28 febbraio 2019

GRAMSCI NEL TEMPO DELLA FRATTURA TRA ELITE E POPOLO



       Sulla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI  oggi è stato pubblicato un mio articolo: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gramsci-nel-tempo-della-frattura-tra-elites-e-popolo/#more-23086
       Di seguito potete leggerne un brano:




Gramsci nel tempo della frattura tra élites e popolo
di Francesco Virga
                                                                     

  «In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo
e sono legati a una tradizione di casta» (Gramsci)


[...]


      Elites e popolo, Intellettuali e semplici, dirigenti e diretti

In un articolo dell’agosto 1918, pubblicato su Il Grido del Popolo, Gramsci anticipa concetti che riprenderà negli anni successivi:

« L’educazione, la cultura, l’organizzazione diffusa del sapere e dell’esperienza, è l’indipendenza delle masse dagli intellettuali. La fase più intelligente della lotta contro il dispotismo degli intellettuali di carriera e delle competenze per diritto divino, è costituita dall’opera per intensificare la cultura, per approfondire la consapevolezza. E quest’opera non si può rimandare a domani, a quando saremo liberi politicamente. E’ essa stessa libertà , è essa stessa stimolo all’azione e condizione dell’azione. [1]
La rivista creata l’anno successivo a Torino, L’ ORDINE NUOVO. Rassegna settimanale di cultura socialista [2], doveva servire proprio a questo: educare, fornire agli operai torinesi un mezzo per liberarsi dal «dispotismo degli intellettuali di carriera». Ecco perché nel gennaio del 1920 si difende con passione dall’accusa di avere pubblicato articoli ‘difficili’:
«Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta “popolare”, una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto». [3]
Nei brani sopra citati si trovano in nuce, insieme alla sua idea di partito come intellettuale collettivo, l’analisi critica compiuta in carcere, tra il 1929 e il 1935, sul ruolo svolto dagli intellettuali nella storia nazionale. Ad una società che ha fatto degli intellettuali una ‘casta’, Gramsci contrappone il progetto di una società, senza caste e senza classi, in cui tutti possano diventare intellettuali. In una pagina dei Quaderni Gramsci è particolarmente chiaro al riguardo:
«Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari […] Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto […] Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? […] per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più.” (Q. pp.1752-3)
 E’ un brano questo in cui Gramsci utilizza magistralmente la coppia dialettica realtà/possibilità per spiegare dove vuole arrivare: da un lato riconosce la realtà effettuale delle cose – il genere umano è diviso, esistono realmente dirigenti e diretti – ma insieme mostra la possibilità di cambiare questo stato di cose. Non a caso, in un’altra nota dei Quaderni scrive: ‘Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è, se si vuole trasformarlo’
Il realismo rivoluzionario di Gramsci è sostenuto anche da un altro principio della sua ‘filosofia della praxis’. Questo si trova chiaramente espresso in una famosa nota dei Quaderni in cui si afferma che tutti gli uomini sono potenzialmente filosofi:
 « Occorre distruggere il pregiudizio che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è una attività propria di una determinata categoria di scienziati, dei filosofi professionali o sistematici. Occorrerà pertanto dimostrare che tutti gli uomini sono filosofi, definendo i limiti e i caratteri di questa filosofia [«spontanea»] di «tutto il mondo», cioè il senso comune e la religione. Dimostrato che tutti sono filosofi, a loro modo, che non esiste uomo normale e sano intellettualmente, il quale non partecipi di una determinata concezione del mondo, sia pure inconsapevolmente, perché ogni «linguaggio» è una filosofia, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza. È preferibile «pensare» senza averne consapevolezza, in modo disgregato e occasionale, è preferibile «partecipare» a una concezione del mondo «imposta» dal di fuori, da un gruppo sociale (che può andare dal proprio villaggio alla propria provincia, che può avere l’origine nel proprio curato o nel vecchione patriarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che costruisce delle stregonerie o nel piccolo intellettuale inacidito dalla propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e in connessione con tale lavorio del proprio intelletto scegliere il proprio mondo di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia universale? »[4]
