Foto di P. Halsnan
Riprendo dal blog di Salvatore Lo Leggio una pagina di storia della cultura americana (e non solo), secondo me straordinariamente acuta.
L'artista gioca con la ballerina. Un ricordo di Marilyn Monroe
Tommaso Chiaretti
Le fecero una quantità
di sadici scherzi: il più crudelmente raffinato fu una fotografia di
Philippe Halsnan: Marilyn è accovacciata per terra, in un angolo
della sua casa (o forse in un teatrino adeguatamente arredato di
luci) indossa un trasparente negligé nero, e legge un libro,
tenendolo alla distanza massima che le permettono le braccia, per via
del sottolineato difetto di vista. Si appoggia a una scaffalatura
ricolma di libri bene allineati, che non hanno l’aria di pocket,
bensì di non letti onerosi saggi. La posa è del tutto stravagante.
Ma a renderla penosa, c’è una fotografia posta nel centro ottico
del quadro, sul mobiletto a destra: un ritratto di Eleonora Duse.
L’accostamento è perfido e oltraggioso, è il segno di una delle
tante violenze che la società americana, o più riduttivamente la
società maschile americana, o se vogliamo la società maschile
«intelligente» americana, ha esercitato su Marilyn. C’è un’
altra fotografia, quella che la ritrae ben fasciata mentre sale le
scalette dell’Actor’s Studio, e un’altra ancora, la più
sottile e raffinata, perché è di
Avedon. Servì per illustrare il
noto articolo di Arthur Miller: «Mia moglie Marilyn», dove è
evidente già nel titolo l’orgoglio, la vanità del compiuto
possesso della cosa. Marilyn è in secondo piano, il protagonista è
lui, l’intellettuale severo che si permette un magro sorriso mentre
la ballerina gli cinge il collo.
Un editore argentino,
meritorio per avere pubblicato Brecht, mi raccontava dello sconcerto
angosciato di certe sue visite in casa di Miller, all’epoca in cui
erano sbarcati in America i pellegrini della sinistra martire europea
Montand e Signoret: che se ne stavano accoccolati nel salotto a
discutere di Sartre e della repressione. Già. E lei, Marilyn,
passava lunghissime straniate nevrotiche consolatorie pause a lavarsi
i capelli. E la matura attrice francese ordinava all’immatura
ragazza col golfino d’angora di portare il ghiaccio per il whisky.
Meglio allora Joe Di Maggio, che trascorreva inestinguibili serate a
guardare la televisione ai piedi del letto: una violenza più
tangibile e sicura, uno specchio servile del modo di vita americano
non contestato.
All’Actor’s
Studio, frequentato da un manipolo di geni compresi della
recitazione introversa, le dettero da leggere Stanislavsky per poter
interpretare la sciancata zitella Bianche Dubois nel Tram chiamato
desiderio. Altri le dissero che c’era un personaggio fatto su
misura per lei, ed era la Gruscenka dei Fratelli Karamazov, e
lei ripetè, senza capire perché i giornalisti ridevano. Mankievicz,
che trovò nella sua borsa un libro di poesie di Rilke, l’aggredì
in pubblico, che cosa le era preso, a leggere quella roba?
Gliel’aveva forse raccomandata qualcuno? Certo, i cosiddetti
intellettuali di colpe ne hanno tante, e sopratutto hanno quel
maledetto complesso di Pigmalione, per cui son certi di non poter
sedurre una donna se non con una lista di libri da leggere, compilata
come se rispondessero a un sondaggio del supplemento letterario del
«Times». E poi, si sa, son capaci di spiegare tutto, ogni piccola e
grande nevrosi e anomalia del comportamento: i favoleggiati ritardi
di Marilyn, ovvia dichiarazione di insicurezza, e la sua balbuzie
ricorrente, via giù con le carenze affettive, e addirittura la sua
miopia, di derivazione ovviamente psicosomatica. C’era tutto nei
libri, e Marilyn recava con sé regalatale da uno psicanalista
cialtrone, la Psicopatologia della vita quotidiana di Freud,
che certificava le valenze catalogate di ognuno dei suoi lapsus.
La ragione del così
consistente «effetto Marilyn» su alcune generazioni di
intellettuali che ne hanno fatto un mito, è in questa pronta
identificazione del partner succube, di una tortura da assaporare,
della possibilità di ripetere, magari con gesti masturbatori, la più
concreta violenza, lo stupro, il primo dei molti, che la piccola
Norma Jean aveva cominciato a subire a nove anni. Alle figure di
donne e di attrici esse stesse intellettuali, e soprattutto dotate di
greve autorità maschile, agli idoli androgini come le Joan Crawford
e le Bette Davis, e sopratutto l’inquietante Garbo, tutte capaci di
vestire panni di dame e di cavalieri, si poteva sostituire ora
qualcosa che fosse inequivocabilmente tutto sesso, senza altri
ricatti. C’era stata Mae West, ma lei era ben altra cosa: lei il
sesso lo gettava in faccia agli uomini ridendo e insultando, come una
matura puttana che conosce tutti i vizi del suo povero disgraziato
cliente. Marilyn si presentava senza nessuna difesa, un fiore
all’occhiello di cui ci si sarebbe dovuti vergognare, se non fosse
stato per l’invidia totalizzante che suscitava. E dunque Miller
poteva scioccamente dichiarare: «Ho sposato la donna più sexy del
mondo ». Lui non si sbagliava. Aveva sbagliato lei, che s’era
illusa di avere sposato l’uomo più intelligente del mondo.
“la Repubblica”, 31
luglio 1977
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