07 febbraio 2013

UNA ROSA SEMPRE VIVA




Ripropongo oggi un  saggio di Massimo Cappitti  - tratto da L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. 1, Jaca Book 2010 – pubblicato dal sito http://www.democraziakmzero.org/2013/02/07/la-democrazia-di-rosa/

Massimo Cappitti - Rosa Luxemburg: rivoluzione e democrazia

«La rivoluzione, come un turbine di bufera, come una tempesta di neve, porta sempre con sé il nuovo e l’inatteso; inganna crudelmente molti; mutila nel suo vortice il degno; porta spesso incolumi a terra gli indegni; ma questi sono particolari. Questo non cambia né il corso generale del torrente, né quel minaccioso rombo assordante che ne scaturisce. Quel rombo parla pur sempre di qualcosa di grande». (Aleksandr Blok)


Rosa Luxemburg «non si sforzò mai di dar forma a un sistema completo o addirittura logicamente compiuto». Non solo, infatti, esprimeva le sue idee «quasi invariabilmente sotto forma di critiche e polemiche di ciò che essa considerava erroneo»,1 ma, soprattutto, non avrebbe mai organizzato la sua visione del mondo nella forma del sistema, giacché, in tal modo, avrebbe contravvenuto alla sua concezione dialettica della realtà, insofferente ad ogni cristallizzazione.
Tuttavia, dai suoi scritti – da quelli teorici come da quelli militanti, da quei testi, cioè, legati alla necessità di intervenire tempestivamente nella situazione presente – traspare, con forza, la profondità del suo pensiero, pari a quella, ad esempio, di Lenin o di Lukács. Rosa Luxemburg, allora, si impone come una «pensatrice politica autonoma» che ha influenzato il marxismo rivoluzionario e che, nello stesso tempo, ha innervato – con le sue intuizioni e le sue riflessioni – il pensiero critico del Novecento.
Presenza, però, non sempre adeguatamente riconosciuta e in molti casi fraintesa o rimossa proprio dalle correnti rivoluzionarie a lei posteriori. Eppure ineludibile al punto che, senza la riflessione e l’azione di Luxemburg, forse, non si potrebbe propriamente parlare di un’altra visione del comunismo radicalmente diversa da quella che, nella storia, si è affermata.
Colpiscono, in particolare, per la lucidità e la perspicuità dello sguardo, l’analisi del capitalismo e della sua ineliminabile, ininterrotta e feroce vocazione espansionistica, da un lato, e, dall’altro, la riformulazione del rapporto tra masse e organizzazione e la ridefinizione, in termini inediti rispetto alle concezioni prevalenti all’interno del movimento operaio, del nesso rivoluzione e democrazia. Ridefinizione, peraltro, resa ancor più urgente dagli eventi russi del ’17.
In Luxemburg, allora, prende corpo un nuovo modo di intendere e costruire l’organizzazione che, del partito, non fa il presidio di un gruppo di militanti di professione, detentori indiscussi e indiscutibili della linea rivoluzionaria e, pertanto, pronti a trasformarsi in burocrati e gendarmi della rivoluzione, ma, piuttosto, un docile strumento al servizio della «creatività delle masse» e della loro capacità di costruire sempre nuove forme di lotta.
Delle rivoluzioni proletarie, infatti, sottolinea la tensione ad autocriticarsi «costantemente», ad interrompersi «continuamente nel loro proprio corso», ritornando «sull’apparentemente già compiuto, per ricominciarlo di nuovo». Non esiste, quindi, come i bolscevichi sembrano credere, «pronta in tasca una ricetta» che basti applicare «con energia» affinché il socialismo, finalmente, si realizzi. Il socialismo, allora, non coincide semplicemente con la costruzione di un «sistema economico, sociale e giuridico», ma comporta – e in questo risiede la sua qualità «morale» – la liberazione dell’intera umanità dall’oppressione del capitale e dello Stato.

Il capitale e la guerra
Scrive Luxemburg che «nulla sarebbe più nefasto se il proletariato preservasse dall’attuale guerra mondiale una pur minima illusione e speranza sulla possibilità di una continuazione idilliaca e pacifica del capitalismo».2 È, infatti, evidente che «il suo ulteriore dominio non è compatibile con il progresso dell’umanità»3 poiché, per la prima volta nella storia, sfruttamento e disoccupazione, alienazione e crisi, guerra e distruzione non sono i prodotti accidentali e gli effetti non voluti di una data organizzazione dell’economia, ma, piuttosto, la sua inevitabile e necessaria conseguenza, la sua «condizione di vita».
Nell’illimitato «autosviluppo del capitale» e nella sua corsa senza senza freni risiede, dunque, la causa dell’«immiserimento progressivo sulla superficie terrestre di sempre più vasti settori dell’umanità»4 e, insieme, della loro crescente «incertezza». Il capitalismo, allora, assume e impone la propria «autovalorizzazione» come unica meta possibile, come supremo fine cui tutto può essere sacrificato, perfino la sopravvivenza della specie e dell’intero vivente. Da questa esigenza e da questa pretesa, pertanto, deriva la sua capacità di pervadere e rendere a sé conforme l’intera società, di esercitarvi, cioè, quel che Marx aveva chiamato «dominio reale».
