Dal 1937 al 1942
Giuseppe Ungaretti visse in Brasile, definita «patria umana» e
molto amata. Lo attirano in particolare i canti popolari del Sertão
che interpreta come manifestazioni di un ideale primitivismo.
Ettore Finazzi-Agrò
Ungaretti, l’universo
interdetto e carnale di un poeta
La storia della
permanenza di Ungaretti in Brasile è ben nota agli studiosi della
sua opera: invitato, nel 1936, a Buenos Aires per partecipare a un
congresso del Pen Club, fa tappa a San Paolo dove tiene delle
conferenze presso la locale Università, fondata appena due anni
prima. Gli viene offerto, dal Rettore di quell’Ateneo, di ricoprire
la cattedra di lingua e letteratura italiana ed egli, anche per le
difficoltà economiche che stava attraversando in quel periodo,
accetta l’incarico, trasferendosi nel 1937 a San Paolo con la
moglie Jeanne e i figli Ninon e Antonietto.
La nave Neptunia, in cui la famiglia si è imbarcata, partita da Genova fa scalo a febbraio a Recife, capitale del Pernambuco, nell’auge del carnevale e il poeta, memore di altri e diversi febbrai, è colpito e scosso da quell’atmosfera festiva, segnata dalla frenesia del ballo e dal turbinio di suoni e luci, che tenterà così di riprodurre nel suo Monologhetto. È questo eccesso, questa carnalità prorompente e frastornata, il volto che il Brasile mostra a Ungaretti, uomo che viene da altri orizzonti, da un’altra cultura.
Lo stordimento, misto di
meraviglia e terrore, che Ungaretti avverte fino dall’inizio, fin
dal suo arrivo in Brasile, lo accompagnerà fino alla San Paolo
rutilante e in crescita demografica tumultuosa della seconda metà
degli anni ’30 – grazie, sia detto a mo’ di spiegazione, ai
proventi immensi dell’economia del caffè e alla nascita di un
vasto tessuto industriale che contraddistinguono anche la megalopoli
odierna. E dallo stordimento, oltre che dalle perdite dolorose che vi
subirà nel corso della sua permanenza, deriva anche il silenzio,
l’incapacità di pensare ed esprimere poeticamente la sua
esperienza del «cotal nuovo» che lo circonda. Negli anni a San
Paolo, in effetti, Ungaretti non comporrà poesie, come più tardi
ammetterà: «Provavo a scrivere versi, graffiavo la carta, ma non
concludevo nulla».
Non scrive, quindi, ma urla il suo compianto per la morte nel 1939 del piccolo Antonietto, dovuta a una appendicite degenerata in peritonite: «Gridasti: soffoco» è la testimonianza di una perdita inconsolabile, da parte di un padre sopravvissuto al figlio. «Un grido» trattenuto, tuttavia, e che riuscirà a mettere in pagina solo molti anni dopo la scomparsa del suo bambino, quasi che l’urlo si fosse fermato in gola, quasi per un eccesso di sofferenza, amplificato o raddoppiato dalla precedente perdita anche del fratello, avvenuta nel 1937.
Ancora una sensazione
abnorme, dunque, che non trova espressione se non grazie a una
rielaborazione successiva dell’esperienza dolorosa. Il Brasile o
anche solo la San Paolo di Ungaretti è soprattutto questo: un
universo interdetto che continuerà a dirsi fra le parole, fra i
versi che comporrà o tradurrà dal portoghese. Poesia della memoria
e del rimpianto per una città perduta e segnata dalla perdita di
affetti fondamentali quella che lo scrittore ci ha lasciato: parole
per risarcire un silenzio, per dire finalmente ciò che si è omesso,
ma che si è tuttavia impresso nella mente e nella carne dell’uomo
venuto da altri climi, da altri orizzonti culturali.
Non a caso, ciò che conta per il poeta espatriato non è tanto la comprensione logica e linguistica dell’altrove in cui si trova, quanto l’immensità e l’apparente indecifrabilità di un mondo di cui riesce ad appropriarsi, a farlo sua nuova patria, solo attraverso il sentire e il patire. Di fatto, in occasione di un suo ritorno a San Paolo, nel 1968, per ricevere la laurea honoris causa da parte dell’Università in cui aveva insegnato, egli confesserà, nel corso di una conferenza: «Devo al Brasile se ho capito il Barocco che tanto tormento dà, da lunghi anni, alla mia ispirazione e alla mia tecnica espressiva. Ho capito in Brasile chiaramente il valore d’urto che era nel Barocco, e perché tra innocenza e memoria e tra natura e ragione l’incontro dovesse sempre manifestarsi violento, e l’ho capito, devo riconoscerlo, più contemplandone il cielo e il paesaggio, viaggiandoci e leggendone gli scrittori, più conoscendovi, in quei luoghi, in quel quadro, faccia a faccia la Morte mentre infuriava inesorabile sulla creatura umana che mi era più cara, che ammirandone le chiese a Bahia o a Minas, chiese che pure sono incarnazioni bellissime del Barocco». È per tale motivo che, all’inizio del suo discorso, dopo aver elencato le sue altre patrie (il natio Egitto, la Francia della sua formazione e l’Italia, sua «naturale patria»), Ungaretti arriva a definire il Brasile «Patria umana».
