La
scrittrice premio Nobel per la letteratura nel 1999 racconta la fuga dalla
Romania e il difficile arrivo in Germania. La necessità di rendere omaggio con
un museo alla tragedia dimenticata di tutti gli esiliati.
Herta
Müller - Vittime e burocrati
Ci hanno ingannati per farci venire fin qui, e stanotte ci imbarcheranno su un treno finto per rispedirci indietro. Ma per andare dove? Avevamo già riconsegnato l’appartamento allo Stato, come prescritto, «vuoto e ripulito», dopo aver regalato, distrutto o buttato mobili e suppellettili. Ogni nostro avere era contenuto in un’unica valigia. Dopo aver subito per anni le vessazioni della Securitate, avevo i nervi a pezzi, tanto da non sapere più se stessi piangendo o ridendo. Là, in quella sala d’aspetto, avevo irrigidito ogni muscolo della mia faccia. Mia madre aveva il mento tremante. Tre poliziotti ci guardavano fissi. Non si poteva parlare. Diedi di gomito a mia madre e sussurrai: «Non piangere, hai capito?» Infine ci chiamarono, ma non per farci salire sul treno. Ci toccava una seconda perquisizione corporale — come se dopo la prima avessimo potuto estrarre dall’aria della sala d’aspetto qualcosa di proibito da metterci in tasca. Finalmente un agente ci accompagnò al treno. Mentre salivo mi afferrò un braccio come per sostenermi, e mi disse: «Se lo ricordi bene: possiamo beccarvi ovunque». Il treno era già partito quando trovammo infine il nostro scompartimento. Ma solo dopo qualche tempo, quando alla luce dei fanali velati di nebbia intravidi la prima stazione in territorio ungherese, riuscii a credere che quel treno non era un inganno. Eravamo partiti davvero.
In Austria vi fu una sosta per una registrazione TV: il tema era la dittatura di Ceausescu. Il giorno dopo proseguimmo per la Germania. A Norimberga ci alloggiarono al Centro di accoglienza temporanea “Langwasser”. Fu quello il momento della trasformazione. Ancora il giorno prima, in Austria, ero una dissidente, mentre ora, a Norimberga, ero diventata un agente segreto. Per parecchi giorni, il Bnd (Servizio di informazioni federale) e il BfV (Ufficio per la Protezione della Costituzione) mi sottoposero a una serie di interrogatori. Colloqui, fin dall’inizio, surreali. Il funzionario mi chiede: «Ha avuto a che fare con i servizi segreti della Romania?» Rispondo: «O piuttosto, loro hanno avuto a che fare con me: non è la stessa cosa. « Il funzionario ribatte: «Queste distinzioni, le lasci fare a me. In fin dei conti sono pagato per questo. « Non appena cerco di raccontare tutto ciò che ho subito in Romania, mi interrompe. Ho l’ingenuità di credere che il malinteso sia chiarito, ma il funzionario insiste: «In ogni modo, se ha avuto un incarico, adesso è ancora in tempo ad ammetterlo». Gli chiedo perché mai non si era informato, prima di sospettarmi, su come stavano le cose in Romania. E per tutta risposta profferisce una frase che avevo sentito ripetere molte volte proprio dagli agenti della Securitate: «Le domande le facciamo noi».
Di volta in volta, i colloqui successivi diventano sempre più demenziali. Mi fanno vedere una serie di schede corredate da fotografie, chiedendomi di descrivere l’aspetto fisico degli agenti della Securitate con cui avevo avuto a che fare. Rettifico di nuovo: «O piuttosto, quelli che hanno avuto a che fare con me». Ma il funzionario fa finta di non sentire. Nelle schede si parla del vestiario, delle fisionomie, delle orecchie, delle unghie, che dovrei descrivere scegliendo tra una serie di aggettivi prestampati. Rispondo che in quei momenti non avevo fatto caso né alle orecchie né alle unghie, perché ero disperata, avevo paura di essere uccisa. Ma il funzionario ribatte come un automa: «Provi a riflettere». «Come faccio, — chiedo — a rammentare qualcosa che allora non avevo notato? A lei non è mai capitato di avere paura?» Ma anche stavolta lui finge di non sentire. Quando gli domando se i servizi segreti tedeschi riconoscono le spie romene che arrivano in Germania dalla forma delle orecchie o delle unghie, mi sento rispondere con la ben nota frase: «Le domande le facciamo noi». Mi concedono una o due ore di pausa per “riflettere”. Finita la pausa, tutto ricomincia daccapo.
