05 febbraio 2013

MERAVIGLIOSO MODUGNO





Ripropongo il pezzo di Alessandro Leogrande uscito oggi sul Corriere del Mezzogiorno:

ALESSANDRO LEOGRANDE – MERAVIGLIOSO MODUGNO

Qualche tempo fa “File urbani”, programma musicale di Radio 3 condotto da Valerio Corzani e curato da Monica Nonno, ha dedicato due puntate al “Pianeta Modugno”, riproponendo molti dei brani del “cantattore” pugliese reinterpretati nel corso della serata inaugurale del Medimex 2012 al Petruzzelli di Bari.
Sarà banale dirlo, ma ascoltando la trasmissione è stato impossibile non pensare quanto sia davvero immenso il “pianeta Modugno”, il lascito di un patrimonio di canzoni e  interpretazioni che hanno segnato una cesura netta nella storia della musica italiana. Il discorso non riguarda solo “Nel blu dipinto di blu” e quel grido liberatorio (“Volare…”) che avrebbe anticipato il boom e che velocemente sarebbe diventato il ritornello italiano più conosciuto al mondo – uno dei primi esempi di world music novecentesca… Il discorso riguarda l’intera, eclettica, complessa e poliedrica carriera di un cantante che è stato allo stesso tempo autore, attore e sovente paroliere, e ha fatto della canzone quasi un’opera teatrale in sé. Impossibile non imitarlo, disse una volta Fabrizio De Andrè.
Basta riguardare su Youtube le performance (di veri e propri momenti performativi, in realtà, si tratta) di “La lontananza”, “Vecchio frack”, “Meraviglioso”… Ciò che stupisce non è solo l’ampiezza della voce o gli squarci che aprono i testi (“Vecchio frack”, ad esempio, è un vero gioiello letterario – forse una delle prime canzoni della storia della musica apparentemente “leggera” che tratta con tanta grazia una morte per suicidio…). A stupire è soprattutto quel volto che si fa canzone e assorbe la musica in sé, la fa propria, la domina. Quel volto disincantato nelle cui pieghe (si potrebbe dire con Sciascia) soffiano secoli di scirocco.
È proprio l’interpretazione di quelle canzoni a offrire svariati piani di lettura dello spartito o della sequenza delle strofe. È l’interpretazione a renderle dei “classici” a tutti gli effetti. Chi è ad esempio “l’angelo vestito da passante” che compare in “Meraviglioso”? È davvero un angelo? Oppure un oscuro samaritano? Oppure ancora un ex potenziale suicida le cui parole sulla “vita” e l’“amore” assumono tutto un altro peso? Modugno non lo fa capire, non lo lascia intendere, gioca con l’ambiguità. Ed è proprio lo stridore tra questa ambiguità e il testo “gioioso” a generare nella canzone una verticalità che quasi mai i suoi successivi interpreti sono riusciti a raggiungere.
Modugno (al pari di Mina, per certi versi) è sempre due, tre passi avanti rispetto ad ognuno degli interpreti dei suoi brani. La risposta è raccolta, credo, proprio nell’intreccio tra teatro e musica che il “cantattore” pugliese ha saputo offrire. E qui vorrei ricordare due momenti attoriali veri e propri di Domenico Modugno. L’interpretazione di Righetto, baro professionista e rivale di Sordi al gioco delle carte, in “Lo scopone scientifico” di Comencini. E, soprattutto, la collaborazione con Pasolini nel breve episodio di “Capriccio all’italiana” intitolato “Che cosa sono le nuvole”.
È questa una delle vette del cinema italiano degli anni sessanta con un Totò-Jago, un Ninetto Davoli-Otello, Laura Betti, Franco e Ciccio, e un grande Modugno che canta quella straordinaria canzone (“Che cosa sono le nuvole”, appunto) scritta a quattro mani con Pasolini a partire dai versi scespiriani. Di quella esperienza Modugno disse: “Il mio incontro con Pasolini fu bello. In un primo tempo voleva utilizzarmi per un’opera che doveva rappresentare alla Piccola Scala di Milano, cosa che poi non fece. Recitai invece nell’episodio ‘Che cosa sono le nuvole’, e dal titolo del film nacque anche una canzone, che scrivemmo insieme. È una canzone strana: mi ricordo che Pasolini realizzò il testo estrapolando una serie di parole o piccole frasi dell’Otello di Shakespeare e poi unificando il tutto.”
Ciò che rende Modugno un modello con cui fare i conti è anche quella sua capacità, quasi unica, di rimanere in equilibrio tra locale e globale, tra uno spirito levantino e meridionale (spesso esaltato fino ai limiti del “terronismo”) e la soffusa leggerezza che ne fa il cantante nostrano più amato Oltreoceano. È stato un autore costantemente in bilico tra la scoperta, o riscoperta, delle radici dell’italianità e la loro sublimazione nell’incrocio della canzone con la cultura “alta”. Il critico Massimo Mila lo capì forse prima di tutti, già in una recensione del 1956, quando scrisse: “Vergine musicalmente, Modugno non è affatto un incolto. Abbia o non abbia fatto studi regolari, è un uomo letterariamente aggiornato, fornito di opinioni politiche precise; fa, con puntiglio e passione, l’attore di prosa e recita in spettacoli d’avanguardia. In questo connubio di primitivismo e di cultura sta probabilmente la ragione della sua forza.”
Aggiungerei un’ulteriore considerazione. L’ascolto di colui il quale ha operato una profonda rottura nella storia della musica italiana produce oggi una nuova rottura. Le sue canzoni più belle ci comunicano immediatamente uno stato di grazia che giunge dal passato. Niente di più di discordante con l’assenza di volo del presente. Anche per questo, il classico Modugno è sempre più moderno.

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