Barbara Carnevali sul sito http://www.leparoleelecose.it ha
recensito il saggio
della sociologa israeliana Eva
Illouz, Perché
l’amore fa soffrire, pubblicato originariamente in tedesco (Warum Liebe
weh tut, 2011), tradotto in inglese e francese, e atteso in edizione
italiana per il Mulino. In Germania il libro è stato un caso editoriale; nei
paesi di lingua inglese ha suscitato un lungo dibattito. Il 4 gennaio 2013, “Le
parole e le cose” ha pubblicato una videointervista
all’autrice. Di seguito potete leggere la recensione della Carnevali:
BARBARA CARNEVALI – L’AMORE AL TEMPO DEL
CAPITALISMO
L’amore come patologia sociale
Da alcuni anni Eva Illouz ha intrapreso un
affascinante programma di ricerca dedicato alle forme con cui modernità ha
plasmato la vita affettiva[1]. Il suo ultimo libro affronta il problema più
delicato e avvincente, il rapporto tra eros e capitalismo, chiedendosi quale
sia lo specifico modo di soffrire per amore che caratterizza la cultura
contemporanea.
Si tratta, in primo luogo, di relativizzare fenomeni
solo apparentemente universali[2].
La sofferenza amorosa sembra senza tempo, e la letteratura sarebbe pronta
a dimostrarlo. Ma il senso da attribuirle è condizionato dai quadri
ideologici e istituzionali che strutturano le diverse forme di vita, e può
addirittura invertirsi nel passaggio da un contesto all’altro. Il dolore che fu
esaltato dal cristianesimo e dal romanticismo è diventato vergognoso al tempo
del capitalismo. Per la mentalità terapeutica e concorrenziale che ispira i
nostri costumi, contraddicendo i valori romantici ancora latenti nella cultura
pop, lo struggimento del desiderio inappagato che il codice stilnovistico
celebrava come prova di grandezza interiore è un sintomo di scarsa salute
emotiva e l’indice di un fallimento, di una svalutazione dell’io.
L’approccio della sociologia storica sfocia quindi
nella denuncia delle strutture sociali che condizionano la vita affettiva,
distorcendola. L’indagine si iscrive in quella linea del pensiero critico che
si fa carico di diagnosticare le cosiddette “patologie del sociale”, e che a
sua volta è erede del progetto illuministico di secolarizzazione della teodicea[3].
Tale progetto consiste nello spiegare la sofferenza umana spostandone l’origine
dal cielo alla terra, nel attribuire il male non al volere di Dio o al peccato
di Adamo, ma alla responsabilità sociale collettiva che permette a una forma
storica di civiltà di creare e perpetuare istituzioni ingiuste. Anche per il
mal d’amore, in altre parole, vale il principio “la colpa è della società”:
Così come era audace, alla fine del diciannovesimo
secolo, affermare che la povertà non era il frutto di scarsa moralità o di una
debolezza del carattere, ma il risultato di un sistema di sfruttamento
economico, è diventato ora urgente affermare che i fallimenti delle nostre vite
private non sono, – o non sono solo – il risultato di psiche vacillanti, ma che
le vicissitudini e le infelicità della nostra vita amorosa sono il prodotto
delle nostre istituzioni […] di cui deve essere trovata l’origine nell’insieme
delle tensioni e delle contraddizioni sociali e culturali che strutturano ormai
l’io e le identità moderne.
L’idea di una patologia sociale dell’amore non è
nuova; risale a Rousseau, se non addirittura a Sant’Agostino. Ma solo in tempi
recenti è diventata parte di un programma di ricerca. La sfera emotiva sembra
infatti sfuggire alla presa del sociologo per la sua natura psichica,
soggettiva e squisitamente privata. La modernità tende a pensare le emozioni e
ad affrontarne i risvolti patologici nei termini dell’io: non manca di pratiche
terapeutiche, ma i suoi modelli dominanti, dal self-help alla
psicanalisi, trattano la sofferenza amorosa solo come un problema psicologico:
come una scelta razionale e cosciente, o come il prodotto di schemi inconsci di
origine familiare, secondo la versione della vulgata psicoanalitica[4].
