Un binomio sofferto. Mafia e letteratura
di Niccolò Scaffai
«Mafia e letteratura… un binomio sofferto»: con queste
parole cominciava un articolo di Vincenzo Consolo su Sciascia come Sherlock
Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra, pubblicato nel 1994. Quel
pezzo fa ora parte di una raccolta uscita da Bompiani: Vincenzo Consolo, Cosa
loro. Mafie tra cronaca e riflessione. 1970-2010, a cura di Nicolò
Messina, pp. 320, euro 18,00. Il libro, da affiancare al volume dell’Opera
completa pubblicato due anni fa nei «Meridiani», contiene gli articoli
scritti da Consolo (Sant’Agata di Militello, Messina, 1933 – Milano 2012) tra
il 1969-70 e il 2010: l’ultimo pezzo, Poeti di Sicilia, uscì proprio nel
«manifesto», il 23 settembre di quell’anno.
Perché è ‘sofferto’ quel binomio che, pure, molta fortuna ha
avuto nel corso del Novecento? Perché, come spiega lo stesso Consolo in Mafia
e dc (1975), «se si incappa in certa letteratura “mafiosa” sulla mafia […]
o nei recenti libri di vasto consumo sul tipo del Padrino, si rischia di
pensare al mafioso come all’eroe positivo». In tema di mafia, Consolo
preferisce alla letteratura come finzione («Non di finzione purtroppo, non di
romanzo oggi si tratta», Pietà per chi muore sulla zattera di Medusa,
1992) la «scrittura di presenza» (così è intitolato un testo dattiloscritto del
1985). Una presenza cui tende purtroppo a sostituirsi il «dominio
dell’informazione visiva». Testimonianza versus comunicazione,
‘presenza’ versus letteratura: si equivalgono queste coppie oppositive?
Solo in parte, perché Consolo non è certo ostile alla letteratura o al romanzo;
se anche non conoscessimo la sua opera narrativa, basterebbero questi articoli
a garanzia del valore che Consolo attribuiva alla dimensione letteraria. Tra
realtà e romanzo, infatti, lo scrittore tende qui a istituire un richiamo costante:
tra i riferimenti spiccano Leonardo Sciascia, modello di una letteratura in
equilibrio tra rappresentazione e ragione, priva di ambiguità e atteggiamenti
mitizzanti nei confronti della mafia; Alessandro Manzoni, per l’esemplarità
civile che lo rende una ‘funzione’ costantemente riattivata nell’arco del
Novecento; e perfino I Beati Paoli (1909-1910), il romanzo di
Luigi Natoli tornato in auge (e in libreria) di recente, che Consolo cita come
esempio distintivo: la «leggendaria setta dei Beati Paoli, vendicatrice di
torti e dispensatrice di giustizia», è ben altra e più romantica cosa rispetto
alla vera mafia (Voragine a Palermo). Il punto è questo: per Consolo la
realtà smentisce e supera la capacità di male che il romanzo può contenere (se
per romanzo s’intende una rappresentazione troppo composta o suggestiva, che
evita il confronto con la mafia reale, rimuovendola o dandone una versione
bozzettistica). È un vizio antico: già Giuseppe Pitrè (1841-1916), il
‘demopsicologo’ siciliano da cui Verga aveva ricavato usi ed espressioni dei
suoi personaggi, definiva la mafia «coscienza del proprio essere», «nozione
esagerata della forza individuale». Una definizione ‘eroica’, insomma, che ha
contribuito a generare stereotipi e orientare la narrazione romanzesca della
mafia. Più grave, per Consolo, sembra la posizione di Capuana, che – alludendo
all’inchiesta di Franchetti e Sonnino – già appariva insofferente verso i
«cliché della mafia siciliana» e «la stampa a colori di una mostruosa
mafia-piovra, dai mille viscidi tentacoli». In realtà, Capuana non assolveva la
mafia criminale, ma ricordava come il significato originario del termine non
avesse una connotazione così negativa. Le parole di Capuana servono tuttavia a
Consolo per mettere in luce un atteggiamento, per denunciare una manipolazione
molto contemporanea: per esempio, secondo Totò Cuffaro (all’epoca governatore
della Regione) e altri politici e intellettuali dell’isola, a infangare la
