22 febbraio 2019

POPOLO: un concetto equivoco






IL POPOLO è uno dei concetti più equivoci che esista al mondo. Gramsci lo sapeva bene. Anche per questo, in carcere, usa il termine sempre con particolare attenzione e, spesso, anche con sarcasmo, come in questa nota: 

Il popolo (ohibò!), il pubblico (ohibò!). I politici d’avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos’è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l’ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi per avere le maggioranze elettorali (dal 24 al 29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? il catalogo sarebbe interessate di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri: «Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito, quest’assoluta probità, questa perla dov’è?» (G. Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un libro fanno suonare le campane del loro paese.   [Il «popolo» però ha dato il titolo a molti importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano «cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che si intitolano al popolo]

Ma vediamo cosa  si scrive oggi sull'argomento:  



popolo – Popolo



Prendo spunto dall’editorialino sul Corriere di domenica 17 febbraio di Beppe Severgnini sulla brutale aggressione ai danni di Alain Finkielkraut nel corso di una protesta di gilets jaunes a Parigi. Severgnini osserva, credo giustamente, che il carattere antisemita della violenza («sale juif!», tra gli insulti urlati a pochi metri) va di pari passo allo stolido attribuirsi, da parte della folla rabbiosa, non tanto la rappresentanza, ma l’integrale identità della nazione francese: «la France elle est à nous!» e l’esercizio della vendetta divina, che è vendetta di popolo «Tu vas mourir! Dieu va te punir. Le peuple va te punir!»; chi strepita lo fa da una posizione assoluta che non ammette repliche: «Nous somme le peuple!».

Nella mente degli urlatori, in modo forse confuso, del concetto di popolo non fanno parte gli ebrei, e nemmeno, andando per le spicce, i filosofi e chi perde tempo a scrivere libri, e questo lo si sa perché è la stessa voce del popolo a gridarlo. Ebrei, intellettuali, sono élite: lo strato di persone, di spessore incerto, che senza dubbio ha interesse, e il programma, di escludere il popolo dal potere economico e politico e che il popolo deve avversare.
Per inciso, credo che sia opportuno ricordare che la Francia rivoluzionaria fu il primo stato europeo a emancipare civilmente gli ebrei: nel settembre 1791 l’Assemblea nazionale riconobbe loro pieni diritti di cittadinanza.


