E’ appena uscita la nuova edizione italiana di Gender Trouble di Judith Butler (Questioni
di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, traduzione e cura
di Sergia Adamo, Laterza 2013). In questa lunga conversazione inedita, pubblicata ieri nel sito
http://www.leparoleelecose.it/ che ha
avuto luogo nel 2006 alla Cornell University, Judith Butler illustra e discute, con Sergia Adamo, alcuni dei temi fondamentali della sua opera.
Sergia Adamo: Vorrei cominciare da alcune cornici, per situare il
tuo lavoro e questa conversazione. La prima cornice che vorrei prendere in
considerazione è quella della traduzione. Mi sembra che una questione che è
sempre più importante nel tuo lavoro sia quella della traduzione culturale.
Nella prefazione del 1999 a Gender Trouble tu stessa definisci il tuo
lavoro come un atto di traduzione culturale del femminismo francese e
dell’ultimo Foucault nella cultura nordamericana. E nel tuo intervento nel
libro da te curato nel 2000 insieme a Slavoj Žižek ed Ernesto Laclau riprendi
questo problema e lo metti in relazione con quello dell’universale. Mi sto
chiedendo naturalmente se e in che modo le traduzioni italiane del tuo lavoro
potrebbero essere la spinta per un più generale processo di traduzione
culturale dei problemi che tu sollevi… Ma vorrei anche sapere da te come ti
poni rispetti al modo in cui i tuoi lavori sono stati tradotti in italiano,
rispetto alle scelte che sono state fatte, perché, per esempio (anche se questo
è davvero un esempio banale e semplicistico), Bodies that Matter, che è
sicuramente una risposta alle discussioni suscitate da Gender Trouble è
stato tradotto prima dello stesso Gender Trouble. Dunque, come ti poni
rispetto a tutto questo? Ma soprattutto, come pensi tutto ciò si possa legare
in senso più ampio all’idea di traduzione culturale?
Judith Butler: Comincio dalla domanda più facile, e cioè come mi
pongo rispetto alle traduzioni del mio lavoro. Beh, penso che non mi importa
particolarmente l’ordine in cui le cose sono tradotte perché in realtà le
persone non leggono comunque secondo la sequenza in cui le mie cose sono state
pubblicate. Non seguo molto da vicino le vicende delle mie traduzioni, il modo
in cui le mie cose sono tradotte o come sono recepite. Seguo, questo sì, le mie
traduzioni in tedesco e in francese perché lavoro in tutte e due queste lingue,
ma per lo più non seguo le traduzioni perché penso che quando un’opera arriva
in un’altra lingua è già un’altra opera, non è più una mia proprietà nel senso
forte del termine, lo è solo in un senso molto debole. Appartiene alla lingua
in cui è stata tradotta, e in quella lingua assume dei significati che io non
posso prevedere o anticipare. Perciò, sì, è interessante per me venire a sapere
qualcosa su come le mie cose vengono recepite su come funzionano o hanno
funzionato, ma sono solo una testimone, o un’osservatrice di questo processo.
Non sento di avere la proprietà di quel momento.
La nozione di traduzione culturale: dunque, c’è stato
un breve periodo di tempo durante il quale ho lavorato per un gruppo per i
diritti dei\lle persone gay e siccome questo gruppo aveva la sua sede negli
Stati uniti c’era sempre in ballo la questione se, in quanto, appunto, gruppo
con sede negli USA, stavamo sviluppando politiche che fossero imperialiste e se
stavamo imponendo dei valori. Quindi è stato ruotando attorno alla nozione di
imperialismo culturale o di ciò che si potrebbe chiamare imperialismo
epistemologico che ho incominciato a pensare alla questione della traduzione
culturale. E poiché si trattava di un gruppo che si dedicava ai diritti delle
minoranze sessuali, intendo dire minoranze lesbiche, gay, transgender, venivano
fuori molte questioni molto controverse che venivano considerate in modo molto
diverso a seconda della regione, della cultura, della religione di coloro che
le discutevano. Per esempio abbiamo discusso a lungo il problema della maggiore
età, e c’erano delle persone che pensavano “Oh, una persona deve essere
considerata maggiorenne a 14 anni” e ce ne erano altre che dicevano “no, forse
a 18” o “forse a 21” e c’erano grandissime differenze di opinione. Eppure per
qualunque motivo le persone dicessero o facessero quello che dicevano e
facevano c’era una sorta di consenso che emergeva nell’individuare quali
fossero le questioni chiave e perché dovessimo considerare proprio quelle come
questioni chiave. Ma per lo meno per un’intellettuale del “primo mondo”,
un’attivista, era necessario che la propria prospettiva fosse dislocata dall’altro\a
e credo anche, in secondo luogo, vedere come si è guardate dall’altro\a.