La faccenda si protrae per vari giorni. Alla fine, tanto per farla finita, decido di scegliere uno qualunque degli aggettivi prestampati per ogni singola voce o parte del corpo che dovrei descrivere. Per il vestiario le opzioni sono: “elegante”, “trasandato”, “sportivo” o “funzionale”; e io dico ogni volta: erano vestiti come lei. A quel punto l’interrogante tedesco conclude con una punta di orgoglio nella voce: «Bene, allora mettiamo una crocetta accanto a “funzionale”». L’assurdo sarebbe continuato in tutti gli uffici che figuravano sulla mia “tabella di marcia”. A cominciare dal test linguistico — sostantivi da declinare, verbi da coniugare — che avrei superato. Ma nel colloquio successivo, in un altro ufficio, mi sentii chiedere se fossi tedesca, oppure perseguitata politica. Risposi: l’uno e l’altro. Ma il funzionario obiettò che tutt’e due non potevano stare insieme: non era previsto dal formulario. Dunque dovevo scegliere. Mi chiese poi se in Romania mi avrebbero perseguitata per quanto avevo fatto anche se fossi stata cittadina romena. Risposi di sì: un romeno avrebbe corso esattamente gli stessi rischi. E lui: «Ecco, vede come la verità viene fuori? Lei non è tedesca!».
Mia madre, che aveva chiesto il ricongiungimento familiare, si era procurata da tempo tutti i timbri prescritti. Riconosciuta come tedesca, aveva ottenuto da Berlino, in poche settimane e senza alcun problema, il suo certificato di cittadinanza. Mentre io l’ho atteso per un anno e mezzo. Di tanto in tanto telefonavo all’ufficio competente, per sentirmi rispondere sempre la stessa cosa: «È inutile che chiami, la pratica non si può accelerare. Abbiamo bisogno di svolgere ricerche approfondite». Al tempo stesso però ricevevo dalla Romania minacce di morte. Un agente del BfV venne da me per avvisarmi che la mia vita era in pericolo, e mi diede una serie di consigli: evitare di frequentare certi locali, non accettare mai inviti in appartamenti privati, in occasione di viaggi evitare di pernottare in camere al pianterreno, non accettare regali da estranei, al ristorante non lasciare mai distrattamente una sigaretta sul tavolo, non attraversare parchi o giardini da sola, in città tenere sempre una pistola scacciacani nella borsetta. Non mettere mai piede nella Rdt, perché la Stasi avrebbe potuto rapirmi per conto della Securitate e riportarmi in Romania. «In tal caso — precisò il funzionario — non potremmo più far nulla per lei, dato che non è cittadina tedesca. « Per il BfV ero una perseguitata da proteggere, mentre il Bnd e l’Ufficio di cittadinanza continuavano a considerarmi un agente. Al funzionario del BfV — che di cognome si chiamava Fröhlich (che significa gioioso — NdT), risposi allora con una frase imparata a Norimberga: «Allora sono una perseguitata o un’agente? Scelga lei, dato che le due cose non vanno insieme».
Le autorità tedesche erano incorse in un errore di persona. Mi avevano scambiata non per qualcun altro, ma per un personaggio creato di sana pianta a forza di calunnie. E dire che ogni anno, tra le decine di migliaia di immigrati provenienti dalla Romania per motivi di ricongiungimento familiare, arrivavano anche alcune centinaia di spie. Ma erano tedeschi, e in quanto tali venivano accolti a braccia aperte. Mentre io ero segnata a dito, perché non volevo accettare la negazione della mia vicenda di perseguitata politica. Perché questa era la verità: una verità pagata a caro prezzo. Non ero venuta in Germania per stare con mio zio. Ero un’esiliata: e per me questa qualifica non era negoziabile. La rivendicavo perché corrispondeva al vero. Ma per le autorità rappresentava un fastidio: non volevano sentir parlare di dittatura. E mi interrompevano ogni qualvolta cercavo di dire in che modo questa dittatura avesse violato persino gli aspetti più intimi e privati della mia esistenza. Pur di tenere in piedi il sospetto nei miei confronti, preferivano non sapere nulla della mia vita in Romania.
A Norimberga i termini “esiliata” e “cittadina tedesca” non potevano stare insieme. Si dà il caso che il Centro d’accoglienza temporaneo si trova quasi di fronte al palazzo in cui si tenne a suo tempo il Congresso Nazionalsocialista. È stato questo il primo shock, al mio arrivo al Centro “Langwasser”: da una finestrella si vedeva la struttura massiccia di un edificio, quello del Congresso di Hitler. Quando, tra un interrogatorio e l’altro, uscivo per strada cercando di placarmi la mente, ero sopraffatta da un senso di orrore: l’inverno, il buio anticipato, i fiocchi di neve, e quel mostro di pietra così minacciosamente vicino. Mi azzardai a entrare in quell’arena. Scalini alti, un sottile strato di neve, raffiche di vento, erbacce rinsecchite nelle crepe, come baffi tremolanti o parrucche. Mi sentivo quasi scoppiare la testa. Là dentro, al Centro d’accoglienza, il delirio; qui fuori, l’epicentro dei crimini nazisti.
