11 febbraio 2013

G. VASTA: SCRITTURE CHE TRABOCCANO

Composition IV, Wassily Kandinsky

Ogni tanto qualcuno ci rimprovera di dare poco spazio ai giovani scrittori d’oggi. Certamente è vero che predilegiamo gli autori classici – eterni contemporanei! – ma, se si guarda bene l’archivio di questo blog, ci si accorge che non abbiamo mai trascurato gli autori giovani.
Oggi ne parliamo con uno di questi, Giorgio Vasta,  che ci offre un suo personale panorama della narrativa italiana più recente: 


GIORGIO VASTA – LE SCRITTURE CHE TRABOCCANO

Ci sono scritture che traboccano. La sostanza liquida della lingua non sta più nel suo alveo, raggiunge i bordi e comincia a tracimare. Alla leggenda (o alla storia) dei libri «scritti a tavolino» – e i tavolini più inquietanti non sono quelli che starebbero nascosti nei seminterrati delle grandi case editrici ma quelli conficcati nel cranio di chi scrive – queste scritture reagiscono rompendo ogni argine formale, procedendo per effrazioni della sintassi e smisurando la scelta lessicale. Dando vita, dunque, a vere e proprie visioni.
La loro pubblicazione accade in modo anomalo. Dovrebbe essere un’irruzione sulla scena letteraria, l’equivalente di una piccola abnorme fecondissima catastrofe. Nella realtà dei fatti sbalordisce la quota di silenzio che nella maggior parte dei casi ne accompagna la comparsa (rendendola dunque indistinguibile dalla scomparsa, come se la pubblicazione fosse per questi libri una fase dell’oblio). Scritture simili, rispetto ai boati dei primi posti delle classifiche di vendita, sono suoni sottilissimi, infrasuoni che domandano un ascolto altrettanto sottile e accurato. Nel momento in cui decidiamo di dedicarglielo, ci inoltriamo in una serie di scoperte.
Per esempio che narrazioni di questo tipo – ognuna direttamente o indirettamente liberata anche grazie a voci come quelle di Antonio Moresco, di Giulio Mozzi e di Giuseppe Genna – si collocano in una zona espressiva in cui convergono tanto la fame di linguaggio di Dino Campana quanto il millenarismo febbrile di Dante Virgili. Il sacro e lo sberleffo si compenetrano, l’impulso feroce verso l’astrazione più geometrica e la pulsione altrettanto frenetica nei confronti di tutto ciò che vive nel profondo dei nostri corpi si annodano l’uno all’altra.
Scritture contraddittorie, quindi sospette. Perché alla fisiologia presunta – pretesa?, obbligatoria? – del plot dominante nel mainstream osano opporre la meravigliosa patologia della lingua; non il recupero di mere sperimentazioni del passato quanto il desiderio agonistico se non conflittuale di confrontarsi con il letterario nella sua manifestazione originaria.
Nel 2012, e limitatamente alle mie letture (senza quindi pretendere di esaurire il discorso), sono comparsi quattro romanzi esorbitanti.
A gennaio Ponte alle Grazie ha pubblicato Tutto cospira a tacere di noi di Daniela Ranieri. Già dal titolo – un verso di Rilke – penetriamo all’interno di quel processo di autosabotaggio che è il presente italiano. Tacere, o meglio ammutolire, addestrarsi alla sparizione, sembra la colonna vertebrale delle generazioni tra i venti e i quarantacinque anni. Attraverso la storia di Luigi Trevor – sovversivo informatico assunto da una società di comunicazioni – Ranieri racconta «il vero mondo del lavoro finto», l’arcipelago di fenomeni sempre più sconnessi (e, va detto, sempre più tragicomicamente affascinanti) del terziario avanzato contemporaneo. In un romanzo orgogliosamente intemperante, ricco fino all’incontenibilità, l’autrice compone uno zibaldone, un trattato di biopolitica in cui lo stile è già in sé, in ogni sua parte, eversione.
La dissoluzione familiare di Enrico Macioci (Indiana Editore, con le illustrazioni di Maurizio Rosenzweig) è apparso a febbraio. Ragionare su questo libro permette – circostanza rara – di fare a meno di quei criteri tramite cui si identifica solitamente quanto sta dentro a un parallelepipedo di carta. Non occorre parlare di trama, preoccuparsi dei personaggi o dei luoghi in cui l’azione si svolge; non è neppure esatto fare riferimento a una vera e propria azione. Niente temi, niente attualità, nessun sociologismo, niente psicologie. C’è un bambino – il principe Poppy – che nasce in una Città che da qualche parte contiene dentro di sé L’Aquila, e c’è un irradiarsi di scrittura che sgorga da questa nascita-cratere. Leggendo La dissoluzione familiare (e perdendosi in una tessitura che sembra generata con la complicità di Lawrence Sterne) viene in mente la casa di Sergio Endrigo, «senza soffitto senza cucina». Una scrittura come questa – materia linguistica e immaginativa allo stato puro – è un luogo splendidamente inabitabile.
L’impero familiare delle tenebre future (il Saggiatore), esordio narrativo di Andrea Gentile, ha un’ambizione ineludibile: «Dirò l’immenso, nulla». Una ragazza si mette in cerca della madre, il suo viaggio avviene in uno spaziotempo solo in parte decifrabile. Mentre un Papa infinitamente muore, si cammina sostenendosi a bastoni di quercia amara. Il percorso condurrà la ragazza fino al letto vuoto di un ospedale e poi, ancora, al labirinto di un cimitero bianchissimo, nessuna parola sulle lapidi, nessuna data, nessun volto negli ovali delle foto, gli sguardi ridotti (elevati?) ad abrasione, a luce minerale. Per Gentile la ragione nucleare di ogni ricerca è questa: il presentimento insostenibile di non essere (più) guardati, di essere esclusi dalla percezione del mondo. Lo smantellarsi di ogni forma terrestre (sia essa orografica o linguistica) interviene non come apocalisse – perché la rivelazione attiene al percorso e non al suo esito – ma come liberazione tramite un radicale capovolgimento prospettico. Perché, racconta Gentile, non c’è altro da fare che attraversare le tenebre presenti, ritrovarci con la terra in alto e, in basso, un cielo da fissare.
Il diciottesimo compleanno (Transeuropa) è il primo libro del cinquantasettenne Riccardo Romagnoli. Matteo è un Amleto feroce che esita sulla soglia della maggiore età. Suo padre e sua madre dormono con una pistola sotto il cuscino, alla nascita il gemello di Matteo è nato morto. La vita è ciò che contiene il suo inseparabile contrario. Nel raccontare il tempo sempre più minutamente traumatico che precede il diciottesimo anno, Romagnoli dà forma a un desiderio metamorfico. Non solo l’io è, nella sua porosità, un fenomeno proteiforme; il desiderio di essere tutto il possibile appartiene in primo luogo alla lingua. In questo libro ogni frase è un animale famelico, pauroso e rabbioso, qualcosa che divorando (e divorandosi) trasmuta da una a un’altra possibilità di esistenza.
Scritture al contempo secche e tortuose, nitide e frastagliate, apodittiche o giocose; necessarie come sono necessari i traccianti luminosi in cielo quando muovendosi a terra, nel folto di un bosco, orientarsi ad altezza occhi è impossibile. Serve una rotazione del capo, serve riconoscere nel buio l’esistenza di un quinto punto cardinale che ci indichi una direzione radicalmente sbagliata, un verso fertilmente errato (ed errante): quella cattiva strada sulla quale la letteratura ancora accade.

Fonte: articolo pubblicato da La Repubblica
 

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