Il modo di produzione capitalistico, dunque, non solo ha bisogno di un territorio «che sia il più ampio possibile» – inconciliabile, quindi, «con i piccoli Stati e con la dispersione economica e politica» – ma, soprattutto, di una «civiltà spirituale» dominata dalla merce. In assenza di questa forma di organizzazione della società e dei comportamenti, infatti, rimarrebbe aperto lo scarto tra il sistema dei bisogni e il livello corrispondente della produzione: discrepanza insopportabile, dal momento che la sua persistenza getterebbe il capitalismo in una crisi letale. Tutto, quindi, deve essere messo a valore, anche le «proprietà psicologiche», le qualità affettive e la capacità cognitiva degli individui.
Rosa Luxemburg anticipa ciò che qualche anno dopo avrebbe scritto Lukács a proposito della capacità del «commercio di merci» di pesare e «influire sull’intera vita esterna e interna della società».5 Ella, cioè, coglie il momento nel quale la forma di merce diventa egemone, ossia «la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni della vita»,6 plasmando l’intera struttura sociale e modellandola a sua immagine.
Di questo passaggio drammatico Rosa Luxemburg è, insieme, testimone e interprete tra i più lucidi e acuti, poiché comprende che la necessità di espandersi diventa un imperativo ineludibile per la sopravvivenza del sistema; imperativo, però, che confligge inevitabilmente con l’esistenza stessa di una società umana. Una voracità predatoria, infatti, – che non esita a ricorrere a «tutti i mezzi della violenza, della rapina e dell’infamia» – spinge il capitale a «estendersi meccanicamente» e a eliminare con la violenza «ogni altro ordinamento sociale antecedente», trasformando ogni forma «antiquata» di produzione in produzione «mercantile». Il capitale, quindi, agisce come una «cieca potenza sociale» che – «strapotente» – si impone sull’intera società, persino sui singoli imprenditori schiacciati, a loro volta, dal meccanismo infernale della concorrenza.
Se, dunque, il capitalismo è pervaso da una insopprimibile tensione, indefinitamente ripetuta, a espandersi, la guerra, lungi dal rappresentare una condizione eccezionale ed estrema, diventa lo strumento normale di risoluzione delle crisi dell’ordinamento imperialistico, la modalità condivisa attraverso la quale i diversi gruppi capitalistici nazionali, segnati da una reciproca e irriducibile ostilità, si contendono mercati e risorse.
Soprattutto, però, gli eventi bellici hanno inferto un «colpo mortale alla forza che porta in grembo l’avvenire dell’umanità»,7 al proletariato cui è affidato il compito non solo di riscattare la miseria del presente ma di portare «in salvo i preziosi tesori del passato» per trasmetterli alle generazioni future. Allora, l’«eccidio in massa» dei proletari nei campi di battaglia si trasforma in una catastrofe per la sopravvivenza stessa della civiltà, le cui speranze di salvezza dall’oppressivo dominio del capitale sono legate, secondo Luxemburg, all’esito vittorioso della rivoluzione socialista.
La guerra, però, non solo ha prodotto il «massacro di massa» del proletariato rivoluzionario, ma la proclamazione dello stato d’assedio e la conseguente sospensione del conflitto sociale, rinviato alla fine della guerra, hanno contribuito al rafforzamento dello Stato – dello «Stato di classe puro» – e alla progressiva resa dei ceti popolari all’«apatia». Quando, infatti, un popolo «ammette che durante la guerra sia necessario lo stato d’assedio, ammette con ciò che la libertà politica sia del tutto superflua».8 La limitazione, se non la soppressione, a lungo subite, delle libertà corrompe e vanifica l’«idealismo rivoluzionario» delle masse e le abitua, quindi, al consenso, alla rassegnata accettazione del potere dominante che appare, pertanto, sempre più indiscutibile e inoltrepassabile.
La guerra costituisce dunque lo spartiacque che demarca e fende la storia, che mina la convinzione diffusa di un irresistibile progresso dell’umanità. Essa lacera e sconvolge il paesaggio sociale ridefinendone radicalmente le componenti, mutando gli orizzonti di attesa, le visioni del mondo, le pratiche tradizionalmente consolidate dei diversi soggetti sociali. In particolare, come rileva Luxemburg, essa ha cambiato irreversibilmente i rapporti tra capitale, Stato, proletariato, modificando, nel contempo, le relazioni interne agli stessi soggetti: tra sviluppo mondiale del capitale e le sue diverse determinazioni e declinazioni nazionali; tra la classe e le sue organizzazioni e istanze rappresentative; tra i diversi poteri dello Stato sempre meno regolati attraverso la loro rigida separazione, ormai inadeguata a garantirne l’equilibrio. Lo Stato, ad esempio, attraverso la guerra e l’ideologia militarista che la sostiene, rafforza il proprio ruolo, allarga la propria «sfera di influenza», assume «nuove funzioni» ed esercita un controllo sempre più pressante «soprattutto in relazione alla vita economica». Diventa, pertanto, irrinunciabile – nel contesto storico così profondamente segnato dai cambiamenti – ripensare daccapo e senza timori reverenziali le forme dell’agire rivoluzionario e le categorie interpretative che le hanno ispirate.