Dunque, non si tratta solo del fatto che la mia prospettiva cambiava attraverso
il modo in cui ero dislocata dall’altro\a. Si trattava più che altro del fatto
che ero messa davanti al modo in cui si è guardate dall’altro\a e che tutto ciò
si rifrangeva attraverso tutta una serie di posizionalità globali. Sai, devo
dire che dal punto di vista intellettuale e filosofico, la nozione di
traduzione culturale mi viene in parte dal lavoro di Gayatri Chakravorty
Spivak, ma anche da Walter Benjamin. E quello che trovo interessante in questa
nozione, e forse questo ci riporta alla tua domanda su come mi pongo rispetto
alle mie traduzioni italiane, è il modo in cui mi fa vedere questioni come la
fedeltà o la lealtà traduttiva: la fedeltà non mi interessa, la lealtà non mi
interessa, non penso si debba essere leali nei confronti dell’originale. Credo
che per comunicare passando attraverso una differenza culturale si debba subire
una distorsione e si debba subire un’infedeltà. E credo anche che Benjamin nel
suo saggio sul Compito del traduttore intenda questa distorsione dei
fini dell’originale come un impeto quasi utopico. Se c’è un contatto che si può
stabilire tra le lingue, questo ha luogo non certo in virtù di un’intenzione,
ma grazie a qualcosa nel linguaggio che rende possibile tale contatto. Perciò,
ci si sente veramente eclissate\i dalla propria traduzione, e penso che questo
tipo di eclissamento non sia un violare, o non lo sia necessariamente, anche se
ci sono momenti in cui lo è. Proprio in quanto eclissamento, può creare
l’opportunità di un contatto, può essere in un certo senso, l’unica opportunità
di contatto.
S.A. L’altra cornice all’interno della quale vorrei
inserire questa conversazione è legata in modo più specifico e contingente
all’attualità, a quello che stiamo leggendo ogni giorno sulle prime pagine dei
giornali, quello che sta succedendo in Libano. E di conseguenze, e più in
generale, tutto ciò è legato al problema della violenza e del non rispondere
alla violenza. In Precarious Life, per esempio, nel discutere lo iato
esistente tra perdite di vite umane che sono riconosciute e amplificate in
quanto tali e altre perdite che restano collocate al di là della sfera del pensabile
e di ciò per cui si può provare dolore, apri al problema dell’immaginazione di
un’etica non violenta fondata sull’apprensione levinasiana della precarietà
della vita che inizia con la vita dell’Altro\a e con la sua faccia. Poi, in
particolare in Giving an Account of Oneself, fai vedere come
tutto questo sia legato alla questione della responsabilità e al vacillare di
Levinas tra un senso preontologico della persecuzione come fondamento per la
responsabilità etica e la definizione ontologica che Levinas dà del popolo
ebraico come quello che è sempre perseguitato e non è mai persecutore. E qui
scrivi, cito le tue parole, che “questo sembra non solo confondere i livelli
dell’ontologico e del preontologico, ma anche dare un’inaccettabile licenza di
irresponsabilità e di possibilità illimitata di ricorso all’aggressione in nome
dell’ ‘autodifesa’.” (96) Non riesco a fare a meno di rileggere queste tue
parole in questi giorni pensando a quello che sta accadendo in Libano e al modo
in cui i media rappresentano e dipingono questa situazione…
J.B. Naturalmente mi dispiace che quello che ho scritto
sia vero. E allo stesso tempo non riesco a essere completamente dispiaciuta che
lo sia…
Penso tante cose su quello che sta succedendo… Penso
che veramente quello che stiamo vedendo è che Israele si preoccupa per i suoi
soldati che sono stati rapiti dai palestinesi prima e poi da Hezbollah, e non
c’è dubbio che questa sia una violazione del diritto internazionale e una cosa
sbagliata. Ma poi il modo in cui vediamo che tutto questo viene articolato
consiste nel fatto che i soldati hanno nomi e cognomi, nomi di battesimo, e
hanno famiglie che li piangono e hanno storie dietro di loro e luoghi dove
vivono, e dunque hanno una vita, delle ambizioni, delle speranze e dei sogni. E
quindi riusciamo ad avere una sorta di quadro completo delle loro vite,
sentiamo parlare i loro parenti alla televisioni, ci preoccupiamo per loro. E’
chiaro, secondo me, che c’è una sorta di identificazione culturale con i
soldati israeliani che viene prodotta dai media, per lo meno negli USA, di
certo all’interno di alcune parti della comunità ebraica di cui seguo le
vicende mediatiche e di cui io stessa sono parte. E poi c’è la distruzione di
massa di vite in Libano, e la situazione attuale che sembra essere quella di
qualcosa come mezzo milione o un milione di persone che sono ora rifugiate solo
nel Libano meridionale, e il numero sproporzionato di libanesi che sono stati
uccisi\e, compresi\e molti\e civili. Di sicuro non avremo mai quei nomi e di loro
non avremo mai storie o luoghi o addirittura facce. E dunque si potrebbe
sollevare la solita questione liberal, e cioè che certi gruppi sono umanizzati
e altri disumanizzati. Però penso che probabilmente quello che è più importante
qui è l’idea stesa di vita, e come questa viene strumentalizzata in entrambe le
direzioni. Mi riferisco anche alla sentimentalizzazione e si potrebbe anche
dire esagerata umanizzazione dei soldati rapiti. Voglio dire, quei soldati, non
hanno deciso di non andare al fronte. Molti soldati in Israele possono
scegliere un lavoro d’ufficio o all’aeroporto o in altre dimensioni piuttosto
che al fronte. Hanno voluto correre questo rischio per il loro paese, che siano
nel giusto o meno, questa è la loro posizione. E penso che quelle vite vengano
ora strumentalizzate per produrre un senso terribile delle uccisioni e dei
rapimenti fatti da Hezbollah e sicuramente del rapimento perpetrato dai