Ciò che lo attrae è, di
fatto, un ideale di primitivismo che trova espressione nelle sue
traduzioni di canti popolari del sertão e di testi indigeni:
traduzioni di traduzioni, in realtà, nelle quali si rispecchia la
sua tenace volontà di far emergere quel sapere arcaico e innocente
che percepisce, ingannevolmente, come fondamento del presente
brasiliano, trascurando la complessità della formazione e
affermazione di una cultura nazionale specifica e fatalmente ibrida.
Poeta all’ostinata di ricerca di una mediazione violenta, «barocca»
tra natura e cultura, tra tradizione e innovazione, tra formalismo e
sperimentalismo, l’Ungaretti brasiliano (come, in parte, quello
italiano) sembra, d’altronde, essere totalmente avulso dalla realtà
storica della nazione in cui vive. Perché, è bene ricordarlo,
proprio nell’anno del suo arrivo a San Paolo e poi fino al suo
rientro forzato in Italia, il Brasile conosce un periodo di feroce
autoritarismo.
Di fatto, l’Estado Novo, proclamato nel ’37 dal presidente Getúlio Vargas, prendendo a pretesto la repressione di un moto rivoluzionario di stampo comunista, era modellato sui regimi totalitari europei, con la soppressione dei partiti politici e con l’istituzione della censura, conducendo alla cattura e alla detenzione di molti scrittori, politici ed intellettuali dissidenti. Di tutto questo non v’è traccia nelle carte del poeta giacché ciò che lo interessa non è la storia tragica che lo circonda, ma «quel muoversi dialettico tra i poli dell’innocenza e della memoria, dell’assenza e della nostalgia di una pura forma avversa al nulla, dell’effimero e dell’eterno». Il rapporto fra colonizzatori e colonizzati, tra portoghesi ed indigeni è tutto interno a questa inquieta interrogazione intorno a istanze metastoriche o, ancor più, astoriche.
Se è forse vero, dunque,
che Ungaretti non comprese appieno San Paolo e il Brasile negli anni
in cui colà visse, egli venne tuttavia preso e compreso pienamente
nella sua rilevanza poetica e nella sua dimensione umana dagli
intellettuali brasiliani. In effetti, lo scrittore conobbe e
frequentò sia autori della generazione modernista, sia intellettuali
della generazione immediatamente successiva – e soprattutto un
grande poeta e cantautore come Vinícius de Moraes, con cui
l’amicizia perdurerà nel tempo, anche grazie ai frequenti viaggi
in Italia del poeta e cantautore carioca. Una comunità intellettuale
e d’affetti che delimita e conferisce significato alla sua
acquisita «patria umana». Una comunanza amicale che continuerà,
peraltro, anche molto dopo il brusco ritorno di Ungaretti in Italia,
nel 1942, a causa dell’inaspettata entrata in guerra del Brasile
accanto alle potenze alleate e contro l’Asse.
Sarà, come detto, a partire dalla sua patria naturale che il poeta riuscirà a capire quella umana, continuando quasi fino alla morte a frequentare sia la letteratura brasiliana che i suoi esponenti di passaggio o residenti a Roma, soprattutto dopo il golpe militare del ’64 che costrinse all’esilio diversi intellettuali che trovarono in Ungaretti un punto di riferimento, ancora una volta, sia intellettuale che umano.
La lontananza dunque,
come misura paradossale di un’approssimazione, come distanziamento
al contrario che consente di leggere il senso e i sensi di
un’esperienza piena – di grandi afflizioni e di sentimenti
stupiti, piena di emozioni e di tentativi di capire un mondo largo e
confuso, che si presenta al poeta europeo come complesso, straniero e
mescolato, segnato da una evidente fisicità e da una rigogliosità
naturale che lo scrittore non riesce, sul momento, a esprimere,
limitandosi a osservarle, come uno spettatore meravigliato. La grande
città brasiliana resterà, nei suoi versi, non il luogo della
saudade, ma del rimpianto e del compianto per Antonietto e per le
altre persone care che lo hanno abbandonato. A essa dedicherà in
effetti, pubblicandola nel ‘68, una poesia nelle sue repliche di
Bruna Bianco, donna che rappresentò una delle ultime grandi passioni
della sua vita, uno dei più senili e tardi legami affettivi con San
Paolo.
In questa parabola sentimentale, nella quale si rispecchia una parabola esistenziale e umana, può, forse, riassumersi il senso complesso dell’esperienza brasiliana di Ungaretti, scrittore perennemente espatriato e perennemente abitatore di patrie temporanee, nato altrove ma alla continua ricerca di una «terra promessa», di una rinascita in uno spazio proprio, nel luogo sacro e confortante della poesia.
Il manifesto – 8
febbraio 2019
Sono rimasta affascinata a leggere la storia di Giuseppe Ungaretti, la sua poesia e gl'anni vissuti in Brasile.
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