Severgnini avverte, un po’ scontatamente, che “giocare a popolo-contro-élite è pericoloso”: ci si può fare dell’intelligente ironia, come fa Giacomo Papi nel suo Il censimento dei radical chic, ma sulle violenze commesse in nome del popolo “non c’è niente da ridere”.
La crisi politica europea è stata più volte descritta come la rivolta contro le élite economiche, politiche, intellettuali: la ribellione di coloro che non ne fanno parte, vale a dire di quelli che si riconoscono come il popolo. La frattura tra centro e periferie territoriali, economiche, sociali. La fine delle mediazioni dei corpi intermedi e immediatezza dei molti interessi materiali particolari e diffusi. E l’avvento della comunicazione “popolare”, genereralizzata, ipersemplificata, affrancata da gerarchiche procedure di controllo. Un recente libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar ha per titolo appunto Popolocrazia.
Sul ‘popolo’, parola al centro del lessico politico della modernità e indispensabile in ogni descrizione delle nostre realtà fratturate – purché ben adoperata –, si giocano, oggi come ieri, molte carriere, il destino dell’Europa, delle nostre democrazie, della possibilità di un discorso pubblico regolato.
Credo che sia utile rivedere una nota di tre pagine che Giorgio Agamben ha posto al termine del suo Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1995). Agamben avverte che “ogni interpretazione del significato politico del termine «popolo» deve partire dal fatto singolare che, nelle lingue europee moderne, esso indica sempre anche i poveri, i diseredati, gli esclusi. Uno stesso termine nomina, cioè, tanto il soggetto politico costitutivo quanto la classe che, di fatto se non di diritto, è esclusa dalla politica.”
In latino l’ambiguità semantica non occorre perché il termine ‘populus’ assume fin dai tempi della repubblica una predominante connotazione giuridica.
Il populus, secondo Cicerone, non è ogni aggregazione di uomini in qualunque modo uniti insieme, ma l’aggregazione di una moltitudine associata dalla condivisione del diritto e da una comunanza d’interesse (populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus, Rep. 1.25.39): esso comprende la collettività dei cittadini e, in antichi e moderni ordinamenti, è la fonte della sovranità: esercito del popolo, potere del popolo, volontà del popolo, giudizio del popolo, ecc. La Costituzione italiana reca all’art. 1 “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Il termine ‘plebs’, d’altra parte, designa la gente comune, la parte del populus di incerta prole che non è patriziato, ordine senatoriale ed equestre. Nelle lingue moderne tuttavia la distinzione populus/plebs perde nettezza e i termini ‘popolo’, ‘people’, ‘peuple’, ‘pueblo’, hanno designazione estesa anche a quelli che i Latini chiamavano plebs.
Secondo Agamben, questa ambiguità tra il significato di popolo come “corpo politico integrale” (il Popolo), e l’altro significato di “molteplicità frammentaria di corpi bisognosi ed esclusi” (il popolo), “non può essere casuale: essa deve riflettere un’anfibolia inerente alla natura e alla funzione del concetto «popolo» nella politica occidentale. Tutto avviene cioè, come se ciò che chiamiamo popolo fosse, in realtà, non un soggetto unitario, ma un’oscillazione dialettica fra due poli opposti: (…) là un’inclusione che si pretende senza residui, qua un’esclusione che si sa senza speranze; a un estremo, lo stato totale dei cittadini integrati e sovrani, all’altro la bandita – corte dei miracoli o campo – dei miserabili, degli oppressi, dei vinti.”
È spontaneo a questo punto riandare alla retorica del discorso politico e anche all’attualità dell’aggressione a Finkielkraut. Chi usa il termine ‘popolo’ nella comunicazione pubblica tace le molteplici, spesso divergenti, stratificazioni (sociali, culturali, economiche, etniche, storiche, ecc.) della popolazione umana e suggerisce il riferimento a un’indefinita identità socio-culturale senza mai circoscriverla, anzi mantenendo, consapevolmente o meno, la fondamentale ambiguità del riferimento. I destinatari della comunicazione non sono spesso in grado di averne controllo, che sia razionale, etico, o politico, né sono interessati a farlo. La comunicazione è unilaterale e senza alternativa: chi mai nell’immediatezza del momento considera sé stesso, o vuole pensarsi, estraneo e contrario al ‘popolo’? La comunicazione, in altre parole, suscita una provvisoria comunità di sentimento: il sentimento che, in un mondo di pericoli senza volto, essere il popolo è bene, qualsiasi cosa il popolo stesso (in realtà, chi si arroga consonanza coi, e titolarità dei, pensieri e azioni del popolo) creda e faccia, esserne fuori è male. Così opera il sofisma iscritto nel parola, l’anfibolia appunto, generata dall’incerta (direi difettosa, ma sappiamo che ogni parola ha confini imprecisi di definizione e uso) relazione del termine con gli oggetti che designa e con la tensione tra essi.
Lo scavo sulla parola conduce alla coppia categoriale che Agamben ha preso in prestito da Aristotele e utilizzato per pensare la genesi del politico: ζωή (zōḗ, ‘nuda vita’; ‘vita naturale che si riproduce’; ‘natura in senso stretto’) e βίος (bíos, ‘vita determinata, organizzata politicamente’; ‘cultura’). Il potere sovrano, secondo Agamben, origina dal decidere quali vite sono riconosciute come appartenenti alla comunità politica e quali un mero fatto biologico. La relazione politica originaria è il bando: “La relazione di eccezione è una relazione di bando. Colui che è stato messo al bando non è, infatti, semplicemente posto al di fuori della legge e indifferente a questa, ma è abbandonato da essa, cioè esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono”; tutto ciò che, di volta in volta (il sovrano non è tenuto a mantenere continuità dei suoi atti), si stabilisce essere bíos è abbandonato al potere della morte.