Dal punto di vista della sociologia critica questo modo di pensare è una
robinsonata, l’equivalente del mito liberista in economia: scarica tutta la
responsabilità sul soggetto, e non riconosce nelle emozioni dei fenomeni
sociali a tutti gli effetti. La vita emotiva non inizia e non finisce nell’io,
ma è strutturata una grammatica di valori, istituzioni e quadri culturali che
trascende gli individui irretendoli in un tessuto di forze da cui non possono
svincolarsi solo con la loro buona volontà. La grammatica dell’amore moderno è
il capitalismo, e il capitalismo ha la caratteristica di creare contraddizioni
immanenti. Su queste contraddizioni deve fissarsi la critica.
La grande trasformazione amorosa. Dal paradigma di
Jane Austen al paradigma dell’autenticità
Sono due i mutamenti essenziali in cui consiste quella
che Eva Illouz definisce la “grande trasformazione” dell’amore moderno,
parafrasando e riadattando la celebre tesi di Karl Polanyi sulla nascita
dell’economia capitalistica: il nuovo equilibrio tra amore e stima sociale, che
ha esposto l’individuo al rischio della lotta per il riconoscimento; e la
nascita del libero mercato sessuale (per opposizione al mercato chiuso che vigeva
prima, perché pur sempre di mercato matrimoniale si trattava), che ha
instaurato una nuova variabile della disuguaglianza e inedite forme di dominio.
Per cogliere questi mutamenti, Illouz usa la tecnica
degli idealtipi. È più facile cogliere la specificità del paradigma in cui
viviamo se lo confrontiamo con un altro paradigma, quello descritto nei romanzi
di Jane Austen, che presenta il giusto equilibrio tra vicinanza e distanza: si
tratta di un modello moderno, retto come il nostro dai valori dell’individualismo
e dell’amore elettivo (i matrimoni non sono combinati, ma sono il frutto di una
scelta consapevole), ma che presenta differenze molto significative per il modo
in cui la ricerca del partner si modula nella realtà: una diversa costellazione
di istituzioni e valori modifica sensibilmente sia l’ecologia che
l’architettura della scelta amorosa.
Il paradigma austeniano ruota intorno alla nozione di
carattere e a un’etica delle virtù pubbliche (o della “chiarezza
morale”), un sistema di valori condiviso esplicitamente da tutta la comunità
che permette di valutare il comportamento individuale secondo parametri
oggettivi. La relazione affettiva tra due persone nasce e si sviluppa nella
modalità ritualizzata del “fare la corte” davanti agli occhi di un pubblico, il
cui giudizio interviene come fondamentale entità mediatrice. Questa struttura
condiziona fortemente il fenomeno del riconoscimento e sul rapporto che esso
intrattiene con l’amore: i protagonisti di un romanzo di Jane Austen non
ricavano il senso del loro valore direttamente dallo sguardo dell’innamorato,
come farebbero invece due amanti dei nostri giorni; lo ottengono in primo luogo
dalle fonti stabili della loro classe o del loro genere di appartenenza, i cui
criteri cercano di armonizzare con l’architettura della loro scelta. Il merito
non coincide tanto con le qualità e i talenti individuali quanto con la
capacità virtuosa di conformarsi a un codice etico: comportarsi da gentiluomo,
rispettare la parola data, una promessa, un impegno. Ne consegue che il valore
di una persona può essere percepito come del tutto indipendente da quello che
le attribuisce il suo pretendente, e che un rifiuto o un abbandono non
pregiudica la stima di cui una persona gode all’interno della comunità.
Intrappolandolo all’interno delle sue norme, in altre parole, la società
tradizionale preserva l’io dall’esposizione della ferita narcisistica. Il
contrario di ciò che avviene nel paradigma contemporaneo moderno, dove a essere
coinvolta è l’essenza stessa dell’io, e il riconoscimento amoroso si
indirizza alla parte più intima e singolare dell’individuo: «l’amore diventa
così un aspetto della dinamica delle disuguaglianze morali, le ineguaglianze
nella percezione del proprio valore».
