi delle malefatte dei consiglieri
regionali laziali e della compravendita di voti in Lombardia, sia
disposto ad occuparsi di ciò che è accaduto in Italia nelle “alte sfere”
della politica, dietro l’apparenza degli scenari visibili, nel corso
degli ultimi tre-quattro mesi? Sarebbe il colpo della sua vita (si spera
non in senso definitivo).Andiamo per ordine, perché andare per ordine
significa fermarsi un momento e dare ordine alle cose.Il primo movimento
è consistito nel negare al Pd di Bersani e conseguentemente all’intera
alleanza di centro-sinistra, di presentarsi alle Camere con il proprio
programma e di chiedervi il voto di fiducia. Non esistevano le
condizioni che tale verifica si concludesse positivamente? E allora? Il
centro-sinistra aveva la maggioranza assoluta dei voti alla Camera dei
deputati e una consistente maggioranza relativa al Senato. Aveva cioè il
diritto d’invocare una verifica parlamentare diretta, non
istituzionalmente traslata e, come dire, pregiudizialmente anticipata in
senso negativo (primo passaggio, dunque: questa cosa non può
funzionare, dunque non mi piace e perciò non si può fare).Negargliela
(ma si poteva?) significava mettere fin dall’inizio il resto del
processo sui binari giusti. Tolta quella verifica, non restava infatti
gran che. Come in tutti i piani ben congegnati, infatti, si poteva fin
dall’inizio tener conto sapientemente non solo delle proprie mosse e
intenzioni ma soprattutto (ripeto: soprattutto) di quelle altrui, deboli
e rinunciatarie fino alla dabbenaggine.
In questo senso il piano disponeva, spontaneamente e senza sforzo
alcuno, di un possente alleato: il Movimento 5 Stelle o, per essere più
esatti, la rozza ma coerente strategia del comico Giuseppe Grillo.
Questi, infatti, non avrebbe mai dato una mano al centro-sinistra per
superare la difficile impasse. Un eventuale affermazione del
centro-sinistra avrebbe rappresentato, a giudizio del comico, la fine
della propria espansione (non è detto peraltro che in quest’altro modo
tale espansione sia meglio garantita, ma tant’è: in certi casi si naviga
a vista). Negando il proprio appoggio al centro-sinistra di Bersani e
Vendola il comico Giuseppe Grillo si iscriveva perciò volontariamente
nella lista dei più potenti alleati di Silvio Berlusconi, anzi, almeno
in quell’occasione, di sicuro il più potente. Al tempo stesso, la mossa
grillina accentuava la deriva irresistibile verso un’altra possibile
soluzione di governo, quella che il piano portava in corpo dall’inizio:
la rendeva infatti con evidenza sempre più consistente, anzi l’unica
possibile.
Mancava però ancora un fattore essenziale del processo: chi, da possibile, lo rendesse reale. La partita perciò si spostava dalla faticosa ricerca di una maggioranza parlamentare per la formazione di un governo all’altrettanto faticoso scioglimento del nodo presidenziale. Qui il piano, svolgendosi ulteriormente, dava il meglio di sé.
Il Pd, messo di fronte a quell’impegno, dimostra platealmente di non essere in grado di esprimere un proprio candidato, condiviso e fino in fondo sostenuto. Due politici, in vario modo e misura rappresentativi, Marini e Prodi, vengono sacrificati sull’altare di questa incapacità.
Ma davvero si tratta soltanto d’incapacità? Davvero quell’incapacità è il frutto di lacerazioni correntizie e personali, che il Partito nel corso della sua storia non è mai riuscito a comporre e a superare? Oppure si tratta della naturale prosecuzione di quel disegno che c’era fin dall’inizio? I cento voti che vagano nel chiuso delle urne onde impedire l’affermazione di questo o di quello, rappresentano la sommatoria casuale di malanimi fra loro contrapposti o costituiscono la forza d’urto consapevole e unitaria con la quale raggiungere uno scopo?
