ph. ferdinando scianna
ANTONIO GRAMSCI E LEONARDO SCIASCIA: due grandi 'eretici'
Francesco Virga
Un piccolo editore palermitano ha pubblicato uno dei
libri più interessanti e documentati che siano stati scritti finora sullo
scrittore di Racalmuto. Mi
riferisco al saggio di Bernardo Puleio, I
sentieri di Sciascia, Kalòs 2003, quasi del tutto ignorato dall’industria
culturale contemporanea. Eppure si tratta di un lavoro serio che, oltre a
mettere a fuoco in modo creativo alcuni dei nodi problematici più noti e
dibattuti dalla critica – Sicilia e sicilianità, mafia, Pirandello, scrittura e
verità –, dedica un intero capitolo ad un tema del tutto trascurato o rimosso:
la presenza di Gramsci nell’opera di Sciascia.
Non potendo qui, per ragioni di spazio, riprendere in modo puntuale tutti i temi trattati nel libro, voglio soffermarmi proprio su quest’ultimo punto. In un momento in cui la grande eredità gramsciana sembra essere dimenticata dagli stessi ex comunisti, appare singolare incontrare un autore indipendente che, con toni appassionati, ricordi il valore del pensatore sardo e la sua decisiva influenza nell’ “intricato e labirintico” processo di formazione dello scrittore siciliano.
Il Puleio è ben consapevole di andare contro corrente sostenendo che la lettura sciasciana di Pirandello dipende tutta da quella di Gramsci . Ma riesce a dimostrarlo in modo convincente facendo riferimento, soprattutto, ai saggi “Pirandello e il pirandellismo” (1953) e a “Pirandello e la Sicilia” (1960) . In questi, infatti, Sciascia fa proprio il giudizio gramsciano su Pirandello, affermando che il Tilgher non seppe vedere ciò che Gramsci con estrema chiarezza colse immediatamente e, cioè, che “l’ideologia pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche ma è connessa a esperienze storico-culturali vissute”.
Che non si tratti di un cenno vago o, peggio, come pure ha sostenuto qualcuno, di una sorta di “sollecitazione di testi” – contro cui proprio Gramsci in tutti i suoi scritti ci ha avvertiti –, è dimostrato, oltre che dalla corretta citazione del testo in questione, dalla piena consapevolezza che Sciascia mostra di avere del carattere dei Quaderni gramsciani:
Non potendo qui, per ragioni di spazio, riprendere in modo puntuale tutti i temi trattati nel libro, voglio soffermarmi proprio su quest’ultimo punto. In un momento in cui la grande eredità gramsciana sembra essere dimenticata dagli stessi ex comunisti, appare singolare incontrare un autore indipendente che, con toni appassionati, ricordi il valore del pensatore sardo e la sua decisiva influenza nell’ “intricato e labirintico” processo di formazione dello scrittore siciliano.
Il Puleio è ben consapevole di andare contro corrente sostenendo che la lettura sciasciana di Pirandello dipende tutta da quella di Gramsci . Ma riesce a dimostrarlo in modo convincente facendo riferimento, soprattutto, ai saggi “Pirandello e il pirandellismo” (1953) e a “Pirandello e la Sicilia” (1960) . In questi, infatti, Sciascia fa proprio il giudizio gramsciano su Pirandello, affermando che il Tilgher non seppe vedere ciò che Gramsci con estrema chiarezza colse immediatamente e, cioè, che “l’ideologia pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche ma è connessa a esperienze storico-culturali vissute”.
Che non si tratti di un cenno vago o, peggio, come pure ha sostenuto qualcuno, di una sorta di “sollecitazione di testi” – contro cui proprio Gramsci in tutti i suoi scritti ci ha avvertiti –, è dimostrato, oltre che dalla corretta citazione del testo in questione, dalla piena consapevolezza che Sciascia mostra di avere del carattere dei Quaderni gramsciani:
“Bisogna tener conto che egli scrive in carcere, non ha a soccorrerlo che pochi libri e la sua limpida e certa memoria: e in quel silenzio fisico che lo circonda, che porterebbe altri alla fiacchezza e alla disperazione, egli miracolosamente diviene accanto a Benedetto Croce , l’uomo più libero che sia possibile trovare nell’Italia del fascismo.”