Un’altra differenza che separa il paradigma contemporaneo
da quello di Jane Austen è quella tra la natura ontologica o performativa
delle emozioni. Nel nostro “regime di autenticità”, i sentimenti sono
concepiti come entità reali e date che precedono le relazioni affettive,
esistendo indipendentemente da esse e condizionandone la possibilità e l’esito.
L’amore c’è o non c’è all’interno della psiche individuale; prima di mettersi
insieme o di lasciarsi, due persone devono cercare di capire cosa “provano
davvero” l’una per l’altra. Questo scrutinio interiore – che abbia la forma
dell’analisi o dell’epifania, del colpo di fulmine o della disillusione
graduale – precede di diritto il loro impegno nel rapporto reciproco.
L’emozione guida l’azione, e il rapporto è autentico nella misura in cui
corrisponde alla qualità reale dei sentimenti che lo informano. All’interno del
regime performativo caratteristico delle società tradizionali[5],
al contrario, i sentimenti tendono a essere concomitanti o addirittura
successivi agli atti e ai rituali amorosi: sono un effetto, non la causa delle
relazioni. Una donna si innamora durante la corte che riceve, e così il
pretendente risponde ai suoi segni di interesse aumentando l’intensità e
ufficialità del suo impegno di fronte alla comunità. La richiesta di matrimonio
è l’atto che esemplifica questo complesso meccanismo di feedback: è la
condizione di possibilità del sentimento, più che la sua funzione o il suo
prodotto. L’azione guida l’emozione: come veniva ripetuto alle nostre nonne
esitanti, «sposalo, e poi imparerai a volergli bene».
Ora, Illouz sostiene provocatoriamente che questa
convenzionalità, insincera e soffocante per la nostra sensibilità, presenta
degli indubbi vantaggi per l’individuo. Rispetto all’ethos dell’autenticità, il
regime performativo garantisce un maggiore controllo sull’economia emotiva.
Fornendo moduli di comportamento prevedibili e facilmente interpretabili perché
fondati su una grammatica pubblica, permette al singolo di calibrare il suo
coinvolgimento della relazione, e di proteggersi dal rischio dell’insuccesso e
del rifiuto. Non c’è nulla da “analizzare”, in termini psicologici e
psicanalitici, dietro un gesto, come una visita fatta o mancata, il cui
significato è chiaro a tutti. E quando tra il gesto e il suo significato
si crea uno iato, come in quelle situazioni romanzesche in cui il corteggiatore
si rivela un poco di buono, la comunità interviene in soccorso formulando il
suo giudizio di condanna e garantendo all’individuo ingannato il suo
riconoscimento sociale: l’abbandono non umilia, e può addirittura rafforzare la
stima di sé. È un altro esempio della dialettica in cui incorre la modernità:
l’emancipazione dell’individuo dai vincoli comunitari lo rende più libero e autonomo,
ma proprio per questo anche molto più fragile ed esposto al dolore.
L’amore sul libero mercato: l’estensione del dominio
della lotta
Ma il fenomeno in cui questa contraddizione si
manifesta nel modo più distruttivo è quello cui è dedicato il capitolo più cupo
dell’analisi di Illouz, e in cui trova tutto il suo senso la metafora della
grande trasformazione capitalistica. La rivoluzione sessuale ha portato a
compimento il processo avviato dalla mobilità sociale, liberando definitivamente
gli individui dai vincoli di classe, genere, etnia che regolavano il sistema
dell’accoppiamento. La ricerca di un partner non si svolge più all’interno di
sfere delimitate con rigore, normate da codici e pesanti interdetti, ma, grazie
anche alle possibilità aperte dalla tecnologia e dai media, si estende
all’intero universo dei possibili. Anche i criteri della scelta individuale si
sono arricchiti: alla conservazione dello status e del patrimonio, che
sopravvive ovviamente anche nello stadio capitalistico, si è affiancato il gusto
personale, che dà sempre più spazio alla ricerca di affinità idiosincratiche,
all’attrazione fisica e soprattutto al sex appeal, che rappresenta la novità
più significativa rispetto al vecchio paradigma. Si può trovare una perfetta
illustrazione di questa nuova architettura del desiderio nei siti di incontri
in internet, in cui l’utente seleziona le qualità desiderate – sesso, età,
bellezza, professione, hobbies – e viene messo in contatto dal motore di
ricerca con ogni potenziale partner del globo.