Ma perché costruire un Centro d’accoglienza temporanea in un luogo come questo? Perché costringere chi arriva, già stravolto dopo la fuga da una dittatura, ad abitare proprio qui? Come mai nessuno si è preoccupato di questa contiguità? Perché queste persone che finalmente respirano, dopo aver conosciuto nella persecuzione tutti i registri della paura, devono venire a stare in questo posto? E come mai la Germania non prova vergogna di fronte ai nuovi venuti, accogliendoli al loro arrivo a pochi passi da questo edificio mostruoso? Può anche darsi che il Centro d’accoglienza temporanea sia stato costruito qui per ragioni semplicemente «funzionali» — ma sorde ai sentimenti degli immigrati, e nella più totale cecità storica, a fronte del ruolo di Norimberga durante il periodo nazista. All’interno del Centro, i burocrati; fuori, questo edificio: una duplice “funzionalità”.
Nel 1987 ho sperimentato sulla mia pelle l’atteggiamento della Germania, che dopo aver costretto alla fuga centinaia di migliaia di suoi cittadini, continua a non voler prendere atto dell’esperienza degli esiliati, e rifiuta persino il termine “esilio”. Ero finita, letteralmente, in un vicolo cieco.
Nonostante tutto ero però consapevole che questa mia situazione, a confronto
con quella degli esiliati del periodo nazista, era solo una piccola
disavventura. Ero sotto esame, ma almeno conoscevo il tedesco; avevo pur sempre
un editore per i miei libri; e non mi era toccato attraversare un confine da
clandestina. Al Centro d’accoglienza non rischiavo la vita, diversamente da chi
era fuggito dalla Germania nazista. Allora, se eri fortunato riuscivi a
rimanere in vita. La sfortuna era sinonimo di morte. I fuggiaschi di allora
conobbero la buona o la mala sorte in ben altro modo. Di fatto però, anche se
usiamo abitualmente questi termini, erano le persone a fare la differenza. Col
favore del caso, incontravi magari qualcuno capace di empatia, disposto a dare
una mano. O al contrario, potevi imbatterti in uno che per zelo o per arbitrio
era pronto ad ucciderti. Sono moltissimi gli episodi in cui il caso ha
giocato un ruolo decisivo. Basta considerare alcune delle vicende di quei fuggiaschi
per rendersi conto di come un attimo possa ingigantirsi fino a diventare un
abisso.
Walter Benjamin
Penso alla disperazione di Walter Benjamin durante la sua sosta nei Pirenei,
nel 1940. Aveva con sé solo una borsa, forse piena di manoscritti. Neppure uno
zaino, che allora lo avrebbe fatto riconoscere come tedesco. Quando a Port Bou
si sentì dire che non poteva entrare in territorio spagnolo senza un visto
d’uscita francese — forse soltanto un tentativo di ricatto di un ufficiale
corrotto a caccia di bustarelle — Benjamin si avvelenò. E quanti altri sono
crollati, anche ad anni di distanza dalla fuga — come Ernst Toller, che si
impiccò nella sua camera d’albergo a New York. O come Stefan Zweig, riparato in
Brasile, che non riuscendo a sopportare la distruzione della sua «patria
spirituale», l’Europa, si suicidò insieme alla moglie Lotte.
La Germania continua a non riconoscere gli esiliati come vittime del nazismo; un diniego che si riflette nelle scelta del governo federale in materia di commemorazioni e monumenti. Esiste, è vero, qualche targa dedicata a singoli artisti, ma neppure un sito per mantenere viva la memoria dell’esilio, la sorte di tanti tedeschi costretti fin dal 1933 a fuggire dal loro Paese. La Germania dovrebbe finalmente onorare la memoria dell’esilio: è responsabile di questa cacciata, come lo è dell’Olocausto. Eppure in questo Paese non c’è un solo luogo in cui il senso della parola esilio possa essere rappresentato attraverso la rievocazione di singole vicende umane. I rischi della fuga, le vite sconvolte degli esiliati, il senso di estraneità, l’indigenza, la paura, la nostalgia. Finché non avrà saputo mostrare tutto questo, la Germania sarà in debito con la sua storia.
La mancanza di un sito dedicato agli esiliati rappresenta una grossa lacuna nella memoria collettiva degli orrori del nazismo. Un museo dell’esilio consentirebbe ai tedeschi delle giovani generazioni di farsi un’idea concreta di queste vicende. Sarebbe un mezzo di educazione all’empatia. Dunque, un museo “funzionale”. Un modo per dare a questo termine un contenuto umano.
(Da: La Repubblica del 16 febbraio 2013)
NON POTRO' MAI DIMENTICARE L'EMOZIONE PROVATA A PORT BOU DAVANTI ALLA TOMPA DI WALTE BENJAMIN.
RispondiEliminaFRANCO VIRGA