09 febbraio 2013

DEMOCRAZIA ALLA DERIVA





Ieri mi sono ritrovato a condividere questo pensiero del prof. Giuseppe Carlo Marino: " METTERCI LA FACCIA! Dilaga l'uso di questa brutta espressione di matrice videocratica e, pertanto, in sé e per sé, berlusconiana (da "politica-spettacolo", infatti). Dilaga, questo uso, ormai non poco volgare, sia a destra che a sinistra. Basta da sola a convincermi dell'estrema povertà del linguaggio (e del pensiero) della politica nelle attuali contingenze del Paese. Per favore, non "mettiamoci la faccia". Mettiamoci la testa! Il cervello, se ci riusciamo!"

Questa riflessione trova  uno sviluppo oggi nel pezzo seguente pubblicato  da http://www.democraziakmzero.org


PAOLO  CACCIARI -  DEMOCRAZIA ALLA DERIVA

Credo che dovremmo essere grati a Berlusconi perché riesce sempre a rende esplicita la deriva cui è giunta la democrazia liberale, ovverosia lo scambio politico tra due “beni”: il voto degli elettori e i benefici economici e patrimoniali che gli stessi elettori immaginano di ricavare consegnando quel voto ad una o all’altra rappresentanza politica. In una società dominata dall’economia di mercato il consenso politico è un sotto-mercato e il voto – alla fine dei giochi – è una fiche nelle mani del cittadino da infilare a scelta in una delle mirabolanti slot machine all’uopo apprestate dai vari partiti.
Nulla di nuovo, del resto. Vedi  la riedizione di alcuni articoli di  Ernesto Rossi (Contro l’industria dei partiti, Chiarelettere, 2012) che definì i partiti “macchine per fabbricare voti”. E’ interessante notare che pochi competitor di Berlusconi abbiano contestato la liceità  morale della sua proposta (la promessa di un rimborso cash di alcune tasse), quanto invece la sua relativa “credibilità” rispetto ad altre opzioni ritenute più realistiche e convenienti. E’ così che la “democrazia di mercato” vince per abbandono sulla “democrazia politica”.
Quando “l’interesse pubblico generale” finisce per ridursi al buon funzionamento dell’economia (e qui dentro si circoscrive lo spazio operativo concesso ai governi), allora inevitabilmente la dimensione politica del cittadino-elettore svanisce e rimane quella del contribuente/consumatore frustrato. Peggio. Se l’unica “volontà popolare” socialmente condivisa e politicamente ammessa è quella volta ad ottenere dei benefici economici dai governi, allora qualunque aspirazione che trascenda le regole auree dell’economia di mercato (produttività, accumulazione, redditività) diventa irrappresentabile sulla scena politica elettorale. Coloro che si azzardano a mettere in questione il dogma della crescita della ricchezza monetaria saranno giudicati sabotatori della democrazia stessa. Giungiamo così al capolavoro di una democrazia dove la ragione economica totalizzante (Postdemocrazia, la chiama un moderato come Colin Crouch, Laterza, 2012) porta ad  escludere la politica, intesa come quella azione collettiva tesa ad estendere i poteri di decisione dei cittadini ad ogni ambito di interesse comune.
Se i più esigenti elettori della sinistra si trovano oggi così in imbarazzo sul come giocare la propria fiche, forse, ciò è dovuto a questa poderosa erosione politica subita dalle democrazie “avanzate” nell’era paneconomica. E, per contro, dalla assenza di una visione politica che – per riequilibrare la rotta – dovrebbe paradossalmente vietarsi di occuparsi di economia, ed invece prendersi cura di tutte quelle cose extra commercium e di tutti quei beni (comuni) i cui valori umani e ambientali non hanno equivalenti in denaro, ma proprio per questo dovrebbero essere posti come vincoli invalicabili all’agire economico. Basterebbe.

2 commenti:

  1. Ma se la politica non si occupa di economia di cos'altro si deve occupare?

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  2. Anche se il ragionamento di Paolo Cacciari si muove sul filo del paradosso, penso anch'io che la politica non può non occuparsi di economia.
    Francesco Virga

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