Quando la sterminatrice era uno spettacolo.
Un libro sul "Trionfo della morte" di Palermo
Antonio Scurati
I cimiteri sono deserti,
anche nel giorno dei morti, le chiese evacuate da weekend in riviera,
gli ospedali confinati nelle suburbie. Per secoli la civiltà
cristiana ha messo la morte al centro della vita, ora noi l’abbiamo
confinata ai suoi margini oscuri. Mai come in questa nostra epoca è
stato possibile assistere quotidianamente, abbondantemente,
immediatamente, accendendo un computer o un televisore, alle immagini
mediate di morti altrui e mai come in questa epoca l’immagine della
morte ci ha lasciati orfani di una meditazione sulla morte. Da
sempre, nessuna cultura, in qualsiasi epoca e luogo, è nata senza un
culto dei morti, fino alla nostra epoca, alla nostra cultura. Un
rivolgimento antropologico profondo, una novità senza precedenti.
Eppure la morte non ha mai smesso di trionfare.
Il
«Trionfo della morte» di Palermo è il
titolo dell’ultimo libro di Michele Cometa, studioso di letterature
comparate e cultura visuale all’Università di Palermo (Quodlibet
editore, pp. 170, € 16), dedicato al formidabile affresco
originariamente collocato nel cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo
di Palazzo Sclafani e ora custodito nella Galleria Regionale della
Sicilia. Indimenticabile per chiunque lo abbia visto, il gigantesco
dipinto (sei metri per sei) racchiude l’intera enciclopedia
iconografica della meditazione sulla morte di un’epoca ossessionata
da essa, lo specchio dell’Europa medievale funestata dalla peste da
più di un secolo eppure sorprendentemente aperta a un futuro ignoto
e diverso.
Cometa esordisce con una
ékphrasis, una meravigliosa descrizione verbale dell’opera
d’arte visiva, un esercizio retorico antico eppure modernissimo,
nella convinzione che l’attuale trionfo della visualità non
comporti - come credono i reazionari, i malinconici masturbatori di
libri defunti, i torvi della retroguardia accademica inutili a sé
stessi e al mondo - la competizione storica con la parola, né tanto
meno l’emarginazione della cultura libresca, ma una superiore
sintesi di entrambe.
Solo pochi osano
guardare
E, così, la parola
sapiente ed evocativa interroga trentaquattro tra uomini e donne, più
quattro cani, un cavallo e altri minuscoli animali, tutti sovrastati
dalla freccia sterminatrice che solo pochi tra loro osano guardare. E
sono i mendicanti, gli storpi, i derelitti che dal margine
dell’affresco implorano una liberazione. Cometa li interroga nel
vertiginoso gioco reciproco di sguardi che si scambiano
reciprocamente e che scambiano con noi che, a secoli di distanza, li
stiamo ad ammirare. Qui una prima rivelazione colpisce l’occhio che
interroga ciò che gli occhi non osano guardare: già nel Medioevo,
incantato dalla grande sterminatrice, il trionfo della morte era il
trionfo dello spettatore. Soltanto che allora, prima della rimozione
del tragico, fissare i propri occhi in quelli del morituro
significava che l’abisso ci avrebbe restituito lo sguardo. Allora,
come oggi, la morte ci ri-guarda. Oggi, però, voltiamo la testa.
Consapevole di ciò,
Cometa interroga il grande spettacolo del mondo nell’istante della
sua fine, ammaliato dalle sue tessiture narrative più che dalle
disquisizioni erudite sulle sue fonti. Non si chiede «chi lo ha
dipinto?» ma «quale storia vi si narra?». E qui cade la seconda
rivelazione: vi si narra una storia che giunge fino a noi. Sì,
perché nelle immagini di un’Europa medievale perseguitata dalla
peste come in quelle dei migranti odierni che vengono a morire sulle
nostre coste, ciò che davvero conta, al di là di ogni disquisizione
attributiva o distributiva («chi lo ha dipinto?», «che ne
facciamo?”), «è il riconoscimento del segnale che da questa
immagine si diparte, una luce che intercettiamo e comprendiamo a
distanza di secoli perché ci parla di un’esperienza che s’irradia
nel nostro mondo, nel nostro tempo», ciò che conta davvero è
l’onda immemoriale che attraversa tutte le esperienze della morte,
la storia che comprendiamo oltre ogni cronologia, la nostra storia
senza fine.
Il «nulla» che dà
un senso
L’occhio del critico,
sempre puntato sull’elemento fatale, ci accompagna a scoprire le
forme dell’affresco - ellissi, onde, quadri, personaggi, cataste,
orti - fino alla penultima scoperta, quella della donna morente che
non implora più salvezza ma solo compagnia, quella del grido che dal
fondo dei secoli non implora più Dio ma gli uomini e chiede soltanto
«Non lasciarmi!». È la scoperta di quelle struggenti figure di
consolatori pietosi che soccorrono gli amici morenti senza aver più
nulla da dire né da opporre alla morte, eppure li soccorrono,
animati da una devozione moderna che non ha più nulla del sentimento
ultraterreno che la religione ha coltivato per secoli ma è diventata
semmai «la forma specifica del prendersi cura dell’altro nel mondo
abbandonato da Dio».
Ecco l’ultima
rivelazione di questo libro abbagliante: il culto dei morti non è
estinto, prosegue e prospera nell’attuale, dilagante storytelling.
La pulsione narrativa che eccita ogni organo del nostro mondo
disertato dagli dei si rivela come la principale manifestazione di
quella devozione moderna che ci spinge a soccorrere l’amico morente
offrendogli come antidoto alla pestilenza, in mancanza di altro, un
racconto, una narrazione del suo nulla, che restituisca alla vita
tutto il suo senso.
Come ha scritto Stephen
Greenblatt, nelle arti e in letteratura tutto cominciò con il
desiderio di parlare con i morti. Il libro di Michele Cometa dimostra
che non solo tutto continua con quel desiderio nei nostri modesti
romanzi e nelle nostre nottate davanti alle serie tv, ma anche che in
qualche raro, felice caso, come il suo, i docenti di letteratura si
guadagnano fino in fondo lo stipendio di «sciamani di ceto medio».
La Stampa 31 maggio 2017
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