Per Luxemburg, quindi, neppure il pensiero di Marx – che, pure, conserva una rilevanza fondamentale e al quale resta fedele – deve essere oggetto di una acritica e dogmatica ricezione. Di Marx, soprattutto, va recuperata e salvaguardata la tensione radicale, quell’inquietudine che muove la critica a esercitarsi senza requie al fine di svelare i reali processi di funzionamento della società e, insieme, di smascherare le rappresentazioni ideologiche dietro le quali si nascondono.
Rosa Luxemburg, allora, rappresenta il tentativo più coerente e radicale di ripensare una prospettiva rivoluzionaria all’altezza dei mutamenti descritti, strada tanto più impervia perché stretta tra il revisionismo socialdemocratico e il bolscevismo, accomunati dalla convinzione del primato dell’organizzazione sulla classe, della disciplina di partito sulla libera iniziativa delle masse. Luxemburg prende le distanze da entrambe le posizioni, seppure con modalità e toni differenti: drasticamente e con severità dai socialdemocratici; con più cautela mista ad ammirazione, ma altrettanto radicalmente, dai bolscevichi.

La critica dell’organizzazione
La votazione – il 4 agosto 1914 – dei crediti di guerra da parte dei socialdemocratici costituisce l’episodio finale della loro progressiva abdicazione ai principi rivoluzionari. Luxemburg, più volte, nei suoi interventi, aveva denunciato l’«opportunismo» dei dirigenti del partito e la tattica rinunciataria che ne aveva accompagnato le scelte. Tuttavia, questa constatazione – la consapevolezza, cioè, della rimozione del conflitto sociale dall’orizzonte delle masse – non attenua per nulla le conseguenze tragiche di un gesto scellerato che, in nome dell’«entusiasmo patriottico»,9 ha consegnato la classe operaia al suo «nemico interno», ovvero allo «sfruttamento e all’oppressione» capitalistici. L’adesione alla guerra, pertanto, è lo strappo definitivo che lacera il corpo del proletariato, conteso tra la tendenza riformista e quella rivoluzionaria. Secondo i dirigenti socialdemocratici la prova di fedeltà alla patria – costituita dal voto – avrebbe favorito la futura conquista del potere, confermando così la loro concezione meccanicistica-evoluzionistica che, per l’edificazione del socialismo, confida nel tempo indefinitamente lungo della «catena ininterrotta di riforme sociali continue e sempre crescenti» e che si affida, per la sua felice realizzazione, all’alleanza con i ceti sociali moderati, come se il capitalismo fosse riformabile e, soprattutto, accettasse di essere limitato.10
Esiste, quindi, una differenza di «essenza», non di «durata», tra riforma legale e rivoluzione. Esse corrispondono a opzioni, rapporti di forza, impostazioni di fondo completamente differenti, per cui è errato identificare la riforma con «una rivoluzione tirata per le lunghe» o la rivoluzione con una «riforma concentrata». La divergenza sui tempi della trasformazione sociale diventa, da subito, anche divergenza sulla natura di questa trasformazione: se, cioè, debba concludersi nell’abbattimento dell’apparato statale e produttivo oppure nel suo graduale cambiamento attraverso una programmata e costante politica riformista.
A questo proposito, in Riforma sociale o rivoluzione?, Rosa Luxemburg demolisce, punto per punto, le posizioni di Bernstein. Soprattutto evidenzia i limiti dell’impostazione entro cui il teorico revisionista inscrive le sue argomentazioni. Agli occhi di Bernstein, il capitalismo è ormai al riparo da un «crack economico generale». Il suo sviluppo, infatti, rende «inverosimile» un «crollo generale» del sistema, tanto che il socialismo «cessa di essere obiettivamente necessario». All’interno del modo di produzione capitalistico operano, indipendentemente da ogni intervento, tendenze dirette al suo superamento; transizione indolore dal momento che, quasi obbedendo a una legge naturale, gli imprenditori si trasformano in semplici gestori e «amministratori» della loro proprietà. La loro «espropriazione graduale», quindi, si conclude necessariamente nella formazione di una «superproprietà» di cui si fa «assegnataria» la società intera. Bernstein crede così di riconoscere tracce di socialismo – cui si approda attraverso una lenta evoluzione – nell’estensione del credito, nel più ampio controllo sociale sulla produzione, esito della lotta sindacale, nel consolidamento del movimento cooperativo e, soprattutto nello sviluppo dell’«istituto azionario».11 Il capitalismo genera gli elementi che conducono alla sua autoregolazione: compito delle organizzazioni del movimento operaio è, allora, attendere questo movimento e, soprattutto, tenere a freno, con ogni mezzo, le tendenze rivoluzionarie.
Luxemburg sottolinea, però, che l’interpretazione bernsteiniana si fonda su un fraintendimento esiziale per la sua stessa teoria. Egli, cioè, «per capitalista non intende una categoria della produzione, ma del diritto di proprietà, non una unità economica, ma fiscale; e per capitale non una totalità produttiva, ma semplicemente un patrimonio monetario».12 Per questo «errore molto semplice di natura volgar-economica», può interpretare, ad esempio, «il fenomeno delle società per azioni proprio all’incontrario, come un disgregamento e non come un concentramento del capitale».13 Bernstein, allora, trasferito il concetto di capitalista dall’ambito dei rapporti di produzione a quello dei rapporti di proprietà, dimentica che il capitalismo è un rapporto sociale fondato sull’estrazione del plusvalore, ovvero sulla necessità di «pagare la forza-lavoro sotto il suo valore».