Palestinesi. Non so neanche se Hammas abbia rivendicato tali rapimenti, voglio
dire, se poi è questo il punto. In ogni caso, ci sono vite di cui si fa
facilmente a meno, comprese vite israeliane, quelle di Haifa, per esempio, e
tutte quelle vite libanesi, quelle dei\lle cristiani\e libanesi, che sono la
maggioranza in quella regione, sono tutte strumentalizzate allo stesso modo per
un disegno politico che stiamo ora vedendo in atto nel MedioOriente. Dunque non
si tratta soltanto del fatto che alcune persone sono umanizzate e altre sono
disumanizzate, c’è un intero apparato di potere che sfrutta la vita e distrugge
la vita per accrescere se stesso. Credo che questo sia parte di ciò che sta
accadendo. Alcune persone sono rimaste sconvolte da quello che sembra essere il
sostegno popolare in Israele per quello sforzo militare. Ma ho anche letto
diverse petizioni e diversi articoli che vengono sempre da Israele che mi fanno
dire che molti\e ebrei\e israeliani\e vedono tutto questo come un esercizio
della forza militare immorale e intollerabile che va molto al di là di ciò che
si può chiamare guerra. Mi sembra chiaro a questo punto che la forza militare
vorrebbe raggiungere certi obbiettivi politici e strategici che non hanno più
nulla a che vedere con il precipitare della situazione iniziale… C’è ancora
un’altra cosa che vorrei dire. Sto pensando di scrivere qualcosa sulla nozione
ebraica di vita. Perché penso che da un lato si possa dire, sì, “ah, gli
israeliani considerano la vita ebraica più di tutte le altre vite e sono pronti
a uccidere decine di persone in risposta a una o due persone uccise, o trecento
persone in risposta a otto persone uccise”. Ma dall’altro lato, mi sembra che
ci sia una certa dottrina all’interno del giudaismo che si concentra sulla
sacralità della vita, cosicché quando si dice in ebraico lohim che
significa vivere, bere una birra, un bicchiere di vino o qualunque altra cosa,
non si tratta della vita di qualcuno\a, non è una vita che è definita in base
alla nazionalità, e di sicuro non è solo la vita ebraica. Per questo penso che
ci sia davvero una prospettiva specificamene ebraica che può davvero insistere
sul valore della vita non costretta entro barriere di nazionalità e penso che
in Levinas ci sia una sorta di orribile oscillazione tra queste due
prospettive. E’ veramente un’oscillazione orribile. Da una parte Levinas ci
dice che la faccia dell’altro\a non a nazionalità, dall’altra ci dice che solo
quelli\e che hanno certe nazionalità possono avere una faccia.
S.A. Mi sembra di poter dire che la considerazione del
problema della violenza è sempre legata a doppio filo nel tuo lavoro al problema
dell’universale e dell’universalismo. A partire da Gender Trouble, e
forse questa può davvero essere vista come una costante del tuo lavoro, hai
proposto diversi modi di mostrare, di mettere in evidenza la violenza inerente
all’universalizzazione di concezioni normative dell’umano. Ma in seguito,
probabilmente anche sulla base di diverse letture che del tuo lavoro sono state
fatte, hai voluto puntualizzare che l’universalismo non è violento di per sé,
ma che ciò che è veramente importante è riuscire ad assumere una posizione
critica nei confronti delle condizioni stesse in cui l’universale può
esercitare la violenza. Questo mi porta anche a farti una domanda più generale
sul modo estremamente vivo e dinamico in cui si sviluppa il tuo lavoro. Ho sempre
trovato particolarmente interessante il modo in cui tu ascolti, leggi e rileggi
e poi rispondi ai tuoi lettori e alle tue lettrici e come il tuo lavoro sembra
veramente vivere in un’interazione dinamica con loro. Queste sono in realtà due
domande, non una…Mi chiedo se vuoi dire qualcosa su entrambe queste questioni,
il legame non aproblematico tra la violenza e l’universale e il modo in cui
lavori attraverso nodi problematici che emergono nel tuo dialogo con chi ti
legge.
J.B. Sicuramente ho bisogno dei miei lettori e delle mie
lettrici e mi piace il dialogo. E probabilmente penso meglio in relazione a
certi tipi di lettori e lettrici. Sono molto grata a chi mi legge e sono molto
grata anche a chi mi critica, soprattutto se mi fanno delle critiche intelligenti.
Ci sono alcune critiche che non forse non vale la pena di ascoltare, ma sono
poche… (ride) ma sì è sicuramente vero che raccolgo alcuni problemi che vengono
fuori in questo dialogo e cerco di lavorarci sopra.
Forse è vero che Gender Trouble riusciva solo a
vedere la violenza dell’universale. Penso che sia stato un momento molto
importante quando Drucilla Cornell e forse anche altra gente che lavorava nella
tradizione derridiana mi ha fatto notare che l’universale può presupporre
qualcosa a-venire, che può essere una sorta di enunciazione anticipatoria del
futuro. Ho dovuto pensarci e ho voluto fare i conti con questo. Probabilmente è
stato nella conversazione con Laclau e Žižek che ho fatto del mio meglio per
pensare questo problema. Ma penso anche che dicendo questo non ripudio la mia
prima posizione critica, ma solo la spingo oltre. Perché penso per esempio al
modo in cui la parola “democrazia” è usata nella politica mediorientale, quando
si sente parlare di democrazia e si sente dire che Israele è l’unica democrazia
in quella zona. Che cosa significa? Ci riferisce a dei diritti universali o ad
altre qualità o a un’altra giustizia? Ecco che abbiamo un porre l’universalità
in un modo che si rivela falso e dunque dobbiamo avere la capacità critica per
esporre tutto questo e per contrapporci. Ma non credo che ci si contrapponga a
tutto ciò semplicemente tornado la localismo o che.
S.A. Si tratta di mettere in gioco la traduzione
culturale….