Ma torniamo a parlare della casta degli intellettuali. Gramsci è stato spietato con loro.[5] La storia nazionale mostra che sono stati sempre lontani dal popolo, «più legati ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano» (Q, p.2116). Questo perché la cultura in Italia, come aveva già notato Francesco De Sanctis, ha avuto una tradizione libresca ed astratta:
«E’ da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri e di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui segni del tempo, sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc. non se ne leggono mai. […]. Manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta. […] . E’ un altro segno del distacco degli intellettuali  italiani dalla realtà popolare-nazionale»  [6]
La casta degli intellettuali, naturalmente, non ha gradito il trattamento ricevuto ed ha reagito di conseguenza. Le accuse contraddittorie di “idealismo”, di “populismo”, di “utopismo” e di “totalitarismo”, rivolte a Gramsci, prive di qualsiasi fondamento, sono in gran parte frutto del risentimento della casta. Come ha ben visto Eric Hobsbawm nell’opera del sardo non c’è posto per alcun “ismo”. Per Gramsci la cultura, se vuole essere autentica e vitale, deve “rimanere a contatto coi ‘semplici’ e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere” (Q, p.1382). Credo che abbia visto giusto Tullio De Mauro quando ha scritto che nell’usare la parola cultura Gramsci si distacca consapevolmente dall’uso dominante in Italia. [7]
Conclusione
                     Nei suoi Quaderni Gramsci, oltre a prendere nettamente le distanze dal materialismo volgare e dall’interpretazione economicistica e deterministica del pensiero di Marx, afferma decisamente la necessità di liberarsi dalla «prigione delle ideologie» nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico» ricordando un principio elementare del metodo scientifico che tanti hanno dimenticato:
                « Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo d’ufficio deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità[…], si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversari significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie ( nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista critico».[8]
Giorgio Baratta è stato uno dei primi a cogliere il  carattere socratico e dialogico del pensiero di Gramsci. In uno dei suoi ultimi libri ha utilizzato una metafora musicale per riassumere quello che ha appreso dal suo attento studio: «“Tutti gli uomini sono filosofi” è la linea di base, il basso continuo nella polifonia dei Quaderni. Ma allora , tutti gli umani sono in contrappunto con gli altri, le altre, perché la filosofia è un abito logico-dialogico, relazionale, uno strumento di unificazione attraverso le differenze di lingue e linguaggi in cui gli uomini parlano, anche quando si ignorano, o sono ignoranti, com’era Socrate, che la città ha messo a morte».[9]
Una delle ragioni che spiega la straordinaria capacità mostrata da Gramsci di resistere al logorio del tempo e di riuscire ancora a illuminare il presente è dovuto alla sua grande apertura mentale e al suo approccio storico e non dogmatico ai problemi. Quando nei suoi Quaderni  scrive della necessità di liberarsi dalla ‘prigione delle ideologie’ , Gramsci sa di cosa parla. Infatti mostra di avere ben compreso il senso della critica marxiana ad ogni forma di sapere ideologico, inteso esattamente come forma di falsa coscienza, malgrado ai suoi tempi non fosse ancora nota L’ideologia tedesca di K. Marx .
Il nostro presente rischia di passare alla storia come l’epoca del tramonto delle “ideologie”. Eppure, secondo me, nel corso della storia non c’è stato un tempo più “ideologico” di questo. Dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino e della successiva implosione dell’URSS, la casta odierna degli intellettuali ha trasformato il presente nel tempo più ideologico che il genere umano abbia mai conosciuto. Le favole, tra le altre cose, insegnano che una cosa tanto più invisibile è, tanto più reale può apparire. Ma il gioco funziona fino ad un certo punto. Che l’imperatore ed ogni forma di potere siano nudi, oggi possono vederlo tutti. E la storia che si dava per finita – una delle peggiori ideologie del nostro tempo – non è finita affatto. La storia continua.
Francesco Virga                                                                                              Gennaio 2019




