13 febbraio 2013

GENOCIDI DIMENTICATI




Neppure la morte rende uguali. Quasi nessuno ricorda il massacro dei sinti e dei rom nei campi di sterminio nazisti. Un genocidio dimenticato:

Margherita Bettoni - In cammino con gli zingari

Amalie Reinhardt, prima di cinque figli di una famiglia sinti, ha solo nove anni quando suo padre e sua madre vengono arrestati e condotti nel campo di concentramento di Dachau. È il 1938 e la Germania nazista conduce già da qualche anno una politica di persecuzione verso quelli che chiama «Zigeuner», gli zingari. Amalie e i suoi fratelli sono portati nel collegio di San Giuseppe a Mulfingen, nel sud della Germania. La struttura ospita 41 piccoli sinti che, in un primo momento, vengono risparmiati allo sterminio. Non si tratta qui però di buon cuore nazista: i bambini sono le cavie della giovane ricercatrice Eva Justin e del suo tutore, il dottor Robert Ritter.

I due sottopongono i piccoli a test pseudo-scientifici allo scopo di determinarne l'inferiorità razziale. Nel 1943 la Justin arriva alla conclusione che rom e sinti sono pericolosi per la razza ariana in quanto portatori del pernicioso gene del nomadismo e ne consiglia quindi la sterilizzazione forzata. La giovane tedesca consegue il dottorato in antropologia e i bambini, ormai inutili, sono deportati ad Auschwitz.

Trentacinque di loro sono gasati poco dopo l'arrivo al campo di concentramento, Amalie Reinhardt viene invece giudicata abile al lavoro e viene spostata nel lager femminile di Ravensbrück, dove sopravvive allo sterminio.

La vicenda della piccola sinti è una delle tante storie raccolte nel nuovo libro di Carla Osella Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato, pubblicato da Tau Editore (pp. 246, euro 15). Il «pellegrinaggio nel dolore di una popolazione», così come lo definisce Osella, inizia nel 2005 e porta l'autrice e la sua assistente Francesca Sardi sui luoghi dello sterminio rom e sinti. È un viaggio lungo quarantamila chilometri che attraversa venti paesi: dalla Francia all'Olanda, dalla Polonia all'Ucraina. Per sette lunghi anni, Osella e Sardi visitano campi di concentramento, ghetti ma anche centri di eutanasia e foreste, luoghi in cui rom e sinti vennero imprigionati, uccisi o gravemente menomati dagli esperimenti condotti sui loro corpi dalla follia nazista.




  Dal ghetto di Lódz, al lager di Mauthausen, passando per il collegio di San Giuseppe, filo rosso della ricerca sono le testimonianze dirette dei sopravvissuti o di persone che, indirettamente hanno assistito al genocidio, spesso dimenticato, del «popolo del vento». Uno sterminio dalle cifre incerte: i dati ufficiali parlano di seicentomila persone ma c'è chi sostiene che, a fine guerra restassero solo due milioni e mezzo dei dieci milioni di rom e sinti presenti in Europa prima dell'avvento nazista.
 
«Il libro - afferma Carla Osella - è il mio omaggio al popolo invisibile con il quale ho scelto di condividere la storia della mia vita». Raccontare del genocidio è per l'autrice un «modo per far parlare questa popolazione»; la peculiarità di Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato è infatti quella di dare voce, in prima persona, ai testimoni diretti dello sterminio. «Di solito siamo noi a parlare di loro - dice Osella - mentre questa volta ho voluto che fossero loro a raccontarsi».

Carla Osella, presidente di «Aizo rom e sinti» conosce bene il popolo per e con il quale lavora da quarantun anni. L'occasione di conversare con la gagè (la non zingara) che i rom e i sinti chiamano «bibì Carla», la zia Carla, è data da una serata di presentazione dell'ultimo libro a Trento.

Un libro che si scopre avere radici nel suo passato familiare. «Vengo da una famiglia antifascista - racconta con l'allegro accento torinese che la contraddistingue -. Mia madre è di Boves, la città incendiata dai nazisti. Mia nonna era antifascista ed i miei zii a Cuneo si rifiutavano di levare dalle camice il simbolo dell'Azione Cattolica. Per questo ciclicamente le camice nere li portavano dietro ai portici e gli facevano ingerire olio di ricino. I racconti di mia madre parlavano spesso di questo antifascismo che ho poi respirato anche nella facoltà di sociologia dove ho studiato, che a quei tempi era 'rossa'. L'antifascismo unito alla simpatia nei confronti del popolo con il quale convivo da quarantun anni ha fatto nascere l'idea di un libro che portasse alla luce i ricordi ed i fatti legati al genocidio quasi sconosciuto di questo popolo che ha il diritto di essere riconosciuto nella proprio dignità».