J.B. Sì, credo si tratti di questo. Che cosa sappiamo per
esempio dell’idea di universalità così come essa è articolata nelle fonti
islamiche? Oppure, stavo pensando a questo: il concetto islamico di hudna
che ha a che fare con la riconciliazione. Che nozione di unità sociale è
questa? Abbiamo almeno incominciato a pensare a qual è il tipo di contatto che
permette a certi concetti di entrare in prossimità tra di loro? I concetti in
realtà mettono in atto quel contatto e mi sembra che questa sia davvero un’articolazione
dell’universale, non è un’instanziazione di un principio di universalità che è
preesistente, ma è un accadere dell’universalità o forse proprio ciò che
produce un’ulteriore articolazione o un’ulteriore possibilità.
S.A. Vorrei chiederti qualcosa adesso a proposito di
un’altra costante del tuo lavoro: il femminismo. Si potrebbe pensare che nel
tuo lavoro più recente, forse soprattutto in Giving an Account of Oneself,
apparentemente il femminismo non sia più davvero il centro del tuo pensiero.
Apparentemente. Si può dire che senti che in un certo senso il femminismo è
ancora, dopotutto, un discorso marginale e nel momento in cui avevi bisogno di
orientare le tue riflessioni su questioni più generali hai dovuto lasciarlo da
parte? O, al contrario, in che senso e in che modo pensi che il femminismo
possa essere un discorso fortemente egemonico? Sicuramente, tu hai saputo
mostrare proprio questo in molti altri luoghi del tuo lavoro. Penso che l’hai
fatto molto chiaramente, per esempio, in Antigone’s Claim, dove
davvero e in modo più che mai esplicito metti all’opera il femminismo e ne fai
la chiave per affrontare questioni cruciali che forse sono marginalizzate
all’interno del femminismo stesso, in generale.
J.B. Sicuramente continuo a pensare che il femminismo
rimanga una prospettiva potente attraverso cui riordinare il nostro mondo
concettuale. E forse è importante non perdere di vista il fatto che nel 2003
non ho pubblicato solo Precarious Life ma anche Undoing Gender, e
dunque un’intera raccolta, piuttosto corposa, di saggi che si occupano di
teoria femminista e poi un anno e mezzo o due anni dopo è uscito Giving an
Account of Oneself. Penso che probabilmente lavoro in questo tipo di
costellazione. Se in Precarius Life mi occupavo più delle questioni della
violenza e della politica del dopo 11 settembre, in Undoing Gender mi
concentro su politiche di genere, minoranze sessuali e così via. Forse Giving
an Account of Oneself è il risultato di un certo permesso che mi sono presa
di pensare alcune questioni filosoficamente fino in fondo, e ciò significa in
un modo che non si attiene immediatamente a questo o a quell’impegno politico.
Anche se ci sono dei momenti, nella critica di Levinas, in cui chiarisco che ci
sono anche implicazioni di questo tipo. Ma penso che forse ho bisogno di spazi
separati per fare quello che faccio e che non devo necessariamente cercare di
conciliarli. Non sono sicura di poter fare l’una cosa senza l‘altra. Voglio
dire: se avessi scritto solo Giving an Account of Oneself senza occuparmi
altrove di questioni transgender non sarei soddisfatta. Ma, di nuovo, forse è
produttivo per me non cercare di integrare il mio lavoro.
S.A. Pensi che si possa leggere quello che tu hai appena
detto, quello che hai chiamato il bisogno di avere spazi separati e la tua
resistenza a fare integrazioni che rappresentino il tuo lavoro come un insieme
lineare e coerente, pensi che si possa leggere tutto questo in relazione a una
rivendicazione della complessità, della non intelligibilità immediata in
termini più generali? Ti chiedo questo anche pensando al modo in cui il tuo
lavoro è a volte tuttora preso come esempio di scrittura eccessivamente
difficile, densa, criptica, che può spaventare e tenere a distanza chi legge.
Lo so, è una considerazione molto banale, e so che l’avrai sentita mille volte…
Ma mi piace molto il modo in tu rispondi a tutto questo, non semplicemente
difendendo in modo astratto la necessità di un certo tipo di complessità, ma
evidenziando e denunciando il diffuso anti-intellettualismo che giustifica
questo tipo di critiche e le implicazioni che stanno dietro tutto questo. E vai
anche oltre: ti chiedi proprio che cosa possa significare il fatto che la
complessità non sia davvero accettata come pratica intellettuale, nemmeno
nell’accademia. Vorresti dire qualcosa su questo?
J.B. Beh, qui negli USA ci sono molti problemi specifici e
uno di questi è che c’è una sorta di gergo che usiamo nella politica. Per
esempio, la gente dice: “Sono a favore di Israele” o “Sono a favore della
Palestina”. Beh, questo non dà nemmeno la possibilità di pensare in modo
critico, perché una persona può essere per esempio contraria a un certo tipo di
violenza commessa dai palestinesi e contemporaneamente contro la stessa
violenza commessa da Israele o contro diversi tipi di violenze che si
commettono in quella regione e che non sono riconducibili a una dimensione
statale. Ci sono molti modi di pensare tutto questo. Si può pensare, si può
sentire, che ci sono parti della vita politica palestinese che sono enormemente
promettenti così come ci sono parti della vita politica israeliana che hanno
ugualmente i loro aspetti promettenti. E se incominciamo a pensare in questo
modo non si ratta più di essere sottomessi all’idea di essere pro o contro
qualcosa. Ma negli USA, per lo meno, avere una posizione politica significa
essere a favore o contro qualcosa. Il fatto di introdurre la discussione della
complessità o dell’ambivalenza è considerato qualcosa di depoliticizzato.