Il Puleio dimostra, inoltre, che la stessa visione della letteratura come “buona azione” è di origine gramsciana e che questa influenza - pur riconosciuta da altri critici, limitatamente agli anni cinquanta e parte dei sessanta - persiste, sia pure con qualche contraddizione, anche negli anni successivi. Ciò è dimostrato, secondo il nostro Autore, da uno dei testi più autobiografici di Sciascia, il Candido. Ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977), scritto all’indomani della sua rottura col PCI.
Ne trascriviamo di seguito per intero un passo in cui espressamente si richiama il sardo, anche per mostrare come gli stessi testi, talvolta, si prestino ad essere letti in maniera diversa. D’altra parte, nell’opera di Sciascia, la verità scaturisce sempre dal dialogo e dal confronto dialettico delle diverse posizioni, la verità non è mai espressa da un unico personaggio:
“Candido dunque leggeva Marx.Aveva letto prima Gramsci, poi Lenin; ora leggeva Marx.Su Marx si annoiava ma si ostinava. I libri di Gramsci li aveva invece letti con grande interesse ed anche con la commozione che gli veniva dall’immaginare quel piccolo uomo gracile e malato che divorava libri e annotava riflessioni: e così aveva vinto il carcere e il Fascismo che ve lo teneva.Gli pareva proprio di vederlo, di vedere la cella,il tavolo, il quaderno, la mano che scriveva, e di sentire il lieve raschio del pennino sulla carta. (sottolineatura mia)Ne aveva parlato spesso con don Antonio (…); ma don Antonio non amava molto Gramsci, vedeva nelle pagine dei Quaderni serpeggiare un errore, un’incrinatura. I cattolici italiani: e dove li aveva visti Gramsci? La domenica alla messa di mezzogiorno: poiché non altrimenti esistevano. Erano una debolezza, e Gramsci aveva cominciato a farne una forza(…).Ma a Candido pareva che su questo argomento don Antonio non avesse sufficiente serenità. Del suo essere stato prete restava in lui troppa delusione, troppo risentimento; e che un po’ troppo, quindi, quel che era stato agisse su quel che voleva essere”.
Appare, infine, significativo che l’ultima polemica giornalistica di Sciascia, pochi mesi prima di morire, avvenga proprio nel nome di Gramsci. L’occasione è data dalla pubblicazione del libro di Luciano Canfora, Togliatti e i dilemmi della politica, pubblicato da Laterza qualche settimana prima della recensione che lo scrittore siciliano ne fa il 17 marzo su La Stampa di Torino.
Nel libro Canfora sosteneva la necessità di tenere costantemente presente il contesto storico in cui il Migliore fu costretto a muoversi per comprenderlo bene: così, a suo dire, comportamenti che presi per sè e trasferiti in un regime di normalità, non sarebbero che indifendibili prevaricazioni o meglio veri e propri crimini; se si svolgono all’interno di eventi di “epocale rilievo” quali la Rivoluzione francese o la Rivoluzione d’ottobre, quelle “ prevaricazioni” e quei “crimini”cessano di essere tali ed assumono diversa natura. Questo potè leggere Sciascia alle pagg.6-7 del libro di Canfora: E ce ne sarebbe già abbastanza per comprenderne l’intervento, dato che si trattava di temi sui quali la sua sensibilità era diventata particolarmente acuta.
Sciascia nella recensione, com’era solito fare, invece di prendere di petto l’interlocutore lo affronta lateralmente spostando l’attenzione su un testo riportato nel libro in appendice: si tratta della “strana lettera”- così la definirà lo stesso Gramsci – che quest’ultimo ricevette in carcere nel 1928. La lettera del 10.2.28 porta la firma di Ruggero Grieco e risulta spedita da Mosca. Il documento, ritenuta autentico dal sardo ed ulteriore prova del sospetto d’essere stato abbandonato dal Partito, secondo Canfora è un falso costruito ad arte dalla polizia fascista. Sciascia non ritiene fondata l’ipotesi di Canfora e, sapendo che la stessa filologia può essere usata come uno strumento di mistificazione, vede nell’operazione l’ultimo tentativo di falsificare la storia del PCI. Per questa via Sciascia arriva a cogliere un’affinità tra il caso Gramsci e il caso Moro: ambedue abbandonati se non addirittura traditi dai propri partiti.
Alla luce di quanto sopra esposto appaiono ancora più vere e persuasive le parole dello scrittore siciliano:
“L’eresia è di per sè una grande cosa e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare sempre di essere eretici, se no è finita. E’ stato anche il partito comunista dell’URSS ad avere avuto paura dell’eresia e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico”.
Francesco Virga
* Recensione già pubblicata sulla rivista SEGNO
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