Ma che cos’è questa relazione universale che connette
soggetti astratti, svincolati da qualsiasi quadro di riferimento, sulla base di
presunte preferenze individuali, se non ciò che l’economia definisce mercato?
Thomas Hobbes, assistendo allo stadio iniziale di questa trasformazione in cui
molti hanno identificato l’essenza stessa della modernità, l’aveva descritta
come un endemico stato di concorrenza universale, la guerra di tutti contro
tutti; con la lucidità consueta, aveva formulato le conseguenze sul piano del
valore individuale: «Il valore, o Prezzo di un uomo, è, come in tutte le altre
cose, il suo prezzo… non è perciò una cosa assoluta, ma dipende dal bisogno e
dal giudizio altrui»[6]. È la legge del desiderio di desiderio,
dell’identificazione ultima tra valore individuale e status, dell’”io valgo in
quanto tu mi vuoi”. Come ha mostrato René Girard, questo principio può
applicarsi anche all’amore, ma a condizione di identificarne riduttivamente la
promessa di riconoscimento con il prestigio sociale[7].
Fondendosi con l’amor proprio e con l’onore, il desiderio amoroso moderno
diventa allora un dispositivo di convalida dello status: una sottile astuzia
del narcisismo per far salire il prezzo dell’io e guadagnare titoli di stima
nella sfrenata corsa dell’”economia della stima”.
Ma solo in seguito alla liberazione sessuale, che ha
abbattuto le ultime barriere che proteggevano eros dal mercato, radicandolo in
un reticolo di norme etiche e legali, la grande trasformazione ha invaso le
emozioni. L’amore è diventato a pieno titolo un campo della concorrenza
capitalistica. Paradossalmente, è stato il Sessantotto a realizzare l’incubo
del cinismo economico, secondo la geniale intuizione di Houellebecq:
Il liberalismo economico è l’estensione del dominio
della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi
sociali. Ugualmente, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della
lotta a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali… L’individuo
moderno è (così) pronto a prendere posto in un sistema di scambi generalizzati
nel quale è divenuto possibile attribuirgli, in maniera univoca, un valore di
scambio[8].
L’analisi di Illouz, che non cita Houellebecq[9],
prende avvio da questo stesso evento. Sul mercato l’amore diventa merce,
dotata di valore di scambio e destinata a creare relazioni di dominio. Qui
interviene il momento critico della sociologia, come chiarisce questa
dichiarazione programmatica che parafrasa ironicamente il Capitale:
Il mio scopo è trattare l’amore come Marx trattò le
merci: si tratterà di mostrare che l’amore è il prodotto di rapporti sociali
concreti, e che l’amore circola su un mercato fatto da attori in situazioni di
concorrenza, e ineguali; e di sostenere che certe persone dispongono, rispetto
ad altre, di una più grande capacità di definire le condizioni in cui sono
amate.
I rapporti di dominio strutturanti il campo sessuale
sono analoghi a quelli che si instaurano in ogni forma di mercato. Vi sono
capitalisti sessuali, che accumulano conquiste come conferme del proprio
status. E vi sono proletari sessuali, quelli che il vernacolo italiano
chiamerebbe molto opportunamente gli “sfigati”, ossia coloro il cui destino di
perdenti si manifesta anzitutto nell’insuccesso erotico[10].
Il suo intimo nesso con il riconoscimento fa dell’amore una incarnazioni più
potenti e più subdole (anche perché denegate dalla retorica sentimentale) del
dominio simbolico teorizzato da Pierre Bourdieu: un dominio, certo, che è
sempre esistito, e che in fondo è implicito nel concetto stesso di seduzione;
ma che in regime capitalistico assume una inedita forma cumulativa. Esiste
infatti un capitale erotico, consistente di trofei, conquiste, segni di
apprezzamento estetico e di desiderabilità: quello esibito dalle modelle
l’Oréal quando commentano compiaciute “io valgo”, e contenuto nei cosmetici che
promettono di preservare e incrementare il “capital beauté”[11].