Quindi, che cosa significa ciò? Significa che, per contare politicamente,
dobbiamo sottoscrivere visioni del mondo ridotte e semplicistiche e significa
anche che allo stesso tempo ci priviamo del potere di capire e afferrare il
mondo in cui viviamo. Per me uno dei punti chiave della critica è che questa è
un’operazione che ci consente di vedere perché le questioni politiche sono
definite nei termini dell’essere a favore o contro qualcosa. E quindi penso che
si debba persistere nel portare avanti un certo tipo di complessità e penso
anche che dovremmo essere capaci di usare l’ironia nel discorso politico e che
determinate circostanze storiche proprio lo richiedano. L’altro giorno stavo
leggendo un libro appena uscito che contiene i saggi di Derrida sul poeta Paul
Celan. Ed è incluso n questo libro il testo di un discorso che Celan ha
pronunciato in occasione del conferimento del premio letterario Meridian. Celan
parla di poesia qui e dice: “Penso che questo pensiero difficilmente vi
sorprenderà. La poesia è sempre appartenuta alle attese del poema esattamente
in questo modo: nel parlare per la causa dello strano. No, non posso più usare
questa parola [intende dire ‘strano’], parlare per la causa dello strano.
Esattamente in questo modo: parlare per la causa di un(’)altro\a. Chissà forse
per la causa del\la totalmente altro\a.” Io penso che questo sia importante,
perché quello che lui sta dicendo è che l’altro\a, qualunque cosa l’altro\a o
il totalmente altro\a sia, non è completamente catturato\a dal linguaggio.
Sente addirittura di non poter usare la parola ‘strano’, perché a suo modo di
vedere ‘strano’ è diventato troppo domestico. Dunque, questa è la domanda: come
è che apriamo davvero il pensiero di una nuova possibilità, quello che la
poesia era per Celan? Ma penso anche che la filosofia che voglia attenersi a un
certo tipo di complessità possa spezzare parte del peggior gergo semplicistico
del nostro vocabolario, quello che davvero ci impedisce di pensare.
S.A. Bene, allora parliamo di filosofia. Sto pensando al
saggio che chiude Undoing Gender in cui tu interroghi l’ “Altro” della
filosofia. E inserisci Hegel nel tuo discorso. In effetti vorrei chiederti
qualcosa a proposito del tuo riferimento costante a Hegel… Perché abbiamo
ancora bisogno di Hegel?
J.B. “Sputiamo su Hegel!”
S.A. Beh, questo adesso può sembrare semplicistico…
J.B. Ma c’è!
S.A. Sì decisamente, Carla Lonzi c’è in questo discorso,
sì… E c’è il femminismo italiano (se davvero di qualcosa che si può definire
come femminismo italiano esiste… ma sicuramente esistono diverse linee di
pensiero femminista che fanno riferimento alla cultura italiana), che mi sembra
stia cercando davvero di pensare attraverso il tuo lavoro. E’ una mossa molto
importante, un’occasione per cercare nuove direzioni. Ma vengo a Hegel. E alla
dialettica. Come ti poni nei confronti della necessità che si trova in
Foucault, Derrida ecc. di andare oltre un modello dialettico in relazione ai
tuoi costanti riferimenti a Hegel?
J.B. Quello che trovo interessante di Hegel è il problema
del termine della negazione. In realtà Foucault dice qualcosa di molto
interessante su Hegel alla fine dell’Archeologia del sapere, penso, ma
controllerò. In un’appendice Foucault dice che ogni volta che pensa di poter
superare Hegel, trova Hegel che lo aspetta. Credo che tutto questo abbia a che
fare con il ripudio. Come facciamo a ripudiare qualcosa una volta per tutte?
Come ripudiamo Hegel una volta per tutte? Anche se sputiamo su Hegel, l’avremo
mai fatta veramente finita con Hegel? Io sento che se Hegel continua a
ritornare in forme spettrali e se abbiamo sempre e comunque un conto in sospeso
con lui, è perché la negazione non si libera completamente del suo oggetto.
Quando nego qualcosa, do anche vita a questa cosa in un certo senso e in certo modo.
Ma non significa che questa cosa ritorni nella stessa forma, non significa che
ciò accada in un’unità, in una fusione tra me e ciò che nego. Io rifiuto tutte
queste dimensioni della dialettica, ma penso che il ripudio abbia una sorta di
potere costitutivo. Il ripudio ha e produce senso. Delinea e articola le cose.
E nella misura in cui accade, abbiamo ancora paura della negazione e in questo
modo abbiamo ancora paura di Hegel.
S.A. A me pare che tu abbia messo all’opera questa idea
del ripudio in particolare nelle tue letture di Lacan. Ma anche più in generale
nelle tue letture dei testi altrui, anche per esempio nel modo in cui leggi
Levinas. Tu leggi una serie eclettica di pensatori e pensatrici, li metti
insieme, per mostrare, per mettere a nudo i punti dove questi\e non arrivano, e
poi proprio attraverso questo tipo di lettura tu arrivi là, in quei punti, e
vai oltre. E’ un modo molto particolare di leggere, qualcosa che dà alla
lettura un ruolo molto importante. Voglio dire, sono stata a Irvine qualche
settimana fa, e ho ascoltato Gayatri Spivak; stava insegnando il tuo Antigone’s
Claim…
J.B. Oh! Mi fa paura!
S.A. No, no, davvero, ne ha detto solo cose molto
positive. Appunto, quello che ha detto Spivak è che in particolare in Antigone’s
Claim tu metteresti all’opera un’ “allegoria della lettura” di Lacan.
Dunque, questa allegoria della lettura può funzionare attraverso il ripudio? E
si può dire che sia proprio questa modalità di lettura a permetterti di pensare
il tuo lavoro e di riaprirlo continuamente?
