Memoria. Porti chiusi: stragi di italiani sui lazzaretti del mare
durante i viaggi per l’America
Gian Antonio Stella
«La lunga sosta lì,
davanti alla costa sognata da anni, a due bracciate da quel Brasile
che aveva animato sere e sere di chiacchiere e di sogni nei filò
nelle stalle, a un soffio da quell’America per la quale tanti si
erano venduti la casa e le vacche e le pecore, fu un tormento». Il
diario di Cesare Malavasi, partito per la «Merica» dalla provincia
di Modena, è un documento eccezionale per ricordare le Navi di
Lazzaro, titolo di un libro di Augusta Molinari (Franco Angeli),
cariche di emigranti italiani che sognavano di «catàr fortuna» nei
lontani continenti e furono respinti.
Anche i nostri nonni
subirono feroci blocchi navali. Costati centinaia di morti. Il
piroscafo Nord America, per citarne uno, fu respinto nel 1892 da ben
tre Paesi: l’Argentina, l’Uruguay, il Brasile. C’era
un’epidemia a bordo. E gli italiani, come scrisse l’americana
Regina Armstrong nel 1901 su «Leslie’s Illustrated», erano visti
tra gli immigrati più a rischio: «C’è una gran quantità di
malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e
ciechi, molti con gli occhi malati…».
Non bastasse, ai problemi
sanitari si aggiungeva l’immonda ingordigia di certi armatori. Dice
tutto il caso della Carlo R., una nave merci riadattata al
trasporto di «tonnellate umane» che, salpata da Genova a fine
luglio 1894, si fermò a Napoli per caricar altri migranti. Manco il
tempo di allontanarsi di 300 miglia, scrive Tomaso Gropallo in Navi
a vapore e armamenti italiani (Bertello editore), e già c’era
a bordo il primo morto. Colera. Buon senso imponeva l’inversione di
rotta, ma il capitano Scipione Cremonini, per non obbligare l’azienda
a restituire i soldi dei biglietti, decise di tirare diritto. Un
errore spaventoso. Arrivata al largo di Rio de Janeiro con l’epidemia
che falciava i passeggeri, la Carlo R. fu fermata: attracco
vietato. Cremonini cercò di forzare il blocco, le cannoniere di Rio
risposero sparando alcuni colpi intimidatori. Disperati, i nostri
nonni tentarono una rivolta. Domata con l’arresto e la reclusione
nelle stive più malsane. Costretti a riattraversare l’oceano,
vennero dirottati all’Asinara per una quarantena. Nell’autodifesa,
lo stesso comandante fornì il numero dei morti: 141 per il colera
più 70 per altre epidemie.
Non diverso fu il destino
di altri piroscafi. Come il Matteo Bruzzo, una carretta del
mare che più volte aveva rischiato il naufragio. Caricata «una
turba» di 1.200 emigranti quasi tutti italiani, si legge in un
rapporto del ministero dell’Interno, la nave salpò da Genova per
Montevideo il 30 ottobre 1894 quando una epidemia di colera si era
già manifestata pure in Liguria: «Sapevasi che le repubbliche del
Plata» cioè l’Argentina e l’Uruguay «avevano dichiarato chiusi
i loro porti alle provenienze da luoghi infetti, ma speravasi che il
piroscafo sarebbe stato immesso a libera pratica dopo una quarantena
in quei lazzaretti. E con questa speranza, fondata o no, ma
sicuramente non bastevole ragione per giustificare la partenza, si
uscì dal porto di Genova». Una scommessa. Rischiosissima.
Arrivati un mese dopo a
Montevideo i nostri immigrati furono, com’era scontato, respinti. A
metà novembre, decimati dai lutti, gli italiani chiedevano aiuto
alle autorità brasiliane. Ma alla vista del bastimento «alcune
cannonate partite dal forte di Santa Cruz lo obbligarono a fermarsi
ed a retrocedere, in attesa di ordini. E furono d’abbandonare
immediatamente le acque del Brasile». Il giorno dopo il piroscafo
entrò comunque in rada, invocando acqua e provviste. D’accordo. Ma
«il comandante del porto avvertì il capitano che qualunque mossa
fosse fatta a bordo per isbarcare, il piroscafo sarebbe stato preso a
cannonate a fior d’acqua».