Valorizzando qualità naturali che sono in parte indipendenti dalle risorse
materiali, il capitale erotico ha la caratteristica di essere indipendente dal
capitale economico. Houellebecq ha formulato il principio: «Certi guadagnano su
entrambi i tavoli; altri, su entrambi perdono»; «sul piano economico, Raphaël
Tisserand appartiene al clan dei vincitori; sul piano sessuale, a quello dei
vinti»[12].
Ma benché indipendenti, le due forme di capitale sono transitive. Il che
permette al capitalista erotico e a quello economico di mercanteggiare e
stipulare un contratto soddisfacente per entrambi: come il Presidente e
l’Olgettina, e come la coppia maledetta protagonista dell’ultimo romanzo di
Walter Siti, Resistere non serve a niente, formata dalla velina e
dal trader. Quando invece non c’è contratto, c’è solo la prevaricazione
oscena, incarnata magnificamente dal Don Giovanni “executive” di Haneke:
capitalista di tutti i capitali, che vince in scioltezza su qualsiasi campo[13].
Il sesso debole
Non è questa tuttavia la chiave di lettura proposta da
Illouz, che interpreta l’opposizione tra dominanti e dominati in una sua
originale prospettiva femminista, individuando il soggetto debole del
capitalismo amoroso in una specifica categoria sociale: le donne della classe
media che hanno deciso di investire nella famiglia e nei figli. A farle
soccombere sul mercato sessuale è il loro peculiare rapporto con il tempo,
quella diversa misurazione dell’esistenza che volgarmente chiamiamo orologio
biologico. Spaventate all’idea di perdere la fertilità, tendono ad accelerare i
ritmi della relazione e ad assumere una posizione masochistica nella delicata
negoziazione tra autonomia e dipendenza; suscitano e allo stesso subiscono la
“fobia per l’impegno” che rappresenta la complementare reazione degli uomini.
Per loro il rapporto tra Sesso e Tempo si pone con ritmi più lenti, suggerendo
che il campo dei possibili sia sempre infinitamente aperto:
Il campo sessuale è dominato dagli uomini, che possono
restarci più a lungo e che dispongono di una scelta più vasta … La loro
reticenza a stabilire legami di lunga durata ne è una conseguenza.
Gli uomini sono avvantaggiati sul mercato sessuale:
investono meno delle donne nel riconoscimento affettivo perché hanno altre e
più importanti conferme del loro status, dal lavoro e dal successo economico;
non sono biologicamente e culturalmente definiti dalla riproduzione; e sono
favoriti dalle norme sociali del sex appeal, che esaltano soprattutto la
giovinezza femminile. Più in generale, riprendendo temi più classici della
critica femminista, Illouz riconosce una delle principali contraddizioni del
regime del capitalismo amoroso nel fatto che le donne restano il bersaglio
dell’industria culturale, che le costringe a trarre la percezione del proprio
valore dal desiderio altrui, riproponendo sotto la maschera libertaria lo
schema secolare del dominio maschile. È ancora la dialettica
dell’emancipazione: la gabbia che imprigionava le donne in un controllo
paternalistico le proteggeva dal trasformarsi in merci destinate a svalutarsi
velocemente, e a perdere la stima di sé insieme al proprio capitale sessuale:
Le donne eterosessuali della classe media non sono mai
state così sovrane sul loro corpo e le loro emozioni; eppure subiscono da parte
degli uomini un dominio affettivo senza precedenti.