“Ma ciò significa, anche, che la costituzione della specie umana in un corpo politico passa attraverso una scissione fondamentale e che, nel concetto «popolo», possiamo riconoscere senza difficoltà le coppie categoriali che abbiamo visto definire la struttura politica originale: nuda vita (popolo) ed esistenza politica (Popolo), esclusione e inclusione, zoé e bíos. II «popolo» porta, cioè, già sempre in sé la frattura biopolitica fondamentale. Esso è ciò che non può essere incluso nel tutto di cui fa parte e non può appartenere all’insieme in cui è già sempre incluso. (…) Esso è ciò che è già sempre e che deve, tuttavia, realizzarsi; è la fonte pura di ogni identità e deve, però, continuamente ridefinirsi e purificarsi attraverso l’esclusione, la lingua, il sangue, il territorio. Ovvero, nel polo opposto, esso e ciò che manca per essenza a se stesso e la cui realizzazione coincide, perciò, con la propria abolizione; è ciò, che, per essere, deve negare, col suo opposto, se stesso (di qui le specifiche aporie del movimento operaio, volto verso il popolo e, insieme, teso alla sua abolizione).”
Questa “scissione fondamentale” è ciò che rende inevitabili, e necessarie, l’ambivalenza, l’ambiguità, l’imprecisione e la genericità di ogni dispositivo retorico che faccia leva sul ‘popolo’. Ne rivela l’origine bellica.
“il popolo contiene in ogni caso una scissione più originaria di quella amico-nemico, una guerra civile incessante che lo divide piu radicalmente di ogni conflitto e insieme, lo tiene unito e costituisce piu saldamente di qualunque identità.”
All’oggi, contrassegnato da una “parossistica accelerazione” della lotta fra i due “popoli”, si giunge attraversando il percorso di autonomizzazione del politico dell’ultimo millennio:
“nel Medioevo, la distinzione fra popolo minuto e popolo grasso corrispondeva a una precisa articolazione di diverse arti e mestieri; ma quando, a partire dalla rivoluzione francese, il Popolo diventa il depositario unico della sovranità, il popolo si trasforma in una presenza imbarazzante e miseria ed esclusione appaiono per la prima volta come uno scandalo in ogni senso intollerabile. Nell’età moderna, miseria ed esclusione non sono soltanto concetti economici o sociali, ma sono categorie eminentemente politiche.”
Un paio di precisazioni. Agamben ritiene di cogliere la “scissione fondamentale” in seno al popolo in età medievale nella distinzione tra due ceti della vita urbana, il popolo cosiddetto “grasso” e il “popolo minuto”, il quale però si era organizzato, con molti conflitti, nelle Arti Minori ed era arrivato a far parte in alcuni casi del corpo politico della città. Io credo che si debba piuttosto guardare a coloro che erano propriamente chiamati miseri e pauperes. “Minore”, nel lessico dell’epoca, indica categorie sociali come gli artigiani e i piccoli commercianti: gente “umile”, non miserabile. È indicativo che Francesco d’Assisi, figlio di un ricco commerciante cittadino, si faccia approvare la sua comunità come Ordo Fratrum Minorum, evitando la parola “poveri”, pauperes. Non a caso, è questa categoria a essere interessata da continue forme di esclusione dalla vita associata nel medioevo, estendendo a essa per esempio alcune costrizioni e obblighi dei confinati nei lazzareti in tempo di epidemie. È in questa età che la vita politica comunale fa frequente uso del provvedimento di bando, equivalente civile della condanna ecclesiale di scomunica, che non riguarda di norma membri del popolo minuto, bensì avversari politici e indesiderabili privi di precisa collocazione sociale da mandare in esilio. È anche vero però che a lungo è in opera una fitta rete di strutture di assistenza e di beneficienza da parte degli ordini religiosi. Secoli dopo, nel ‘600, saranno proprio i pauperes e i disoccupati a essere oggetto di internamento in Francia e Inghilterra, come descritto da Michel Foucault nella parte prima della Storia della follia nell’età classica.
Ciò che caratterizza insomma medioevo e modernità è il tentativo di espellere, nascondere e cancellare l’inassimilabile dal corpo politico.
“In questa prospettiva, il nostro tempo non è altro che il tentativo implacabile e metodico – di colmare la scissione che divide il popolo, eliminando radicalmente il popolo degli esclusi. Questo tentativo accomuna, secondo modalità e orizzonti diversi, destra e sinistra, paesi capitalisti e paesi socialisti, uniti nel progetto – in ultima analisi vano, ma che si è parzialmente realizzato in tutti i paesi industrializzati – di produrre un popolo uno e indiviso.”
“Nella lucida furia con cui il Volk tedesco, rappresentante per eccellenza del popolo come corpo politico integrale, cerca di eliminare per sempre gli ebrei, dobbiamo vedere la fase estrema della lotta intestina che divide Popolo e popolo.”
“Oggi il progetto democratico-capitalistico di eliminare, attraverso lo sviluppo, le classi povere, non solo riproduce al proprio interno il popolo degli esclusi, ma trasforma in nuda vita tutte le popolazioni del terzo mondo. Solo una politica che avrà saputo fare i conti con la scissione biopolitica fondamentale dell’occidente potrà arrestare questa oscillazione e porre fine alla guerra civile che divide i popoli e le città della terra.”

Articolo ripreso da  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2019/02/22/popolo-popolo/

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