Sul 68 è
stato detto e scritto tanto, spesso anche a sproposito. Oggi vogliamo parlare
di un libro, fresco di stampa, scritto da un protagonista di quella stagione. A
metà strada fra il romanzo storico e il romanzo di
formazione, "L'uso della vita" di Romano Luperini - assieme a
Sofri e Della Mea uno dei protagonisti del '68 pisano - ricostruisce soprattutto l’atmosfera di
quell'anno e il ritmo degli avvenimenti. Pubblichiamo di seguito una pagina del
libro ed una recensione stampata ieri dal Corsera:
Romano Luperini - "L'uso della vita.
1968"
Salì sulla Seicento, mise in moto,
guidò verso Pisa dove aveva appuntamento con Ilaria. I venti chilometri che lo
separavano dalla città erano ormai un solo cantiere e un solo paese. La
campagna era sparita, si costruiva da una parte e dall’altra della strada, una
doppia fila di palazzoni nuovi, centri commerciali, capannoni di piccole
officine.
Schegge di pensieri e di immagini
lo ferivano e subito si disperdevano nella mente. Quelle facce, tutte dietro un
tavolo, a guardarlo, a giudicarlo, il padre, il preside, la commissione di
controllo, quelle labbra, le labbra sottili di Togliatti, quelle gonfie e
massicce del Labbronico … E poi quelle altre labbra, le labbra di Sandra…
quella piega di dolore e d’accusa.
Ilaria lo aspettava davanti al
portone sbarrato della Sapienza. Non aveva più il sacco a pelo sulle spalle,
portava jeans attillati, e i seni le gonfiavano una camicetta colorata.
«Andiamo al Rettorato, poi, se vuoi, a Lettere, a Medicina, a Fisica, sono
tutte occupate», propose lui.
«Ma è sempre così fra D’Alema e
Sofri?», chiese lei mentre andavano. «Beh, sono più bravi degli altri perché
mettono in gioco qualcosa che va al di là dell’immediato. A D’Alema non importa
nulla né dell’assemblea né dei delegati, li ha accettati e proposti come
terreno di mediazione perché a lui interessa appunto la mediazione, il
controllo, l’apparato… lui in realtà crede solo negli organismi e nelle
strutture organizzati, nei gruppi dirigenti che tessono, rammendano, ordiscono
i fili della politica. E’ l’opposto di Sofri che crede solo al movimento. Anche
a Sofri in fondo non interessano i singoli obiettivi, non gliene frega nulla
che vengano raggiunti o no, non gli interessa un successo di per sé, gli
obiettivi sono per lui solo pretesti perché il movimento si muova, perché
cresca, cresca, cresca, senza arrestarsi un momento. Direi che Sofri ha paura
della tregua, della normalità, vorrebbe un perenne stato d’eccezione e di
eccitazione…».
Marcello guidava Ilaria di facoltà
in facoltà. Sulla porta delle aule erano stati attaccati dei cartelli che
portavano scritto in rosso Commissione controcorsi, Commissione controstampa,
Commissione salario e diritto allo studio, Servizio d’ordine, Commissione
studenti-operai, Commissione rapporti altre università. Era tutto un movimento
frenetico, nelle aule si tenevano controcorsi, si organizzavano turni di
vigilanza, si scrivevano documenti, si ciclostilava, si preparava la giornata di
solidarietà con le fabbriche in lotta della mattina successiva, si mettevano a
disposizione le auto, si formavano i gruppi destinati ciascuno a una porta
della fabbrica. Sulle lavagne delle aule campeggiava la scritta Tutti domani
mattina alle cinque ai picchetti della Fiat a Marina.
«Il piacere è l’azione, non il
riposo», disse Ottavio che incontrarono a Fisica. «Agire è divertente».
Nel cortile della Sapienza degli
studenti stavano giocando al calcio. «Vedete? », diceva Ottavio che li aveva
accompagnati sin lì, «non c’è differenza fra gioco e politica». Ogni grido,
ogni risata, ogni colpo di tacco, ogni dribbling erano politica. Il pallone che
rimbalzava sulla scrivania del rettore era politica, politica erano le poltrone
del suo studio sparse disordinatamente nei corridoi, il suo telefono che
serviva per tenere i contatti con gli studenti in lotta a Torino o a Trento, il
ciclostile che sulla cattedra dell’aula magna sputava fuori volantini su
volantini.
La politica, pensava Marcello, non
era una parte separata dell’esistenza, era la vita stessa di ogni persona. Lui
e i suoi compagni occupavano. Occupando un territorio, lo liberavano. Occupare
significava opporre un territorio liberato a un sistema globale, che assorbe,
fagocita, metabolizza tutto, che si nutre di tutto, che integra tutto al
proprio interno, anche il dissenso. Alla mediazione che smussa, nasconde,
accorda, sintetizza, procrastina bisognava opporre l’atto immediato, l’azione
subito, l’urgenza che non vuole aspettare, che esige subito, che deve ottenere
subito. Per questo, rifletteva Marcello, Adriano era l’unico leader possibile,
l’unico adatto al movimento. Gli faceva paura, ma era l’unico leader possibile.
Marcello e Ilaria andavano di
facoltà in facoltà e una strana gioia li avvolgeva. Si sentivano trascinati da
un flusso che li circondava e li proteggeva. La tensione emotiva non era più un
fatto individuale, era una parte dell’energia collettiva che li coinvolgeva.