J.B. Sai, vorrei continuamente ripudiare Lacan, ma il mio
ripudio non finisce mai, non finisce mai!!! Non lo ripudio mai una volta per
tutte!!! E’ vero che sto incominciando a dimenticare Lacan. E questo è un
pericolo. Se Lacan non è più interessante per me, allora c’è qualche problema.
S.A. Posso chiederti in che senso lo dici?
J.B. Beh, sono allarmata in un certo senso dal modo in cui
Lacan è stato ripreso da un certo tipo di ortodossia. Di sicuro negli USA, ma
c’è anche un’ortodossia francese, e Žižek, naturalmente se si considera
l’ultima parte del suo lavoro. Dunque, se io non sono una lacaniana sono libera
di leggere Lacan in diversi modi, e se non sono una lacaniana posso solo
incominciare a leggere Lacan, altrimenti non so davvero che cosa sarebbe, e
questo mi fa paura ed è qualcosa che non posso fare. Ma gli\le ortodossi\e tra
le altre cose dicono: “Sì leggo Lacan e non leggerò Foucault” oppure “Sì, leggo
Lacan e non cito Derrida”. Ok, allora che cosa succede se io non accetto questa
territorialità e metto insieme questi pensatori in modi che non ci si aspetta?
Mi sembra che si verifichi un evento di interazione nel momento in cui questa
conversazione tra diversi pensatori che non si supponeva potesse avvenire in
realtà ha davvero luogo. Questo mi colpisce e mi sembra un modo importante di
pensare al di là del dogma e dell’ortodossia, ma anche nel non permettere a
nessuno\a di ripulire quello che è una sorta di posizione egemonica. Se vuoi
lavorare con Foucault, io credo, devi spingerlo, metterlo a contatto con il
marxismo, metterlo a contatto con la psicoanalisi. Devi vedere come lui legge o
non legge altre opere in modi che potrebbero essere in tensione con Derrida,
per dire, o con altri\e. Altrimenti si è solamente protettivi\e, e penso che
nessuno\a vada avanti, nessuno\a possa essere veramente vitale sotto questa
modalità protettiva. E poi sai il ripudio,Verneinung in tedesco, è
cruciale. Divenne una questione enorme per Hyppolite nella sua breve
conversazione con Lacan. All’inizio degli anni Cinquanta, all’epoca di quella
conversazione, c’era una sorta di problema codificato tra Hegel e la
psicoanalisi. E poi penso che chiaramente Herbert Marcuse e Jessica Benjamin
hanno continuato, in direzioni differenti, a pensare a Hegel in relazione alla
psicoanalisi e al problema del ripudio. Benjamin pensa che la psicoanalisi sia
stata tropo investita dagli scenari del ripudio e crede di poter usare Hegel
per suggerire un diverso tipo di relazione con la differenza. Chiaramente
Marcuse intendeva tutto questo come una deformazione, una deriva da Hegel che
poteva essere contraria al tipo di prossimità che lui trovava per esempio nel Disagio
della civiltà. Sembra che se cambiamo le strutture della realtà, possono
emergere certi tipi di possibilità vitali. Ed è uno sviluppo di una sorta di
critica del principio di realtà. E questo è molto importante per la messa in
moto del potenziale politico della psicoanalisi. Anche se credo che quello che
voglio davvero è sempre stato poter essere critica nei confronti di quelle
forme di ripudio che credono di funzionare. Intendo dire, la melancolia
eterosessuale, per esempio. Se l’uomo eterosessuale crede di poter superare la
sua omosessualità una volta per tutte, scopre di dover riconoscere che questa
struttura è un compito perpetuo e che non avrà mai finito. Ecco, forse questo è
un altro esempio del modo in cui metto in moto una prospettiva hegeliana. E
sicuramente qui anche la nozione di riconoscimento per me è cruciale. Ma questo
è un altro discorso.
S.A. Vorrei rimanere nella cornice figurative del ripudio
e delle sue implicazioni. Il ripudio si riferisce alla dimensione della
famiglia e dei legami di parentela. In Antigone’s Claim tu usi
l’espressione “kinship trouble”, per indicare il problema dei rapporti di parentela
(un’espressione che mi ha colpito, naturalmente in relazione alla tua
formulazione di un “gender trouble”) e riesci veramente a mostrare la
centralità della questione, anche e soprattutto a livello teorico, a partire
dallo strutturalismo, ma non solo. E quanto è centrale in questo momento il
“kinship trouble” nel tuo lavoro? E come pensi che la sua centralità nel
presente possa essere dislocata e riformulata da una prospettiva femminista?
J.B. Sicuramente penso ancora tanto al “gender trouble”
(anche se non potrei dire esattamente che cosa significhi questa espressione…).
Ma mi sembra molto chiaro, è questo lo vedo ovunque vada, che i dibattiti sui
legami di parentela sono molto incendiari politicamente. Certo assumono forme
molto diverse a seconda dei luoghi, ma davvero sono incendiari ovunque. Penso
che anche a sinistra non ci sia una posizione univoca su queste questioni. Di
sicuro in Germania, in Francia, in Italia, non c’è accordo. Ci sono persone che
pensano in maniera molto forte che un bambino o una bambina debbano avere un
padre e una madre e che debbano avere un solo padre e una sola madre.