Più complesso e anche più sofferto è il giudizio di Luxemburg sui bolscevichi. Ella, infatti, sa che ogni critica espressa nella fase iniziale della rivoluzione – la più delicata perché essa è ancora lontana dal suo consolidamento – rischia di favorire i nemici di Lenin e Trockij, giacché può essere utilizzata non solo contro singoli aspetti della loro politica ma, indiscriminatamente, contro la necessità e l’opportunità dell’opzione rivoluzionaria.
Ella non manca di rendere onore al coraggio dei rivoluzionari russi che hanno agito entro «condizioni abnormi le più difficili concepibili». Aggrediti dai nemici interni e oggetto dell’ostilità delle nazioni capitalistiche, essi hanno inoltre patito le perplessità e le diffidenze dei partiti socialdemocratici nei confronti della possibilità di una rivoluzione socialista in un paese arretrato come la Russia. La posizione ufficiale, infatti, dei dirigenti socialdemocratici – i «miserabili vigliacchi che assisteranno tranquillamente al dissanguamento dei russi», come avrebbe scritto in una lettera a Luise Kautsky14 – coincideva con quella menscevica che riteneva la Russia pronta solo per una rivoluzione borghese. A ciò si aggiunga l’«apatia» del proletariato europeo incapace di seguire l’esempio sovietico. Quello che, infatti, doveva costituire il «prologo della rivoluzione europea del proletariato», si risolve in un esperimento solitario.
Eppure, nonostante la drammaticità del momento e la fragilità della nuova esperienza, compito di una prospettiva radicale è quello di non sottrarsi all’esame degli eventi, di liberarsi, cioè, dall’«ammirazione acritica» e dalla «zelante scimmiottatura» per poter, così, cogliere quegli aspetti che potrebbero compromettere se non vanificare la rivoluzione. Luxemburg puntualizza che sarebbe «errato temere che un vaglio critico delle vie finora battute dalla rivoluzione russa rappresenti un pericoloso atto di distruzione dell’affascinante esemplarità dei proletari russi».15 Anzi, la critica è un atto che contribuisce al rafforzamento dell’esperimento sovietico poiché concorre a individuarne limiti e errori e, insieme, le strategie per porvi rimedio.
Nelle considerazioni luxemburghiane sugli avvenimenti del ’17, giungono dunque a maturazione le idee da lei espresse già negli anni precedenti sul rapporto tra masse e organizzazione, sulle dinamiche rivoluzionarie che sfuggono a ogni previsione che pretenda di indirizzarle secondo un piano prestabilito da un ristretto nucleo di dirigenti e militanti di professione, o, ancora, sulla convinzione, sempre ribadita, che la rivoluzione socialista altro non sia «che l’espandersi del socialismo dal partito alla società». Per questo gli scritti sulla rivoluzione russa, tra gli ultimi della sua vita, vanno letti come una ricapitolazione e una ripresa di argomentazioni che Luxemburg aveva maturato negli anni della sua militanza sempre, però, accompagnati dall’esercizio rigoroso del pensiero.
In un testo del 1904, critico nei confronti di Lenin e intitolato Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, Rosa Luxemburg scrive che «i passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior “comitato centrale”».16 In un sol colpo, ella prende le distanze da tutte le componenti più significative del movimento operaio, dalle più moderate alle più radicali.17 Di esse, sottolinea la diffusa e condivisa «tendenza a sopravvalutare l’organizzazione», a trasformarla da strumento in fine cui possono e, in determinate circostanze, devono essere sacrificati gli obiettivi delle lotte e la passione e l’intelligenza dei proletari. Il partito, allora, fa coincidere la vera linea rivoluzionaria con le scelte indiscutibili decise dai suoi dirigenti, convinti di incarnare il senso della storia, di esserne i custodi e i suoi legittimi interpreti. Alla libera iniziativa delle masse, pertanto, non rimane che lo spazio angusto riservato loro dai vertici dell’organizzazione. Eppure «proprio durante la rivoluzione è per qualsiasi organo dirigente del movimento proletario estremamente difficile prevedere e calcolare quale motivo e quali momenti possano condurre a esplosioni e quali no».18
Il problema, allora, non consiste nel «comandare a freddo, ma nell’adattamento il più accorto possibile alla situazione e nel contatto il più stretto possibile con le disposizioni della massa».19 Si tratta, secondo la rivoluzionaria polacca, di imparare dalle lotte, di trarre cioè ispirazione dalle esperienze che da esse emergono, dove, in ogni «singolo atto della lotta», in un nesso indistricabile e fecondo agiscono «assieme una tale infinità di moventi economici, politici e sociali, generali e locali, materiali e psichici, che nessun atto singolo si può determinare e risolvere come un problema d’aritmetica».20 Concepire la lotta «solo come prodotto dell’organizzazione a un certo grado della forza» è quindi l’esito di una «concezione rigida, meccanico-burocratica» che pietrifica «il vivo sviluppo dialettico» per il quale, all’opposto, l’organizzazione è il frutto maturo del conflitto: «l’esercito proletario si recluta solo nel corso stesso della lotta».21 Nell’«incessante stato di guerra dell’operaio col capitale», si forma e si forgia «il serbatoio di potenza permanentemente fresco della classe proletaria», di cui si alimentano, corroborandosi vicendevolmente, lotta politica e lotta economica. «Più larghi strati del proletariato», allora, prendono consapevolezza della loro condizione e della loro forza, cimentandosi nella «battaglia» e, in tal modo, rovesciando il «circolo vizioso» per il quale gli operai, «prima di intraprendere una qualche azione diretta di lotta» devono essere preventivamente organizzati e disciplinati dal partito.