[1]  SG, p. 301. Concetti simili li aveva già espressi negli anni precedenti; basta ricordare l’articolo del dicembre 1916 in cui criticava la politica culturale delle Università Popolari. Ivi pp 61-64
[2]  La rivista si trasformerà in Quotidiano il 1 gennaio del 1921, anticipando di qualche settimana la nascita del PcdI. Da quel momento diventerà uno degli organi del nuovo partito e perderà gran parte del suo carattere culturale.
[3] A. Gramsci, L’ Ordine Nuovo.1919 – 1920, Einaudi 1955, pp.469-470. E qualche mese prima,  nella stessa rivista, aveva scritto: « No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia: bisogna comprendere lo slancio con cui gli operai si sentono portati alla contemplazione dell'arte, alla creazione dell'arte, come profondamente si sentono offesi nella loro umanità per il fatto che la schiavitú del salario e del lavoro li taglia fuori da un mondo che integra la vita dell'uomo, che la rende degna di essere vissuta. Lo sforzo che i comunisti russi hanno fatto per moltiplicare le scuole e i teatri di prosa e di musica, per rendere accessibili alle folle le gallerie; il fatto che i villaggi e le fabbriche che si distinguono nella produzione vengono premiati con l'assegnazione di godimenti culturali ed estetici, dimostrano come il proletariato arrivato al potere tende a instaurare il regno della bellezza e della grazia, tende a elevare la dignità e la libertà dei creatori di bellezza» (Ivi, p. 444)
[4] Q, pp.1375-1376.
[5] Per ragioni di spazio non posso qui ricordare le pagine sferzanti che Gramsci nei Quaderni dedica al lorianismo, ai nipotini di Padre Bresciani e alle tante mosche cocchiere di cui è ancora pieno il mondo d’oggi.
[6]  Ivi, pp. 706-708. In questa pagina dei Quaderni sento risuonare le parole del De Sanctis: Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro.
[7] Tullio De Mauro, Una certa concezione della cultura, in AA.VV, Tornare a Gramsci, op. cit. p. 117.
[8] Q, p. 1263.
[9] G. Baratta, Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci 2007, p. 11. Dello stesso autore si raccomanda la lettura del suo studio precedente: Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di Antonio Gramsci, Carocci 2003. 


Questo è il link del sito dove potete leggere integralmente l'articolo: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gramsci-nel-tempo-della-frattura-tra-elites-e-popolo/#more-23086

3 commenti:

  1. Bernardo Puleio: Di questo splendido saggio, una delle cose più acute e profondamente ricca di suggestioni, scritte dall'amico Francesco Virga, non condivido solo l'inizio (quando si fa riferimento al presunto mancato senso storico dei giovani di oggi che, invece, a parer mio, soprattutto nei casi dei giovani più sensibili e sono tanti sono affamati di storia). Urge al più presto organizzare un'attenta discussione nella sede del Liceo Umberto e coinvolgere gli alunni dell'ultimo anno per discutere di tante suggestioni e spunti interessantissimi contenuti in questo saggio a cominciare dalla rivoluzione russa Intesa da Gramsci come un superamento del "borghese" Marx e a proseguire con la questione meridionale e con l'attualità del sardo legata, proprio come in una recente chiacchierata telefonica con l'amico, sostenevo soprattutto all'antropologia.

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  2. Caro Bernardo, ti ringrazio per la cortese attenzione e, ancor di più, per le tue osservazioni critiche. Per il resto, come sai, amo il confronto con punti di vista diversi e tornare nel tuo Liceo sarebbe un piacere per me.

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  3. Malgrado l'elogio dell'amico Puleio, ci tengo a precisare che questo articolo fa parte di un saggio più ampio e approfondito che spero venga stampato presto. Nella fretta di farne una parziale sintesi per la rivista che me l'aveva richiesto ne è venuto fuori un risultato di cui non sono del tutto soddisfatto.

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