Sono tesi discutibili, perché aggiornano vecchi miti
(il maschio predatore e irresponsabile, la femmina che cerca di incastrarlo) e
perché ignorano alcune delle più vistose trasformazioni simboliche della nostra
cultura: l’assunzione da parte di molte donne di un modello di sessualità
virile, la crescente feticizzazione del corpo maschile nell’immaginario
pubblico, la moltiplicazione e la crescente visibilità sociale di coppie in cui
il partner femminile è più anziano e autorevole. Dal punto di vista di Illouz,
tuttavia, questi fenomeni sono eccezioni elitarie, e non testimoniano alcuna
trasformazione reale nella vita quotidiana dell’umanità media che è il solo
legittimo oggetto della sociologia critica. Ma più ancora delle statistiche, a
essere persuasive sono le testimonianze dei soggetti sofferenti. Illouz
colleziona interviste, lettere alla posta del cuore dei grandi quotidiani,
discussioni sui blog, brani dai manuali di self-help e dalle guide al dating,
commentandoli con la stessa sensibilità con cui interpreta le trame di
matrimonio dei romanzi ottocenteschi. Ne emerge un doloroso ritratto di donna
vinta dal mercato sessuale, a metà strada tra un’eroina romantica e Bridget
Jones.
Nostalgia ed emancipazione
A questi dilemmi non seguono soluzioni. L’unica
raccomandazione esplicita di Illouz è quella di coltivare l’intensità emotiva
per compensare la razionalizzazione crescente (un capitolo meno originale del
libro, che riprende i temi di Intimità fredde, è dedicato allo smorzarsi
delle passioni nel cinismo, nell’ironia e nella disillusione). Per il resto,
l’analisi si limita a svelare la dialettica dell’individualismo senza temere di
infrangere molti tabù progressisti, nella convinzione che le conquiste della
modernità siano comunque irrinunciabili. Per difendersi dai malintesi,
nell’epilogo del libro, Illouz difende accoratamente l’importanza dei valori
moderni: l’uguaglianza tra i sessi, l’autonomia, la libertà degli stili di
vita, la legittimità del piacere. E ricorda come, nelle società del passato, la
venerazione accordata alle donne (e solo a certe donne[14])
fosse anche il risarcimento simbolico della loro dipendenza materiale e legale.
Queste precisazioni non bilanciano però l’impressione che, quasi suo malgrado e
proprio in forza della sua finezza, il libro trasmetta una nostalgia
malinconica: il bilancio non rende piena giustizia a ciò che la rivoluzione
sessuale ha fatto per l’emancipazione di tutti. Del resto, contro la tentazione
di rivivere l’amore di ieri, basterebbe pensare che i romanzi di Jane Austen si
interrompono sempre sulle soglie di un matrimonio, dopo di cui l’idea di
“chiarezza morale” cede il passo a un’inquietante spazio nero. Questo silenzio
segnala un limite importante del modello di sociologia comparata costruito da
Illouz, che diventa ingannevole nel momento in cui imposta il confronto tra i
due paradigmi in modo retrospettivo e asimmetrico: privilegiando il peso della
libera scelta rispetto a quello del legame coatto, le mortificazioni del
rifiuto e dell’abbandono a scapito di quelle dell’unione e della fedeltà
imposta in modo diseguale, finisce per occultare il vero focolaio della
sofferenza amorosa premoderna. Nell’Ottocento l’amore faceva meno male alle ragazze
in età da marito che alle mogli infelici come Emma Bovary e Anna Karenina.
Ma il libro di Eva Illouz è bello proprio perché
disturba, e perché non scioglie tutti i dubbi, sollevando anzi nuovi
interrogativi. Leggerlo è un vero piacere intellettuale, misto di quel senso di
potenziamento e di sollievo che, secondo l’etica spinozista, si accompagna alla
conoscenza adeguata delle passioni umane. Forse un naturalista come Spinoza
avrebbe sorriso davanti al progetto di risolvere gli affetti in un progetto di
patologia sociale, ma la fiducia nel potere di emancipazione del sapere resta
la stessa. Comprendere come esperienze private, di cui ci credevamo
individualmente responsabili, facciano parte di un complesso sistema delle
cause di cui siamo solo gli attori finiti e parziali, ci mortifica nella nostra
pretesa ingenua di autodeterminazione, ma contribuisce a liberarci in un modo
più profondo.
[1]
In Italia è stato tradotto solo Intimità fredde, Milano,
Feltrinelli, 2007.
