Settanta anni fa Orwell ha anticipato l’attuale società del controllo digitale
Massimiliano Panarari
Felici nella prigione di Orwell
Esistono dei libri straordinariamente profetici, perfino al di là delle intenzioni dei loro autori. E, in questo senso, il grande George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair, 1903-1950) è stato un autentico «sensitivo» del futuro. Omaggio alla Catalogna (1938), il suo reportage in presa diretta della Guerra civile spagnola, è stato la preconizzazione del naufragio delle illusioni rivoluzionarie del Novecento e dell’eterna lotta intestina alla sinistra, che ne ha dilapidato parecchie delle energie tra violenze, ortodossie e conformismi. Nella Fattoria degli animali (1945) ci ha spiegato perché la proclamazione dell’«uno vale uno» rappresenta una menzogna interessata e una concezione assai distorta e manipolata della società (un’allegoria oggi terribilmente d’attualità). E in 1984 - di cui ricorre il settantesimo anniversario della pubblicazione, celebrato dal nuovo numero di Origami in uscita domani - ha prefigurato l’avvento della società della videosorveglianza indiscriminata.
Un libro premonitore come pochi, e che contiene un ammonimento sempre valido, perché il socialista libertario Orwell volle metterci in guardia da un rischio, quello della negazione della libertà attraverso l’occhiuta e ossessiva «vigilanza» del Grande Fratello, che non rappresenta una prerogativa esclusiva dei regimi fascisti e comunisti. Bensì, come scriveva nel ‘49 in una lettera al sindacalista Usa Francis A. Henson (riportata su Origami), «il totalitarismo potrebbe trionfare ovunque», anche nei sistemi politici liberaldemocratici. E le votatissime tendenze politiche di questi nostri anni, avverse alla visione della società aperta e pronte a promettere protezione in cambio di una riduzione dei diritti individuali, ne costituiscono, a conti fatti, un’ulteriore conferma.
L’inquietante satira politica e sociale orwelliana, erede del filone letterario di lingua inglese che ebbe tra i progenitori Jonathan Swift, ha davvero colto nel segno, e ha occupato il nostro immaginario in maniera indelebile, divenendo un oggetto prediletto della cultura pop attraverso film, serial, fumetti e pubblicità. Si potrebbe dire che esiste un filo rosso che va dal Panopticon di Jeremy Bentham fino ai social network, e il prototipo della prigione perfetta inventata dal filosofo utilitarista si invera nelle piattaforme digitali che riempiono ossessivamente la vita quotidiana di tanti abitanti del Villaggio globale. Proprio l’Occidente neoliberale e postmoderno si è fatto (anche) «società della sorveglianza», e si è riempito di telecamere e «occhi elettronici» - per usare le formule del sociologo David Lyon - dilatando le intuizioni di Orwell.
Con una caratteristica dirompente e irresistibile, lo aveva messo bene in evidenza Michel Foucault: dopo l’invenzione benthamiana del «carcere ideale» (fonte di ispirazione per l’autore di 1984), il potere si sarebbe enormemente fortificato - così come i suoi strumenti di controllo - dismettendo il dominio verticale e dall’alto e permeando e innervando, invece, la società in modo reticolare.
Dal panottico si passa dunque alla Rete, l’amichevole Grande Fratello contemporaneo, uno dei cui padroni, Mark Zuckerberg di Facebook - insieme con numerosi altri tycoon high tech –, invita gli utenti a mostrarsi completamente aperti e «visibili» nella propria esistenza digitale. E, così, nel nome dell’ideologia della trasparenza assoluta, lo scivolamento dalla «casa di vetro» alla «prigione di vetro» è diventato veramente un attimo. Senza nemmeno più bisogno della psicopolizia, perché nella postmodernità la realtà (fattasi iperreale) supera la fantasia.
D’altronde, gli attuali
nazionalpopulismi non si alimentano di paradigmi comunicativi che
ricordano molto da vicino la neolingua e il bispensiero creati da
Orwell nel suo romanzo distopico? Come, per l’appunto, i «fatti
alternativi» degli spin doctor della Casa Bianca trumpiana, che
hanno fatto impennare le vendite su Amazon del libro orwelliano, dopo
essere stati evocati per la prima volta nel gennaio 2017 dalla
consigliera presidenziale Kellyanne Conway.
L’idea prêt-à-porter del Grande Fratello che, non visto, ci scruta incessantemente è dilagata nell’immaginario collettivo e nell’industria culturale e mediatica, da film come The Truman Show di Peter Weir (1998) ai popolarissimi (omonimi) reality show che imperversano in questi anni in tv. Fino a graphic novel che hanno lasciato un segno come V for Vendetta (1988) di Alan Moore e David Lloyd, dove il protagonista lotta contro una reincarnazione del Big Brother indossando quella «maschera di Guy Fawkes» che si è convertita nel marchio di fabbrica degli hacker di Anonymous e di svariati movimenti antagonisti.
E, ancora, 1984 è stato
uno degli spot commerciali più leggendari del XX secolo, realizzato
da Ridley Scott per presentare il pc di Apple, mettendo in scena la
prometeica lotta per l’autodeterminazione e la creatività
dell’individuo contro il collettivismo omologante del Grande
Fratello. La perversa ironia della storia, visto che nel Terzo
millennio è proprio l’Ideologia californiana (di cui Steve Jobs ha
rappresentato uno dei primi predicatori) ad avere implementato, tra
gli inconsapevoli applausi di tutti noi consumatori e navigatori, la
predizione del controllo totale fatta dallo scrittore e giornalista
britannico a metà del Secolo breve.
La Stampa -13 febbraio
2019
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