Altrimenti al bambino o alla bambina mancherà qualche possibilità di sviluppo
per orientarsi nel mondo o per capre la differenza sessuale. Oppure questo bambino
o questa bambina diventerà psicotico\a o artistico\a o addirittura quasi morirà
a causa delle conseguenze di questa situazione. Ma la maggior parte di queste
affermazioni si basa su un certo tipo di convinzioni relative alla struttura
della cultura e alla griglia di intelligibilità che stabilisce che cosa rende
tale un essere umano e che cosa no. Non si tratta di visioni empiriche, non ci
si interessa veramente del modo in cui madri sole si comportano con i loro
figli e le loro figlie, di come famiglie allargate vivono con i\le loro vari
figli\e, di come bambini e bambine adottate funzionano in relazione ai loro
genitori biologici e ai loro genitori adottivi, o delle famiglie gay e
lesbiche, o di qualunque altro tipo di sistemazioni che fanno una famiglia. Si
può trattare di parentela allargata, può essere la zia a diventare importante,
può essere la nonna che tira su il bambino o la bambina, può essere un gruppo
di persone che ne condivide la responsabilità, soprattutto in situazioni come
quelle dei rifugiati e delle rifugiate o per popolazioni in diaspora oppure
quando a metà famiglia è stato concesso di andare in esilio e all’altra metà
no. Voglio dire, ci sono tanti a tali esempi; ci sono cinesi per esempio che
per entrare negli USA devono mentire sui passaporti e usare documenti che
vengono presentati come quelli di parenti o altro e poi effettivamente
diventano parenti di quelle persone proprio attraverso quella procedura legale.
Che nuovo tipo di sistemazione dei legami di parentela è questo? Ne abbiamo
tanti esempi. Mi sembra molto chiaro che qualcuno come Ratzinger sta cercando
di rivolgersi a chi crede che ci sia un certo tipo di specificità, di
specificità assoluta nell’avere un bambino o una bambina e che questo\a debba
essere il risultato di una riproduzione naturale e debba conoscere il suo tipo
biologico. Ma il tipo biologico è un tipo teologico! Ratzinger invoca l’ordine
naturale, ma l’ordine naturale riflette quello teologico. In Francia alcune
persone vogliono un ordine naturale, ma perché pensano che l’ordine naturale
rifletta quello culturale; ma la loro nozione dell’ordine simbolico è una sorta
di teologia dislocata, la teologia della psicoanalisi secolare, in un certo
senso, la teologica che è incorporata acriticamente nella nozione dell’ordine
simbolico. Ma sai, sono entrambe delle cornici, e in questo modo abbiamo una
nozione di ciò che non può essere spezzato, di ciò che è assolutamente
necessario che abbia un suo luogo altrimenti viene meno la simbolizzazione.
Sono un po’ preoccupata del fatto che a volte al femminismo italiano sembra
mancare questa visione, quando sembra che dica che c’è una differenza assoluta,
che le donne hanno la capacità riproduttiva che le dispensa da queste
riflessioni e permette loro di sviluppare una posizione contraria alle
tecnologie riproduttive, anche perché queste potrebbero andare nella direzione
del fascismo. Ma qui non si tratta davvero di fascismo. Posso capirlo in
Germania, perchè là si ha paura di riprodurre le modificazioni genetiche
hitleriane. Ma, per esempio, in Israele nessuno\a si preoccupa di queste cose,
si desidera un vantaggio demografico per riprodurre quanti e quante più ebrei
ed ebree è possibile visto il timore che suscita la crescita di altre
popolazioni. Voglio dire, dipende da una serie di circostanze, da che tipo di
politica nazionale ci si trova davanti e dal modo in cui la si contestualizza.
Comunque è sempre qualcosa che suscita fortissime emozioni e su cui si sta
investendo enormemente.
S.A. Vorrei chiederti un’ultima cosa: riguarda l’idea del
dare conto di sé. Beh, in effetti un’intervista è in un certo senso un modo di
dare conto di sé… E probabilmente un modo che ha bisogno sempre di mettere in
questione i propri presupposti. La nozione del dare conto di sé è estremamente
complessa, si dà in una varietà di forme che si mettono a loro volta in
questione (e penso qui solo al modo in cui hai trattato il dare conto di sé in
Foucault). Quello che vorrei tu mi dicessi è in che modo vedi questi dare conto
di sé come distinguibile dalla narrazione tout court. C’è stato negli
ultimi anni un grande richiamare in causa la narrazione contro le politiche
identitarie. Tu ci dici invece che per aprire veramente nuove possibilità la
narrazione deve essere interrotta. Volevo sapere da te se pensi che la
narrazione sia ancora la scena di cui comunque abbiamo bisogno per dare conto
di noi stessi\e senza riaffermare un concetto forte di soggettività e di
identità, per quanto la narrazione debba essere interrotta, negata, forse
proprio ripudiata…
J.B. Sicuramente penso che la narrazione sia
importante e che se non avessimo la capacità di narrare non potremmo
funzionare. Sento di dover accettare questo. Non vogliono mettermi a
romanticizzare possibilità non narrative come fa Deleuze con la schizofrenia.