L’acme del disvelamento si raggiunge quando, alle altre fallite candidature, ne subentra una particolarmente fuori della norma, quella di Stefano Rodotà. Essa viene fuori, in maniera inequivocabilmente strumentale, dal ventre del Movimento 5 Stelle. Ma, data la natura fuori di dubbio alta e incontestabile del personaggio (il quale, per intenderci, prima della consultazione elettorale, aveva insieme con altri invitato pubblicamente a votare per il Pd), essa poteva essere la via d’uscita dalla morsa che sempre più chiaramente s’andava serrando attorno a quel partito; e, al tempo stesso, avrebbe rovesciato sul Movimento 5 Stelle la natura strumentale dell’operazione, costringendolo finalmente a una scelta. Che mi risulti, questa possibilità non è stata neanche discussa negli organismi dirigenti del Pd, certamente non nei gruppi parlamentari. Se non è così, vorrei essere smentito (l’inchiesta giornalistica di cui parlavo potrebbe partire proprio da qui).
Il fatto è che l’assunzione da parte del Pd della candidatura Rodotà, quale che ne risultasse anche in questo caso l’esito finale, avrebbe messo in crisi il piano: e questo non era tollerabile. Qui s’intreccia il nodo che si vorrebbe conoscere più a fondo. Infatti, per portare alle sue conclusioni ultime il piano, era necessario sconfiggere (no, non sconfiggere: fare a pezzi) Bersani; e per sconfiggere Bersani, era necessario sconfiggere (no, non sconfiggere: fare a pezzi) il Pd.
Ecco il punto sul quale i politologi, se ancora ne esistono, si dovrebbero buttare a pesce. Nell’ombra delle organizzazioni politiche italiane la “figura” partito è, da tempo, sempre meno presente. E’ un partito il Pdl? E’ un partito Scelta civica? E’ un partito il Movimento 5 Stelle? In questo coacervo di gruppi proprietà personale di questo o di quello, il Pd manteneva una sua, vecchiotta ma dignitosa, fisionomia di partito (novecentesco) di massa. L’alleanza con Sel, foriera di un allargamento di quel partito a sinistra, da adottare secondo logiche, anche in questo caso, tradizionali, di partito, non faceva che accentuare questa sua caratteristica e tendenza.
Ebbene, non è difficile capirlo: per realizzare fino in fondo il piano bisognava distruggere persino il simulacro di quella centenaria unità organizzativa, qualcosa in cui esiste un qualche, per quanto approssimativo, canale di trasmissione fra la base e il vertice, i gruppi dirigenti si presentano e agiscono (almeno formalmente) secondo una logica democratica e gli eletti si sentono (o almeno dovrebbero sentirsi) obbligati a rispondere agli elettori, e cioè, per esempio, a non fare da eletti il contrario di ciò per cui sono stati eletti.
Il “governo delle larghe intese” comportava questa distruzione: e questa distruzione è stata puntualmente e rigorosamente compiuta. Il “governo delle larghe intese” rappresenta nel nostro prontuario l’ottavo pilastro della saggezza. Retrospettivamente, e sulla base dell’esperienza, ci si è resi conto che il “governo tecnico” non sarebbe stato sufficiente a conseguire tutti gli obbiettivi prefissati: ossia, per restare all’essenziale, un nuovo equilibrio di potere fondato sulla totale cancellazione dei vecchi parametri dell’agire politico in Italia, e forse, in prospettiva, in Europa, l’angolo visuale costituito dalla contrapposizione destra-sinistra, le politiche di governo orientate socialmente e, infine, la promessa di una promozione non fondata sulla corruzione (sostanziale, di comportamenti e di scelte, non necessariamente di soldi).
Ci voleva un governo di tutti per cancellare perfino il ricordo di un governo politicamente e socialmente orientato. Un governo che è di tutti non è però propriamente di nessuno. O meglio, è solo di un potere astrattamente considerato e simbolicamente rappresentato: quello che trascende il modesto gioco democratico al quale modestamente siamo stati educati nel quarantennio post-resistenziale e costituzionale, quello che affidava al voto la distinzione tra maggioranza e opposizione, tra governanti e governati, tra sostenitori della democrazia e suoi avversari.