reputazione della Sicilia non sarebbe tanto la mafia, quanto chi la condanna
pubblicamente (Disonore di Sicilia, 2005). È contro simili distorsioni
che Consolo reagisce: «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi,
nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione» (I
nemici tra di noi, 1982). Nostra: è a quest’impegno che Consolo
riserva il possessivo, riscattandolo dall’uso padrinesco nell’espressione ‘Cosa
nostra’, non a caso rifiutata nel titolo del volume. La prospettiva suggerita
dal quel titolo straniante – Cosa loro – ben corrisponde a quella dello
scrittore; non segna una distanza, non allude alla lontananza puramente
geografica che Consolo mise tra sé e la Sicilia, ma rivendica la condizione di
chi non è implicato e può perciò vedere e raccontare quella ‘cosa’ per quel che
è ed è stata. Consolo infatti parte sempre dalle origini del sistema mafioso,
dalla sua autentica vocazione e collocazione politico-sociale. Riassumendo le
tesi del saggio I ribelli (1966) di Hobsbawm, lo scrittore sottolinea le
analogie tra mafia e fascismo, fenomeni entrambi orientati «in senso
totalitario […] nelle due direzioni e verso i due poli dialettici, verso il
capitale (il potere) e avverso il lavoro (il proletariato), diventando quindi
potere politico esso stesso e nemico del proletariato». L’analisi è un antidoto
contro ogni deformazione romantica: è questa forse la sostanza del discorso di
Consolo, che attraversa i quarant’anni della sua pubblicistica contro la mafia,
lasciando emergere una morale importante anche sul piano della rappresentazione
letteraria, cinematografica e, oggi, televisiva. L’eccesso di racconto della
fiction, al di là della diversa qualità degli esiti, trasforma le condizioni
storiche e sociali alla base della dinamica mafiosa in situazioni, accentuando
le manifestazioni esteriori (spesso di maniera) e isolando singole figure, che
invitano a una paradossale identificazione. È di questo genere la critica che è
stata rivolta, ad esempio, alla serie televisiva Gomorra, che – proprio
perché narrativamente riuscita – fa della camorra un racconto epico. La fiction
e il libro da cui è tratta non devono essere censurati (altra cosa è criticare,
esteticamente, le cattive imitazioni); è bene però accostarvi, come
contromisura, un libro come Cosa loro. Bastano i nomi: nelle fiction, si
dà risalto al colore gergale, al diminutivo familiarizzante (Totò, Ciro,
Genny), al soprannome suggestivo; negli articoli di Consolo, i nomi che si
incontrano sono quelli di Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Giovanni Falcone,
Paolo Borsellino e molti altri che non richiamano un immaginario esotico (come
‘Sandokan’, soprannome del mafioso Francesco Schiavone) ma appartengono alla
storia italiana, di cui Consolo segue gli sviluppi, vedendo nessi e costanti,
dall’epoca della Democrazia cristiana a quella di Forza Italia e della Lega.
Proprio a un libro di storia somiglia a tratti Cosa loro,
innanzitutto perché storica è, come si è detto, la prospettiva dell’autore,
anche quando commenta fatti contemporanei; poi perché storici sono ormai gli
eventi e le figure che evoca e come tali vanno trattati. Cioè vanno ricordati,
interpretati, insegnati, specialmente oggi che di Cosa nostra non si parla
quasi più, o almeno non con la stessa urgenza con cui se ne parlava negli anni
Novanta (metà degli articoli qui raccolti, trentotto su settantasei, sono stati
scritti in quel decennio). Si parla molto – è vero – di mafie al
plurale, di camorra, ’ndrangheta; è un fenomeno che corrisponde all’effettivo
mutamento degli assetti e dei rapporti tra organizzazioni criminali. Ma uno
degli effetti di questa evoluzione è l’aver trasformato la mafia, attraverso lo
storytelling, dal male che è in un genere narrativo.
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