Da un lato, allora, «non esiste bell’e pronta nessuna tattica dettagliata e fissata in anticipo in cui i membri della socialdemocrazia possono essere istruiti da un comitato centrale», dall’altro le vicende della lotta da cui prende corpo l’organizzazione determinano «una fluttuazione continua della sfera di influenza della socialdemocrazia».22 L’abnegazione e il sacrificio dei militanti non sono quindi sufficienti a produrre l’evento rivoluzionario: «uno sciopero di massa nato da forte disciplina ed entusiasmo avrà nel migliore dei casi una funzione come un episodio, come un sintomo dello stato d’animo combattivo degli operai, ma dopo di ciò la situazione ricadrà nella tranquilla routine».23
Tuttavia la concezione dell’organizzazione dominante all’interno del movimento operaio ha, invece, privilegiato e favorito la formazione di un gruppo dirigente composto, in misura crescente, da militanti di professione e funzionari sempre più estranei e lontani dal proletariato, preoccupati, piuttosto, di salvaguardare i propri interessi e di mantenere il potere.24 L’emancipazione della classe operaia, allora, cessa di essere la meta cui tendere, mentre acquista sempre maggior rilevanza la sopravvivenza, a ogni costo, della struttura organizzativa, divenuta, ormai, il «bene supremo». Rosa Luxemburg intravede il pericolo dell’irrigidimento burocratico delle istanze rappresentative della classe, irrigidimento tanto più pericoloso perché si converte in una forma di dominio sul proletariato e tanto più paradossale perché esercitato a suo nome, come se il proletariato soggiogasse se stesso.25
Da questa constatazione, nasce la sua diffidenza per l’«ultracentralismo leniniano», per il suo modello rigido e disciplinato di partito – di origine giacobina – che ne fa il soggetto centrale ed egemone della rivoluzione. Una struttura così rigidamente coesa, dotata di una «quasi illimitata facoltà di intervento e di controllo», e raccolta, gerarchicamente, attorno al comitato centrale rischia  infatti  di mortificare la creatività delle masse, paralizzandone la spontaneità.26 Il partito si trasforma in uno «sterile» «guardiano notturno» che soffoca e restringe il movimento, anziché agire per il suo sviluppo. La posizione leniniana si fonda sulla «valutazione esagerata e falsa del ruolo dell’organizzazione» che fa coincidere il movimento di classe con quello della «minoranza organizzata» da un lato, e dall’altro sulla convinzione dell’immaturità politica delle masse ritenute incapaci di organizzarsi e agire autonomamente. Balza agli occhi il paradosso per il quale la liberazione delle masse avviene senza il loro concorso, viene cioè delegata a un gruppo esterno e ristretto che agisce in nome e per conto loro, al quale esse devono una «ubbidienza cadaverica».
Posizione, del resto, che risale a Blanqui. Il rivoluzionario francese, infatti, affidava a un piccolo nucleo il compito di preparare e dirigere la lotta mentre «le vaste masse popolari» sarebbero apparse «sul campo di battaglia solo nel momento della rivoluzione». E questa lungi dal trasformare, finalmente, in soggetto attivo della storia chi della storia è sempre stato vittima e oggetto, lo consegna, ancora una volta, a una situazione non oltrepassabile. Questa concezione inaridisce la «vita fermentante» che genera la «forza creatrice» delle masse, convogliandola entro forme stabilite.
La costruzione del socialismo, invece, si fonda su «poche indicazioni generali» e, per il resto, rimane «una faccenda completamente immersa nelle nebbie del futuro», affidata all’inventività delle masse. La lotta rivoluzionaria, quindi, è costellata dai tentativi del proletariato di abbattere l’ordine dominante, tentativi spesso sconfitti, eppure con generosità sempre ripetuti. Nella lotta «lunga e ostinata» le masse  riescono ad apprendere dai propri errori per attingere e conquistare un più alto livello di maturità politica ed etica e sostituire la solidarietà di classe agli «istinti egoistici», «l’idealismo che eleva al di sopra della sofferenza» al cieco perseguimento dei propri limitati interessi. Ogni lotta, dunque, prepara il proletariato «all’esecuzione della trasformazione socialista», riassume e ricapitola le precedenti e, insieme, «vaglia e arricchisce l’arsenale popolare», incurante di qualsivoglia prescrizione. In essa, il proletariato «chiarisce a se stesso gli scopi», inventa forme di conflitto inedite e in precedenza sconosciute, producendo esiti inattesi e «imponderabili» che «nessun partito può manipolare», perché «la lotta quotidiana contro l’esistente» prende forza dal comporsi di molteplici elementi: il «livello di tensione del contrasto di classe», il «grado di educazione» e il «punto di maturazione raggiunto dalla combattività delle masse». Le stesse intenzioni che muovono allo scontro possono, nel suo corso, imprevedibilmente modificarsi e cambiare direzione.