[2]
Sotto questo aspetto la ricerca di Eva Illouz ricorda la storia della
sensibilità praticata da Günther Anders, che affrontava i sentimenti come
«universali contingenti» (Amare, ieri, Torino, Bollati Boringhieri,
2004).
[3]
In particolare alla scuola neofrancofortese di Axel Honneth, cui si deve il
programma sulle patologie del riconoscimento. La formula “secolarizzazione
della teodicea” è stata coniata da Ernst Cassirer a proposito del pensiero
sociale di Rousseau. Grazie a questa svolta, la teoria sociale può assumere una
portata politica: riconoscendo cause storico-sociali dietro a guerre,
disuguaglianze, schiavitù, oppressione, povertà, e persino catastrofi solo
parzialmente “naturali”, come epidemie, terremoti e disastri ecologici,
dischiude per la prassi umana un margine di intervento molto più ampio.
[4]
Illouz riconosce che la posizione di Freud a proposito della responsabilità
personale non è riducibile a questa caricatura, e alla fine del libro ringrazia
la sorella psicanalista per le discussioni che hanno arricchito la sua
riflessione. Ciononostante, la polemica contro “psicanalizzazione” della
sofferenza amorosa resta uno dei temi principali del suo libro. L’approccio
sociologico con cui Illouz affronta il fenomeno dell’amore è molto vicino a
quello che la scuola francese di Alain Ehrenberg ha applicato alla depressione,
alle dipendenze, e al culto della performance, anche nel rilevare le
contraddizioni implicite nell’individualismo moderno.
[5]
La distinzione, va ricordato, è solo idealtipica. Relazioni performative
sopravvivono anche in regime di autenticità, e sono implicite, di fatto, in
ogni atto legale, dal matrimonio all’unione civile.
[6] Thomas Hobbes, Leviathan, cap. X.
[7]
Questo è il significato profondo dell’equazione tra amore e snobismo,
che Girard sviluppa in Menzogna romantica e verità romanzesca. Non si
tratta di una semplice idiosincrasia proustiana, ma di una descrizione efficace
di come l’amore moderno sia diventato una delle esperienze primarie di
valorizzazione dell’io.
[8]
Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta.
[9]
L’assenza è tanto più sorprendente in un libro che esalta il valore sociologico
della letteratura, e che potrebbe trovare nelle Particelle elementari il
perfetto corrispettivo idealtipico dell’universo amoroso di Jane Austen.
Nell’eventualità che il silenzio non dipenda da un pregiudizio ideologico, la
coincidenza tra i due pensieri è ancora più interessante.
[10]
L’etimologia popolare spiega alla lettera il concetto di “sfiga”, come la
condizione di chi è privato del sesso femminile.
[11]
http://www.lorealparis.ca/histoire.aspx.
Nella versione originale francese il motto è “je le vaux bien”, ossia “lo
valgo”, “me lo merito” (l’investimento, la cura, la spesa per il prodotto). La
casa produttrice lo vanta come una dichiarazione di autostima e di indipendenza
femminile. In realtà, semplificando il messaggio, la traduzione italiana ne ha
fatto emergere il sottinteso hobbesiano e girardiano: “io valgo perché tu (che
mi guardi) mi desideri”. Tra i tanti esempi di marketing centrato sul concetto
di capitale estetico: http://www.yvesrocher.fr/control/category/~category_id=B1318.
[12]
Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta.
[13]
http://www.youtube.com/watch?v=yHaDhyklDUI.
Don Giovanni, regia di Michael Haneke, direzione musicale di Philippe
Jordan, con Peter Mattei. Lo spettacolo rappresentato nella primavera del 2012
all’Opéra Bastille (ambientato nel mondo della finanza, su uno sfondo che
ricorda le hall dei grandi alberghi, e in cui Zerlina e Masetto lavorano come
addetti alle pulizie) riprendeva un allestimento del 2006, anteriore quindi al
caso Strauss-Kahn.
[14]
Il discorso di Illouz è esplicitamente limitato alle classi medio-alte
occidentali.
I SENTIMENTI AMOROSI SONO STATI SEMPRE CONDIZIONATI STORICAMENTE E SOCIALMENTE.
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