Il legame di Carla Osella con i sinti e con i rom nasce ai tempi della giovinezza ed è veicolato dall'immagine che ne danno i genitori. «I miei erano commercianti e i sinti di quell'epoca erano nostri clienti. I miei genitori me li hanno sempre presentati in maniera positiva, come persone da non discriminare. In realtà - continua poi a raccontare - da giovane sognavo di fare l'avvocato in Sudafrica per difendere i neri; invece, mi sono fermata qui in Italia ed ho iniziato a lavorare con i sinti, dapprima con i bambini e poi con gli adulti».

Entrare in contatto con questo popolo non è stato facile: «Ero una ragazza giovane che doveva riuscire a penetrare un mondo maschilista. La mia fortuna è stata quella di fare sempre riferimento alle donne, le mie prime alleate. Chi fa volontariato con i sinti e con i rom di solito va dagli uomini, dai capifamiglia. Ma io venivo dal sessantotto universitario e mi sono alleata con le donne. Quando hanno visto che entravo nel loro mondo in punta di piedi, che volevo conoscerle e fare qualcosa mi hanno accettata. Fondamentale però è stato anche abitare con loro, andare a raccogliere il ferro con loro, condividere insomma il loro vissuto quotidiano».

Quando le si chiede cosa bisognerebbe fare per entrare in contatto con questo popolo, Osella scuote il capo: «Prima di tutto bisognerebbe cambiare mentalità. Oggi viviamo un aumento di intolleranza nei confronti non tanto dei sinti italiani quanto dei rom rumeni, che arrivano a migliaia. Bisognerebbe essere capaci di accoglierli così come sono, concedere loro dei diritti, ma anche richiedere dei doveri. Se assistiamo a delle situazioni degradanti è anche perché alcuni comuni hanno portato avanti delle linee di assistenzialismo anziché cercare di risolvere il problema alla base».

E a livello istituzionale? «Il primo passo dovrebbe essere quello di concedere la cittadinanza perché ci troviamo di fronte a persone nate in Italia ma senza permessi di soggiorno, persone che sono senza documenti, quindi inesistenti. Poi bisognerebbe puntare sul lavoro, sui giovani e sui corsi di qualificazione: una certa autonomia lavorativa permetterebbe loro di non far proliferare attività illegali. E poi c'è il problema delle abitazioni: in Italia abbiamo vere e proprie favelas. Molti pensano che i rom siano delle persone libere, ma è una gran bugia: chi vive in baracca, chi vive tra i topi non è mai una persona libera».

Le richieste di Carla Osella difficilmente trovano ascolto a livello politico. «Tuttavia ci stiamo accorgendo che questa campagna elettorale è diversa dalle altre: per fare un nome tra tanti, Berlusconi non ha ancora attaccato le minoranze. Monti non è interessato al tema. Sono più presi a farsi la guerra l'un l'altro. Bersani è stato l'unico a parlare a favore degli immigrati. Questa è la prima campagna, da quindici, vent'anni in cui gli stranieri non vengono utilizzati come carta per guadagnare voti. Persino la Lega Nord si sta moderando, forse perché deve prima leccare le ferite di casa propria».

Per cambiare veramente qualcosa servirebbe tuttavia l'intervento dei singoli, della cosiddetta gente comune che, e Osella ne è convinta, ha il potere di far prendere una direzione nuova alla storia. «Provoca rabbia vedere come troppo pochi si occupino di questo problema. Anche i comuni stessi potrebbero fare molto di più. L'Europa ha stanziato settecento milioni di euro per la gestione dei rom e dei sinti in Italia. Io guardo i campi dove sono costretti a vivere e mi chiedo: che fino hanno fatto questi soldi?» Secondo Osella basterebbe avere il coraggio di parlare per modificare una situazione di intolleranza che in Italia sfocia spesse volte in veri e propri episodi di odio etnico, come il rogo della Cascina della Continassa, seguito alle false accuse di una sedicenne che aveva raccontato al fratello di essere stata stuprata da alcuni rom, raccontato da Osella e da Mara Francese nel libro-diario Il Pogrom della Continassa, edito da Sabbiarossa nel 2012.

Una vita, quella di Carla Osella, passata dunque a dar voce a quel popolo di ultimi, di dimenticati che spesso passano sotto silenzio, così come è passato sotto silenzio il loro genocidio. Spesso vittime di un'insofferenza diventata odio i sinti ed i rom vengono discriminati e condannati in quanto popolo. «Bisognerebbe non fare di tutta l'erba un fascio - dice ancora. E avere la grandezza di Ceija Stojka (scomparsa qualche giorno fa, ndr), rom austriaca che ho intervistato per il mio ultimo libro, che, sopravvissuta all'inferno di Bergen-Belsen vivendo nascosta tra le cataste di corpi morti, parlando dei nazisti ha ancora il coraggio di dire 'io non mi sento di odiarli, perché sono uomini come noi'».

(Da: Il Manifesto del 7 febbraio 2013)

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