La rivoluzione russa
Gli scritti sulla rivoluzione russa del ’17 devono dunque, come si è visto, essere letti entro la prospettiva teorica che Rosa Luxemburg aveva approfondito negli anni, anche sulla base della sua esperienza militante. Ella, più volte, sottolinea le condizioni drammatiche entro le quali la rivoluzione si è sviluppata, stretta tra il «caos di un massacro imperialistico che divampa su scala mondiale», la «ferrea morsa» esercitata dalla «potenza militare più reazionaria d’Europa» e, infine, il mancato appoggio del proletariato europeo decimato dalla guerra.
È stato pertanto inevitabile che i dirigenti bolscevichi abbiano dovuto compiere scelte dolorose come, ad esempio, istituire lo stato d’assedio e sospendere le libertà democratiche al fine di proteggere i risultati della rivoluzione.
Luxemburg ha ben presenti i «limiti delle possibilità storiche» e gli errori indotti dalle necessità contingenti. Persuasa che in Russia il problema della rivoluzione «ha solo potuto essere posto. Non vi poteva essere risolto»,27 ella, però, contesta a Lenin e a Trockij di aver fatto «di necessità virtù». Il pericolo, cioè, non sta negli errori, inevitabili a causa della fragilità stessa del momento rivoluzionario, aperto, ancora, a molteplici risoluzioni, bensì nella loro giustificazione. Infatti, Lenin e Trockij «fissano ormai teoricamente in tutto e per tutto la loro tattica forzata da queste fatali condizioni e pretendono di raccomandarla all’imitazione del proletariato internazionale come il modello della tattica socialista».28
Ella, cioè, scorge in questo atteggiamento il seme del possibile pervertimento della rivoluzione, ossia la sua trasformazione in dittatura del partito, di «una piccola minoranza di dirigenti» che esautora la classe, sottraendosi alla sua influenza e al suo controllo.29 Così, lungi dal rappresentare il nuovo tentativo di applicare la democrazia, gli eventi del ’17, semmai, si risolvono nella sua «demolizione». Viene, cioè, lasciato cadere quel legame in virtù del quale «la democrazia socialista comincia contemporaneamente alla demolizione del dominio di classe e alla costruzione del socialismo».30
La costruzione della struttura democratica, quindi, non può essere indefinitamente rinviata a un dopo di cui non si intravedono con precisione  i confini temporali. Contro la teoria dei due tempi, la democrazia cresce e si sviluppa nel farsi stesso della rivoluzione, quale ineliminabile momento di educazione delle masse alla partecipazione attiva, all’effettiva presa della parola che, sole, possono riscattarle da «secoli di dominio di classe borghese». La «prassi socialista», allora, consiste in una «trasformazione spirituale» che richiede l’ampliamento e la promozione della più illimitata libertà di stampa, di associazione e di riunione. Libertà, precisa Luxemburg, «di chi la pensa diversamente»: non solo, quindi, riservata ai «seguaci del governo» e ai «membri di un partito» per quanto essi siano numerosi. Quando, invece, la vita pubblica viene soffocata, risultano inariditi «la sorgente dell’esperienza politica e il proseguimento dello sviluppo».
I bolscevichi durante la crisi accantonano la democrazia –, «la scuola della vita pubblica stessa» – ne sospendono le garanzie con la riserva che potrà essere riproposta solo quando le circostanze saranno mutate, quando, però, le masse saranno, ormai, corrotte e mortificate dalla dittatura. Con questa convinzione Trockij decide la «famigerata dissoluzione dell’assemblea costituente» nel novembre del ’17, ritenendo che fosse «rimasta indietro rispetto allo sviluppo della lotta politica e ai raggruppamenti di partito».31 Se però, nota Luxemburg, è vero che quell’assemblea rispecchiava un equilibrio  delle forze andato in frantumi sotto la spinta degli avvenimenti, allora meglio sarebbe stato «annullare questa assemblea costituente invecchiata, nata morta, e indire senza indugio nuove elezioni».32 Trockij, però, diffida di qualsivoglia forma di rappresentanza popolare anche quando essa riposi su solidi consensi perché, soprattutto, diffida della capacità del popolo di innervare e rivitalizzare gli stessi organi rappresentativi. Dietro la scelta dei dirigenti bolscevichi agisce, pertanto, «il tacito presupposto» che «la trasformazione socialista sia una faccenda per la quale il partito rivoluzionario ha pronta in tasca una ricetta e che non occorra che applicarla con energia».33
La decisione di sospendere le libertà si risolve nell’«imbarbarimento della vita pubblica» e nella corruzione delle masse poiché «ogni prolungato regime di stato d’assedio conduce inevitabilmente all’arbitrio e ogni altro arbitrio agisce in senso deprivante sulla società».34 L’emergenza spegne le energie vitali del proletariato riconsegnandolo, così, a quella situazione di alienazione per il cui superamento aveva lottato. La nuova società socialista, allora, appare paralizzata, spaccata e divisa tra le masse ridotte all’inerzia demoralizzate e piegate dal «regno del terrore» e la «dittatura di un pugno di politici» raccolti nel partito. Mentre cresce l’importanza della burocrazia, «una élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani ai discorsi dei capi, votare unanimemente risoluzioni prefabbricate».35 Così, anche dello Stato non si persegue più – dopo la transizione rappresentata dalla dittatura di classe – l’abbattimento, bensì esso viene ulteriormente rafforzato dalla sovrapposizione di organi del partito e di organi dello Stato, non più tra loro  distinguibili.
