11 febbraio 2013

LE DIMISSIONI DEL PAPA 1 e 2






Va beh questo è il film di Nanni Moretti, ma si è dimesso davvero anche Benedetto XVI.

Apprezzo il suo senso di responsabilità che tanti altri 

in Italia non sembrano proprio avere!

A parte questa sommaria considerazione mi sembra 

degna di attenzione la seguente riflessione 

psicoanalitica:




Massimo Recalcati - Il significato psicoanalitico dell’abbandono



La vita umana necessita di maschere per esistere. È un fatto: ciascuno di noi ne indossa una o più d’una quando si trova impegnato nelle funzioni e nei ruoli sociali che lo riguardano. Non a caso l’interrogativo: «ma chi credo di essere?» spesso attraversa il dubbio della coscienza che muove verso il gesto della dimissione da un incarico. Per questo i soggetti che credono senza incertezze al proprio Io, gli “Egoarchi” come li avrebbe definiti Giuseppe D’Avanzo, sono solitamente soggetti immuni dal rischio di dimissioni perché privi di quella quota necessaria di distanza da se stessi che rende possibile l’autocritica e il riconoscimento dei propri errori. Una leadership consapevole si misura dal modo in cui sa lavorare per preparare la sua dissoluzione rendendo possibile la sua permutazione e la sua trasmissione simbolica. Al contrario un eccessivo attaccamento al proprio Io rende impossibile l’esercizio di una leadership democratica perché resiste al principio della delega della responsabilità. Perché vi sia il gesto autentico delle dimissioni vi deve essere esperienza tormentata del dubbio e della propria vulnerabilità.

Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, le investiture pubbliche, insomma tutto ciò che offre una identità collettivamente riconoscibile alla vita umana, ricoprono il carattere finito, mortale, leso dell’esistenza umana. Il gesto delle dimissioni è sempre ricco di echi emotivi perché implica la caduta della funzione stabilizzatrice e rassicurante di queste maschere che agiscono come dei veri e propri abiti identificatori. Si tratta di una spogliazione traumatica che riporta la nostra vita alla sua condizione più nuda. È l’ora della verità; l’evento che ci ricorda che il nostro essere è irriducibile alla maschera sociale che lo riveste. Per questa ragione nel soggetto dimissionario possiamo rintracciare sempre una quota depressiva legata alla perdita dell’identità narcisistica che l’identificazione alla maschera pubblica gli garantiva. Ma può valere anche il contrario: dare le dimissioni può significare per chi compie questo atto un effetto salutare di liberazione dai lacci della maschera.

All’uomo — che è un essere in continuo divenire — l’abito rigido dell’identificazione appare sempre come un abito troppo stretto; lasciarlo cadere può allora allargare la vita, può essere una perdita feconda che rende possibile un affacciarsi rinnovato sul mondo.
Per la psicoanalisi la malattia e la sofferenza mentale sono legate ad un eccesso di identificazione rigida al proprio Io e al suo Ideale di padronanza. Il gesto della dimissione è un test di salute mentale perché implica la capacità del riconoscimento del proprio limite, cioè della propria castrazione. Non a caso è proprio la Legge simbolica della castrazione a presiedere l’intero percorso evolutivo della vita, il quale esige continue dimissioni simboliche: il bambino deve dimettersi dal suo ruolo per entrare nella turbolenze attive dell’adolescenza; l’adolescente deve dimettersi per assumersi la responsabilità della vita adulta e, a sua volta, l’adulto deve affrancarsi dal proprio Io per accettare la vecchiaia come transizione finale verso la morte.

E non è forse proprio questo ultimo passaggio della vita a rivelare che l’attaccamento ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo, ma il tentativo, tragico o farsesco, di rivestire artificialmente la sua finitezza mortale? Non è forse questo che s’incontra ogni volta che si dà gesto autentico, non solo tattico, di dimissioni? Non è per questa ragione che Nietzsche pensava all’uomo come ad un “ponte ”, ad un “tramonto”, ad un essere destinato a superare sempre se stesso, ad un “oltreuomo”?

(Da: La Repubblica del 14 febbraio 2013)

 

Non meno interessante la seguente riflessione di un credente poco ortodosso:


Corrado Bevilacqua, Beati gli ultimi



"Ho provato un turbamento profondo: è stato questo lo stato d'animo con cui ho appreso la notizia della decisione del Pontefice. Un evento di portata talmente eccezionale che non può non suscitare incredulità e sbigottimento. Penso che la dimensione universale di siffatti sentimenti - come d'altra parte universale è la Chiesa - deve aver avuto un peso enorme per il Papa nel maturare una decisione certamente sofferta, ma scelta con estrema consapevolezza nella solitudine della sua coscienza. Forse un dono straordinario per l'umanità tutta, forse un atto di coraggio estremo legato a un altissimo senso di responsabilità. È una decisione di fronte alla quale dobbiamo solo chinare il capo in segno di rispetto, per il Pastore e per l'Uomo e, per quanto è ancora possibile in questo nostro tempo, in silenzio. Con il diletto Sant'Agostino forse vuole ricordarci che «è nell'interno dell'Uomo che abita la verità".

Così s'è espresso il presidente emerito della repubblica Carlo Azeglio Ciampi in merito alla decisione di papa Benedetto XVI di rassegnare le dimissioni da papa. E' accaduto altre due volte nella storia della Chiesa cattolica che un papa abbia deciso di dimettersi. Famoso, per le sue esternazioni dantesche, fu il caso di papa Celestino V, il papa che, come scrisse Dante, per gran viltà fece il gran rifiuto, spianando la strada a Bonifacio VIII, che Dante aveva posto nell'Inferno ancor prima che fosse morto.

Dante era fatto così. Nemmeno un papa poteva sottrarsi alla sua velenosa critica. Nello stesso tempo, era generoso nell'ammirazione. Chi da ragazzo, leggendo a scuola il passo di Farinata degli Uberti, non avvertì un brivido corrergli per la schiena leggendo i versi nei quali Dante elogiava un uomo che nemmeno le pene dell'inferno erano riuscite a domare.

Personalmente, alla ricostruzione dantesca degli eventi che avevano portato Celestino V a compiere il gran rifiuto, preferisco la ricostruzione di quegli stessi eventi fatta da Ignazio Silone in Le avventure di un povero cristiano; In entrambi i casi, la figura di Celestino V ha comunque poco in comune con quella di papa Ratzinger.

Papa Ratzinger non ha compiuto il suo gesto per viltà o per inadeguatezza intellettuale. Ha compiuto il suo gesto come espressione estrema della profonda risi in cui versa la Chiesa;cattolica: una crisi che, malgrado tutto il suo sapere teologico, il papa ha apertamente dichiarato di non riuscire a dominare. ll motivo è semplice.

Gesù di Nazareth non affidò a Pietro il compito di costruire un impero delle anime, ma gli affidò il compito di diffondere nel mondo la buona novella. Dio aveva rinnovato la sua alleanza con l'umanità. Per l'uomo s'erano aperte le porte del Paradiso. Per farlo, Dio aveva sacrificato il proprio figlio il quale aveva dovuto sopportare lo scandalo della croce.

Il messaggio di Gesù agli uomini è contenuto nel discorso delle beatitudini, il punto più elevato della spiritualità cristiana. La lettura di quel discorso, mi fa sempre venie in mente ciò che Bertolt Brecht scrisse del comunismo: è così semplice che anche un ignorante lo capisce.. E' tempo che lo capiscano anche i nomenklaturisti del Vaticano.







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