Aggrappati al sogno di
spuntarla, i nostri tennero duro per giorni. Certo, c’erano anche
lì lazzaretti per i malati costretti a una quarantena. Gli
immigrati, però, erano «foresti». Venivano dopo. Prima i
brasiliani. Prima gli uruguagi. Prima gli argentini. E fu così che,
riprende il rapporto italiano, «due navi da guerra brasiliane si
avvicinarono ed intimarono nuovamente la partenza. Ed il piroscafo si
fece il giorno stesso sulla via del ritorno». Una traversata di
pianti e morti. Quando i sopravvissuti arrivarono a Pianosa era il 20
dicembre. Ripartirono per Livorno il 27 gennaio. Un calvario. Lo
stesso vissuto quell’anno dall’Andrea Doria, costretto al tragico
gioco dell’oca attraverso l’oceano fino al blocco navale
brasiliano e al ritorno al punto di partenza…
Cesare Malavasi, il
cronista autore de L’odissea del piroscafo Remo, ovvero il
disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile,
incrociò due volte, davanti alla costa di Rio quell’altra nave di
sventurati. Prima quando la vide mentre «recavasi a dar sepoltura ai
cadaveri che aveva a bordo» poi quando «ritornò il vaporino
Nereide con 2 uffiziali a bordo dai quali si seppe che i morti
nel piroscafo Doria erano 92». Un numero che nel viaggio di
ritorno sarebbe quasi raddoppiato fino a salire a 159. Una strage.
Tutti quei nostri nonni
vissero storie simili a quelle narrate dal cronista del Remo. Sul
quale il colera e la difterite salirono a bordo durante l’imbarco a
Napoli di 700 partenti supplementari e fecero tante vittime da
generare una muta rassegnazione: «Siamo al giorno 4 ottobre, sonvi
morti e ammalati; ma io per non annoiare il lettore farò cenno di un
solo caso». La fame, le notti pigiati nei dormitori, il rancio
scadente («producendo alla massa dei passeggeri diarree,
dissenterie…»), l’attesa impaziente: «È il 4 settembre, il
cielo è sereno, il mare calmo e sul volto d’ognuno si legge
un’ilarità indescrivibile. Si parla solo dell’America, si
pretende precisare il giorno e persino l’ora del desiderato
arrivo…». L’angoscia all’Isola Grande: «Sul pennone
sventolava la bandiera gialla».
Un centinaio di
poveretti, «che non ne potevano più, implorarono il comandante di
far cessare l’agonia. Il comandante allargò le braccia. Intanto
continuavano a morire vecchi e bambini, uomini forti come tori e
donne dal fisico fragile e minuto…» Fino allo spossante e cupo
ritorno verso l’Italia: «Il preciso numero dei morti ben rare
volte si conosce perché di nottetempo, quando tutti sono nelle loro
cuccette, vengono buttati a mare». L’arrivo all’Asinara, dove
erano già ormeggiati o in arrivo altri «4 vapori con un 7.000
persone a bordo». Le notti nei ricoveri «sdraiati su di un grosso
strato di arena del mare, la quale ne forma il pavimento», il «vento
frigidissimo», l’assenza di acqua dolce, le fosse comuni per i
morti, saliti a 91, «scavate nel vivo sasso, col mezzo delle mine».
Nessuno ricorda più quei decessi, all’Asinara. Né sa più dove
fossero le fosse comuni. Eppure il piccolo grande cronista del Remo
aveva scritto «perché gli uni apprendano che tante rotte
dell’emigrazione sono una tratta di bianchi» e «perché gli altri
ne ritraggano ammonimento, allorché, sorrisi dalla speranza di un
lucro onorato, daranno l’addio alla dolce patria».
Corriere della sera, 23
luglio 2018
Nessun commento:
Posta un commento