Compito dei rivoluzionari, allora, è riannodare il legame inscindibile tra democrazia «necessaria» e «imprescindibile» e la rivoluzione socialista. «Necessaria perché sviluppa forme politiche (autonomia amministrativa, diritto di voto ecc.) che serviranno al proletariato da punti di partenza e di appoggio per la trasformazione della società borghese»; «imprescindibile perché solo in essa, nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei suoi diritti, il proletariato può diventare cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici».36 Democrazia, però, «insorgente»,37 estranea e ostile alle procedure formali della delega e della rappresentanza, refrattaria a ogni modello che la trasformi in un «regime politico», rimuovendo così  la sua qualità di azione politica che si incarna nel desiderio dei molti di istituire un legame sociale e politico «non costrittivo, egualitario, contro l’ordine».38 Per questo, allora, la democrazia è pensabile  solo al di fuori e contro lo Stato, in particolare contro la sua pretesa di ridurre a unità l’irriducibile ricchezza del reale, di omologarlo, organizzarlo e unificarlo entro forme coattive. Di questa eccedenza – dell’«irruzione del demos» – vive, dunque, la rivoluzione.

Se, come scrive Benjamin, «per la storia nulla di ciò che è avvenuto dev’essere mai dato per perso»,  per cui «solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti»,39 allora – al pari della Comune di Parigi, della rivoluzione dei consigli, della guerra di Spagna, dell’Ungheria del ’56 e degli avvenimenti del ’68 – Rosa Luxemburg e gli spartakisti rappresentano uno di questi momenti, certamente uno dei più significativi.
Ella è parte di quel «tesoro perduto della rivoluzione» che ogni generazione di rivoluzionari ha il compito di riportare alla luce, sottraendolo così alla dimenticanza cui il nemico lo ha consegnato. Sono i possibili che, sconfitti, permangono, però latenti nella storia, aspettando di ripresentarsi e rivendicare, finalmente, la propria chance di attualizzazione.
L’esperienza e il pensiero di Rosa Luxemburg sono uno di quei possibili che, nonostante le condizioni storiche differenti, mantengono un’insospettata vitalità. In particolare, colpiscono di Luxemburg la sua analisi del capitalismo e la sua intuizione dell’atto rivoluzionario come un evento chiamato a investire l’umano intero brutalizzato dal dominio. Rimangono fondamentali, ad esempio, le sue valutazioni sulla pervasività del capitale, spinto, per salvaguardare la propria sopravvivenza, a espandersi senza requie a danno, ormai, dello stesso vivente o, ancora, l’interpretazione della guerra quale struttura costitutiva dello Stato e suo elemento fondante; la critica dei nazionalismi e dei rischi legati alle rivendicazioni identitarie, destinate, queste, a replicarsi vertiginosamente in una rincorsa mimetica senza fine, dove, in nome della propria purezza, tutti sono in guerra tra loro.
Rimane, infine, la sua insistenza sulla dimensione etica – «morale», come lei scriveva – della rivoluzione: spazio plurale dove a ciascuno è possibile sperimentare la piena espansione delle proprie facoltà umane. Ma anche  spazio tragico, segnato dal conflitto perché «come sempre in ogni grande periodo rivoluzionario, vengono ora al saldo i più svariati conti vecchi e nuovi, a risoluzione i contrasti: resti antiquati del passato si intrecciano disordinatamente con le più attuali questioni del presente e problemi del futuro appena sorti».40
La rivoluzione abita in questa enigmatica contemporaneità dove confluiscono tempi diversi e di essa rappresenta, forse, una precaria e fragile soluzione.

1 P. J. Nettl, Rosa Luxemburg, Il Saggiatore, Milano 1970, vol. I, p. 25.
2 R. Luxemburg, «Juniusbroschüre». La critica dell’economia politica, in Id., Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino 1976, p. 509.
3 Ivi, p. 513.
4 Id, Introduzione all’economia politica, in  Scritti scelti cit., p. 396.
5 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1978, p. 109.
6 Ibidem.
7 R. Luxemburg, «Juniusbroschüre» cit., p. 513. Scrive Luxemburg: «Ciò che ora accade è un massacro in massa quale mai si è visto, che sempre più riduce la popolazione lavoratrice adulta di tutti i principali paesi civili a donne, vecchi e invalidi: un salasso, per il quale il movimento operaio europeo minaccia di morire dissanguato» (p. 513).
8 Id., La crisi della socialdemocrazia, in Scritti politici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 511.
9 I socialdemocratici aderiscono, pertanto, alla «teoria poliziesca del patriottismo borghese e dello stato d’assedio» per cui «ogni lotta di classe costituisce un crimine contro gli interessi della difesa del paese, perché pregiudicherebbe e indebolirebbe le capacità difensive della nazione» ( «Juniusbroschüre» cit., p. 475).