La distruzione, anzi l’umiliazione, del Pd e, anche sul piano personale, del suo maggior leader, Pierluigi Bersani, costituiva infatti un solo versante, per quanto preliminare e fondativo, dell’ottavo pilastro della saggezza. L’altro, altrettanto indispensabile (se no, come si sarebbe giunti ragionevolmente a proporre e imporre il “governo delle larghe intese”?), era la restituzione al capo italiano del centro-destra (questo peculiarissimo, inconfondibile capo squisitamente “italiano”, che tanto ci ha distinto e a quanto pare continuerà a distinguerci nel mondo) della patente di grande e rispettabile “statista”. E’ quel che è puntualmente avvenuto. Tutto il resto è stato messo fra parentesi. Sicché non è illegittimo pensare che questa colossale rimozione etico-politica sia da considerarsi un tassello essenziale nella costruzione della politica delle “larghe intese”. E’ come se il
concetto
di morale pubblica fosse sacrificato sull’altare dell’opportunità
politica. Anche il dirlo è diventato da qualche tempo a questa parte
riprovevole.
Chiamerei tutto questo una sapiente “normalizzazione” del quadro politico italiano: ossia la sua costrizione a farlo funzionare anche quando non ne esisterebbero le condizioni. E’ la caratteristica, con aspetti più o meno rilevanti, di qualsiasi operazione d’impronta autoritaria. Solo che in Italia le “normalizzazioni” di tale natura sono sempre state piuttosto un “andare fuori della norma” con effetti, come tutti ricorderanno, in qualche caso devastanti. La mia impressione è che anche questa volta i dati principali dell’aggregato spingano in tale direzione.
Mancava però ancora un fattore essenziale del processo: chi, da possibile, lo rendesse reale. La partita perciò si spostava dalla faticosa ricerca di una maggioranza parlamentare per la formazione di un governo all’altrettanto faticoso scioglimento del nodo presidenziale. Qui il piano, svolgendosi ulteriormente, dava il meglio di sé.
Il Pd, messo di fronte a quell’impegno, dimostra platealmente di non essere in grado di esprimere un proprio candidato, condiviso e fino in fondo sostenuto. Due politici, in vario modo e misura rappresentativi, Marini e Prodi, vengono sacrificati sull’altare di questa incapacità.
Ma davvero si tratta soltanto d’incapacità? Davvero quell’incapacità è il frutto di lacerazioni correntizie e personali, che il Partito nel corso della sua storia non è mai riuscito a comporre e a superare? Oppure si tratta della naturale prosecuzione di quel disegno che c’era fin dall’inizio? I cento voti che vagano nel chiuso delle urne onde impedire l’affermazione di questo o di quello, rappresentano la sommatoria casuale di malanimi fra loro contrapposti o costituiscono la forza d’urto consapevole e unitaria con la quale raggiungere uno scopo?
L’acme del disvelamento si raggiunge quando, alle altre fallite candidature, ne subentra una particolarmente fuori della norma, quella di Stefano Rodotà. Essa viene fuori, in maniera inequivocabilmente strumentale, dal ventre del Movimento 5 Stelle. Ma, data la natura fuori di dubbio alta e incontestabile del personaggio (il quale, per intenderci, prima della consultazione elettorale, aveva insieme con altri invitato pubblicamente a votare per il Pd), essa poteva essere la via d’uscita dalla morsa che sempre più chiaramente s’andava serrando attorno a quel partito; e, al tempo stesso, avrebbe rovesciato sul Movimento 5 Stelle la natura strumentale dell’operazione, costringendolo finalmente a una scelta. Che mi risulti, questa possibilità non è stata neanche discussa negli organismi dirigenti del Pd, certamente non nei gruppi parlamentari. Se non è così, vorrei essere smentito (l’inchiesta giornalistica di cui parlavo potrebbe partire proprio da qui).
Il fatto è che l’assunzione da parte del Pd della candidatura Rodotà, quale che ne risultasse anche in questo caso l’esito finale, avrebbe messo in crisi il piano: e questo non era tollerabile. Qui s’intreccia il nodo che si vorrebbe conoscere più a fondo. Infatti, per portare alle sue conclusioni ultime il piano, era necessario sconfiggere (no, non sconfiggere: fare a pezzi) Bersani; e per sconfiggere Bersani, era necessario sconfiggere (no, non sconfiggere: fare a pezzi) il Pd.