Scompariva ogni sentimento solo personale. Scomparivano quelle schegge di
pensieri, quelle facce minacciose, quelle labbra… «Vedi», diceva Marcello a
Ilaria, «la felicità è diventata pubblica». E lei sorrideva, guardava
tutto, canticchiva the time is right for fighting in the street, boy.
Brano tratto
da: Romano Luperini, L'uso della vita.
1968. Transeuropa, 2013
Daniele
Giglioli - Il veleno che ha ucciso il Sessantotto
Colpisce, in
L'uso della vita. 1968, terzo romanzo di Romano Luperini, la diffrazione tra il
contenuto incandescente e il tono, come definirlo? Triste no. Cupo nemmeno, e
neanche amaro. Slontanato, forse; insieme partecipe e distante. E colpisce
ancor più se si pensa che l'autore, oggi uno dei nostri massimi italianisti, è
stato attore di primo piano negli eventi narrati, il '68 a Pisa, anticipazione
in pratica e teoria di tante cose che nel bene e nel male si sarebbero
concretizzate di lì a poco, con l'esplosione mondiale della rivolta da Parigi a
Praga, da Città del Messico a Berlino. Luperini, che definisce il suo testo
«una cronaca romanzata», sfugge insieme alla Scilla euforica dell'arroganza
alla «formidabili quegli anni» e alla Cariddi depressa dell'«eravamo belli e
bravi, ma purtroppo...».
E ovviamente non è affatto pentito, come tanti che ne hanno ricavato un mestiere, di quanto ha fatto, detto e scritto allora. Ma neppure lo rivende, tutto lustro e ammiccante, agli scontenti di oggi. Fa brillare il passato nella sua unicità, nella sua singolarità, nella sua lontananza: nessuna familiarità, nessuna morale a buon mercato. Perché diventi esempio occorre prima avvertirne la distanza.
Come in ogni romanzo storico, i protagonisti sono inventati e i comprimari celebri. Massimo D'Alema, per esempio, entra in scena con le parole: «avventurismo... disoccupare... portare a casa qualcosa»; e sarà poi sempre così. A lui si contrappone Adriano Sofri, mercuriale, inquietante, demiurgo del caos e dell'improvvisazione. Paziente e umano Luciano Della Mea, generoso e plagiabile un Ovidio Bompressi appena dissimulato sotto il nome di Ottavio; tutti colti al momento della genesi, prima che i luoghi comuni si impossessino della loro vita. Romanzesco è invece il personaggio principale, Marcello, cui pure l'autore deve aver prestato molti tratti. Figlio di un partigiano, espulso dal Pci perché in contrasto con la linea del partito, non più studente ma supplente precario, partecipa agli eventi con un trasporto che non sempre scongiura un sottile senso di esclusione: sarà quella la vita, la gioia, la giustizia? Di ogni passo compiuto paga il prezzo intero, compreso un soggiorno non breve nelle patrie galere, il contrasto durissimo col padre comunista, un aborto clandestino della ragazza con cui ha scoperto la felicità di avere un corpo. I brontolii sinistri che si annunciano li avverte nelle ossa, e non per senno di poi: suo allievo è quel Soriano Ceccanti che la notte di Capodanno resterà paralizzato per un colpo di pistola nel corso della contestazione alla Bussola di Viareggio; e si intuisce che Ottavio/Ovidio, il suo più caro amico, si sta preparando quale che sia un destino tragico.
Con leggerezza mai provata, Marcello vive e pensa per la prima volta in accordo; o cerca di farlo. Ma a ricordargli la tensione insopprimibile tra i termini provvede un altro personaggio storico, Franco Fortini, cui Luperini ha dedicato da critico pagine di grande penetrazione. Anche qui, d'altra parte, il narratore e il critico si sommano, e l'autore, come diceva Manzoni, vale veramente per due. I passi in cui compare Fortini, che al movimento dedica una riprensione fraterna senza sconti, sono raffinatissimi pastiches da sue pagine celebri, prima fra tutte L'animale, una grande poesia: un topo ucciso da un predatore, a sua volta condannato dal veleno che avrebbe comunque finito la sua preda, in una splendida, lucente mattinata d'estate. Non tutto ciò che brilla è vero; la coincidenza di pensiero e azione, morale e politica, è uno sconto immeritato sulla contraddizione; il «buttare tutto sé stessi» in un'impresa è mistificazione, perché il «tutto sé stessi» è un mito estetizzante. Altra fatica, altra responsabilità, altra perenne incompiutezza appartiene a chi pensa che il fine della rivoluzione sia l'«uso formale» della propria vita di cui al titolo, anche questo ricavato da Fortini. Formale perché frutto di progetto, liberato dall'insensatezza di un disordine mercantile che nella vita vede solo un fattore di profitto.
Leggerezza e progetto hanno senso solo insieme; separati, sono il veleno che ha ucciso tanto il movimento quanto il suo futuro, il presente spaventato e rancoroso che ci tocca. La serietà, la severità di tono con cui Luperini rievoca la propria storia, saldano in unità mirabile sentimento e giudizio. Sconfitto (o beffardamente trionfatore, come dicono oggi alcuni), il suo '68 è stato l'apparizione di una verità difficile: sprecata allora, irrisa oggi, ma che non per questo ha cessato di valere.
(Da: Il
Corriere della sera del 17 febbraio 2013)
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