Penso che sia un problema. Ci sono modi di distanziazione e trauma che davvero
ci separano dalla capacità di narrare e cui bisogna guardare con attenzione e,
penso, molto seriamente. Da un’altra parte però, così come dobbiamo avere la
capacità di narrare, se dicessimo che a ogni vita deve essere data una forma
narrativa, che solo attraverso le forme narrative una vita assume davvero un
significato, allora mi sembrerebbe di imporre alla vita una certa idea di forma
narrativa che forclude la possibilità del nostro non volere o non essere capaci
di dire sempre perché siamo chi siamo, perché facciamo quello che facciamo. A
me pare che questo particolare tipo di capacità appartenga sì, in parte,
all’inconscio, ma appartenga anche alle condizioni sociali e linguistiche delle
nostre azioni che non possiamo spiegare fino in fondo. E questo è molto
importante. Segna i limiti della conoscenza di sé e del dominio di sé del
soggetto. Dunque, sono preoccupata del fatto che la narrazione possa diventare
una norma attraverso cui pensare l’intelligibilità della vita, e anche del
fatto che essa reinstalli la nozione di un soggetto conoscente autocosciente
come prerequisito per la vita. Credo che in realtà la vita non funzioni così,
la vita ci prende di sorpresa, ci troviamo a fare cose che non sappiamo in
anticipo, siamo mossi\e da una varietà di forze culturali, psicologiche e
politiche di cui non possiamo sempre dare conto fino in fondo. E’ parte del
nostro essere situati\e, ed è parte dei nostri limiti. E direi che in questo
senso la narrazione è parte dell’essere umani\e. Pertanto i limiti della
narrazione sono anche forse le tracce di un certo tipo di umanità, anche se
questa non è completamente intelligibile.
S.A. Ti ringrazio molto. Credo che tutto questo possa
essere declinato come un grande compito, estremamente stimolante, che ci
troviamo davanti. Penso solo al provare a ripensare tutto quello che hai appena
detto in relazione a rivendicazioni anche recenti della necessità di
riconsiderare le possibilità che forme, anche istituzionalizzate di narrazione,
come la letteratura, possono offrire. Penso al modo in cui Spivak, soprattutto
nel suo lavoro più recente propone di risituare la lettura letteraria e la
finzione narrativa esaltando la sua singolarità e la sua inverificabilità…
J.B. Sì, lo so, ma penso anche, beh, ne sono sicura,
che alla fin fine lei sia d’accordo con me (ride)
S.A. Da quanto ho sentito, è sicuramente d’accordo con
te! Grazie ancora.
[1] La conversazione che segue ha avuto luogo alla
Society for the Humanities della Cornell University il 25 luglio 2006. Molte
cose che ci siamo dette restano dunque strettamente e necessariamente legate al
quel momento e a quel contesto. Allo stesso tempo, però, sono state affrontate
alcune questioni nodali del lavoro di Butler, che poi si sono riproposte anche
nei lavori successivi al 2006 (Frames of War del 2008 e Parting Ways del
2012). Si è trattato in primo luogo di un tentativo di intrecciare alcune delle
riflessioni più significative che il lavoro di Butler suggerisce con la
prospettiva della traduzione culturale in una cornice che si può definire come
italiana in senso lato. I lavori di Judith Butler sono stati tradotti in
italiano a partire dal 1996, quando è uscito Corpi che contano (Milano,
Feltrinelli). Gender Trouble, che costituisce in qualche modo
l’ipertesto cui Bodies that Matter ha provato a rispondere attraverso l’iterazione
e il dialogo con le osservazioni critiche che il primo volume ha suscitato (in
particolare, una domanda insistente sull’irriducibilità del corpo a una
dimensione performativa), è stato tradotto in italiano solo nel 2004, con un
titolo editoriale (Scambi di genere) e una serie di operazioni
paratestuali che ne hanno significativamente risituato il fuoco di interesse. A
questa situazione ho chiesto a Judith Butler di rispondere in prima battuta non
tanto per chiamare in causa retoriche del ritardo e della manipolazione
localistica nei confronti della cultura italiana, quanto per impostare un
discorso più ampio sulle possibilità della traduzione culturale e della sua
concettualizzazione. Le risposte di Judith Butler in questo senso delineano
subito un motivo centrale dell’interesse che il suo lavoro suscita, la
percezione di essere parte di un processo di fondazione di discorsività che non
vale la pena di ridurre a un’autorialità individuale e che anzi si attiva in
continua relazione e negoziazione con le cornici e le situazioni che
interpellano il presente. Nei giorni in cui questa conversazione ha avuto luogo
erano appena cominciati gli attacchi israeliani sul Libano seguiti al rapimento
di due soldati, ed è a questo che fanno riferimento la mia domanda e le parole
di Judith Butler nella sua seconda risposta. A partire dalle considerazioni
contingenti che quella situazione, in quel momento, suggeriva e probabilmente
imponeva di fare, Judith Butler intreccia vari fili di pensiero che intersecano
una sua riflessione tuttora in corso sul problema della violenza e
dell’immaginazione non scontata della possibilità di non rispondere alla
violenza. Nodo cruciale del suo lavoro, a partire da Gender Trouble, dove
la posta in gioco teorica è davvero la possibilità di articolare risposte alla
violenza dell’universalismo che impone concezioni normative dell’umano, fino
all’esplicitazione che di questo problema fanno lavori come Precarious Life,
in relazione alla politica del dopo 11 settembre negli Stati uniti, e,
soprattutto, Giving an Account of Oneself. Si tratta per Butler si
lavorare sempre sulla doppia soglia di una critica delle condizioni e delle
posizioni che rendono la violenza possibile e di uno sforzo continuo di
immaginazione della possibilità della non violenza. Le modalità di questo tipo
di lavoro non sono scontate, operano attraverso una continua rimessa in
discussione dei propri riferimenti e un costante forzarne i limiti. Il che non
significa semplicisticamente travisare, ma piuttosto mettere in atto una
procedura più complessa, un pensiero che passa attraverso il pensiero altrui,
ne assume le responsabilità e il dettaglio, li rimette in gioco in maniera
vitale e dinamica. E provare a rimettere in gioco la vitalità e la dinamicità
del pensiero di Butler è un compito cui, voglio pensare, non possiamo
sottrarci.
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