Ecco il punto sul quale i politologi, se ancora ne esistono, si dovrebbero buttare a pesce. Nell’ombra delle organizzazioni politiche italiane la “figura” partito è, da tempo, sempre meno presente. E’ un partito il Pdl? E’ un partito Scelta civica? E’ un partito il Movimento 5 Stelle? In questo coacervo di gruppi proprietà personale di questo o di quello, il Pd manteneva una sua, vecchiotta ma dignitosa, fisionomia di partito (novecentesco) di massa. L’alleanza con Sel, foriera di un allargamento di quel partito a sinistra, da adottare secondo logiche, anche in questo caso, tradizionali, di partito, non faceva che accentuare questa sua caratteristica e tendenza.
Ebbene, non è difficile capirlo: per realizzare fino in fondo il piano bisognava distruggere persino il simulacro di quella centenaria unità organizzativa, qualcosa in cui esiste un qualche, per quanto approssimativo, canale di trasmissione fra la base e il vertice, i gruppi dirigenti si presentano e agiscono (almeno formalmente) secondo una logica democratica e gli eletti si sentono (o almeno dovrebbero sentirsi) obbligati a rispondere agli elettori, e cioè, per esempio, a non fare da eletti il contrario di ciò per cui sono stati eletti.
Il “governo delle larghe intese” comportava questa distruzione: e questa distruzione è stata puntualmente e rigorosamente compiuta. Il “governo delle larghe intese” rappresenta nel nostro prontuario l’ottavo pilastro della saggezza. Retrospettivamente, e sulla base dell’esperienza, ci si è resi conto che il “governo tecnico” non sarebbe stato sufficiente a conseguire tutti gli obbiettivi prefissati: ossia, per restare all’essenziale, un nuovo equilibrio di potere fondato sulla totale cancellazione dei vecchi parametri dell’agire politico in Italia, e forse, in prospettiva, in Europa, l’angolo visuale costituito dalla contrapposizione destra-sinistra, le politiche di governo orientate socialmente e, infine, la promessa di una promozione non fondata sulla corruzione (sostanziale, di comportamenti e di scelte, non necessariamente di soldi).
Ci voleva un governo di tutti per cancellare perfino il ricordo di un governo politicamente e socialmente orientato. Un governo che è di tutti non è però propriamente di nessuno. O meglio, è solo di un potere astrattamente considerato e simbolicamente rappresentato: quello che trascende il modesto gioco democratico al quale modestamente siamo stati educati nel quarantennio post-resistenziale e costituzionale, quello che affidava al voto la distinzione tra maggioranza e opposizione, tra governanti e governati, tra sostenitori della democrazia e suoi avversari.
La distruzione, anzi l’umiliazione, del Pd e, anche sul piano personale, del suo maggior leader, Pierluigi Bersani, costituiva infatti un solo versante, per quanto preliminare e fondativo, dell’ottavo pilastro della saggezza. L’altro, altrettanto indispensabile (se no, come si sarebbe giunti ragionevolmente a proporre e imporre il “governo delle larghe intese”?), era la restituzione al capo italiano del centro-destra (questo peculiarissimo, inconfondibile capo squisitamente “italiano”, che tanto ci ha distinto e a quanto pare continuerà a distinguerci nel mondo) della patente di grande e rispettabile “statista”. E’ quel che è puntualmente avvenuto. Tutto il resto è stato messo fra parentesi. Sicché non è illegittimo pensare che questa colossale rimozione etico-politica sia da considerarsi un tassello essenziale nella costruzione della politica delle “larghe intese”. E’ come se il
Chiamerei tutto questo una sapiente “normalizzazione” del quadro politico italiano: ossia la sua costrizione a farlo funzionare anche quando non ne esisterebbero le condizioni. E’ la caratteristica, con aspetti più o meno rilevanti, di qualsiasi operazione d’impronta autoritaria. Solo che in Italia le “normalizzazioni” di tale natura sono sempre state piuttosto un “andare fuori della norma” con effetti, come tutti ricorderanno, in qualche caso devastanti. La mia impressione è che anche questa volta i dati principali dell’aggregato spingano in tale direzione.
da: il manifesto del 14 giugno 2013
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