10 Posizione incompatibile con la «spinta espansiva imperialistica del capitalismo», espressione «della sua estrema maturità, del suo ultimo scorcio di vita». Questa fase è caratterizzata dalla «tendenza economica di trasformare tutto il mondo in un cantiere di produzione capitalistica, di spazzar via tutte le vecchie forme di produzione e sociali precapitalistiche, di ridurre a capitale tutte le ricchezze della terra e tutti i mezzi di produzione, e a schiavi salariati la popolazione lavoratrice di tutte le zone della terra» («Juniusbroschüre» cit., pp. 509-10).
11 Sui limiti di questi strumenti e sull’ambiguità che accompagna la posizione “socialista” di Bernstein cfr. Id., Riforma sociale o rivoluzione?, in Scritti scelti cit., pp. 72-73.
12 Ivi, pp. 109-10.
13 Ivi, p. 109.
14 Lettera citata in P. J. Nettl, Rosa Luxemburg cit., vol. II, p. 258.
15 R. Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti scelti cit., p. 569.
16 Id., Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, in  Scritti politici cit., p. 236.
17 La Luxemburg non risparmia neppure il sindacato cui dedica pagine molto critiche. Cfr. tra gli altri Sciopero generale, partito e sindacati, in Scritti politici cit., in particolare pp. 361-67. In Riforma sociale e rivoluzione si legge che «l’attività dei sindacati si limita dunque fondamentalmente ai conflitti salariali e alla diminuzione del tempo di lavoro, vale a dire solo alla regolazione dello sfruttamento capitalistico in rapporto all’andamento del mercato; data la natura delle cose rimane loro preclusa ogni influenza sul processo produttivo» (p. 87).
18 Id., Sciopero generale, partito e sindacati cit., p. 334.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 Id., Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa cit., p. 222. Aggiunge Luxemburg: «Organizzazione, chiarificazione e lotta non sono qui momenti divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati, come in un movimento blanquista, ma sono soltanto facce diverse di un medesimo processo» (ibidem).
22 Ibidem.
23 Id., Sciopero generale, partito e sindacati cit., p. 333.
24 Scrive Rosa Luxemburg che «il ruolo della direzione socialdemocratica è essenzialmente conservatore: l’esperienza mostra infatti che essa tende a rielaborare di continuo, fino alle estreme conseguenze, ogni nuova piattaforma di lotta di volta in volta conquistata e a tramutarla tosto in un baluardo contro ogni altra innovazione di grande stile» (Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa cit., p. 225).
25 «È assurdo pensare che il governo della maggioranza cosciente della classe operaia all’interno della sua organizzazione, che non è ancora realizzabile, possa essere “provvisoriamente” sostituito da un potere assoluto “trasferito” all’autorità centrale del partito e che il pubblico controllo delle masse operaie sulla condotta degli organi del partito, che manca, possa altrettanto bene essere sostituito dal controllo inverso dell’attività del proletariato rivoluzionario da parte di un comitato centrale» (ivi, p. 224).
26 Paralisi che consegue dalla «cieca subordinazione di tutte le organizzazioni di partito, con la loro attività fino al più piccolo dettaglio, a un potere centrale che solo pensa, fa e decide per tutti» e dalla «netta separazione del nucleo organizzato del partito dall’ambiente rivoluzionario circostante» (ivi, p. 222).
27 Id., La rivoluzione russa cit., p. 607.
28 Ivi, p. 606. Rosa Luxemburg critica i bolscevichi anche per il modo con il quale hanno affrontato la questione contadina e quella delle nazionalità. Cfr. ivi, pp. 578 e ss.
29 Luxemburg nota che la dittatura «deve essere opera della classe, e non di una piccola minoranza di dirigenti in nome della classe, vale a dire deve uscire passo passo dall’attiva partecipazione delle masse, stare sotto la loro influenza diretta, sottostare al controllo di una completa pubblicità, emergere dalla crescente istruzione politica delle masse popolari» (ivi, p. 605).
30 Ibidem.
31 Ivi, p. 591.
32 Ivi, p. 592.
33 Ivi, p. 599.
34 Ivi, p. 602. Per Luxemburg, all’opposto, «gli unici mezzi efficaci nelle mani della rivoluzione proletaria sono pure in questo caso: misure radicali di natura politica e sociale, la più rapida trasformazione delle garanzie sociali di esistenza per le masse e rinfocolamento dell’idealismo rivoluzionario, che è possibile mantenere durevolmente desto solo in condizioni di illimitata libertà politica e attraverso un’intensa attivizzazione delle masse» (pp. 602-3).
35 Ivi, p. 601.
36 Id., Riforma sociale o rivoluzione? cit., p. 135. «La democrazia è una necessità imprescindibile non perché renda superflua la conquista del potere politico da parte del proletariato, ma al contrario perché la fa necessaria e a un tempo ne rappresenta l’unica possibilità» (ibidem).
37 Riprendo l’espressione «democrazia insorgente» da M. Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, a cura di M. Pezzella, Cronopio, Napoli 2008, p. 8.
38 M. Abensour, La democrazia contro lo Stato cit., p. 9.
39 W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e di M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 23.
40 R. Luxemburg, La rivoluzione russa cit., p. 610.




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