29 febbraio 2024

L' INCHIESTA SUGLI IMMIGRATI MERIDIONALI NELLA MILANO DEGLI ANNI 50

 


Bisogna rileggere Danilo Montaldi a partire da questo libro. Egli è stato uno dei primi a capire le grandi trasformazioni che stava subendo l' Italia durante il boom economico.
L’editore Donzelli ha ristampato Milano, Corea di Franco Alasia e Danilo Montaldi, con una introduzione di Guido Crainz (Roma, 2010). La prima edizione venne pubblicata nel 1960 da Feltrinelli che nel 1975, pochi mesi dopo la morte prematura di Montaldi, in una nota alla seconda edizione accresciuta spiegò la genesi del libro.
Negli anni del miracolo economico milioni di italiani abbandonarono le aree più depresse del nostro paese e si indirizzarono verso le regioni più sviluppate del nord in cerca di fortuna, attratti dalle sirene del neocapitalismo. Città come Torino, Genova e Milano divennero la meta preferita di questo esodo biblico: in pochi anni il numero dei loro abitanti crebbe sensibilmente causando una serie di conseguenze che si trascineranno per molto tempo. Giornalisti, scrittori cineasti guardarono con particolare attenzione questa realtà drammatica. Nacquero le prime inchieste giornalistiche e sociologiche. Nel 1959 Danilo Dolci propose a Feltrinelli un libro d’inchiesta sugli emarginati e i vinti (operai, disoccupati, venditori ambulanti, cameriere, prostitute) della città di Milano con le storie di vita appena raccolte da Franco Alasia, uno dei suoi allievi e dei suoi principali collaboratori. Dopo un periodo di riflessione, l’editore milanese decise di affidarne la cura a Danilo Montaldi che si era fatto conoscere per aver pubblicato su varie riviste alcuni saggi particolarmente innovativi e significativi, il quale scrisse una lunga introduzione analizzando le varie sfaccettature di quel particolare fenomeno. Da questa collaborazione nacque, appunto, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Il libro resta il frutto di un lavoro paziente e scrupoloso condotto sul campo con il metodo della con-ricerca ed è ispirato non solo a un semplice bisogno di denuncia sociale ma anche ad un’ottica antagonista.
La novità della ricerca salta subito all’attenzione del lettore, e non solo dall’introduzione. Le storie di vita raccolte da Franco Alasia vennero trascritte fedelmente, cioè senza alterare la lingua degli intervistati che diventano i veri protagonisti del libro. Esse ci raccontano, in modo lucido e penetrante, l’altra faccia del boom, un’Italia diversa, distante anni luce da quella ufficiale. Non più storia dei ceti dirigenti, quindi, bensì dei “senza storia”, delle classi mute, a cui finalmente Alasia e Montaldi danno la parola, e fanno emergere dal silenzio e dall’oblio. I due ricercatori gettano il loro sguardo penetrante su Milano ma per mostrarci i lati sconosciuti e più oscuri della metropoli lombarda, gli aspetti più crudi e più drammatici della realtà neocapitalistica, le contraddizioni del boom economico. “Qui, a Milano”, scrisse Montaldi nella Premessa, “arrivano gli immigrati. Quanti sono i contadini in Italia che sognano di vivere a Milano? L’immigrato ancora non si esprime. Però può raccontare la propria storia. Ne arrivano, ogni giorno, da anni. Per quasi tutti la speranza si arena al capolinea del 15, del 16, dell’8, del 28; all’Albergo Popolare; in Corea. La città di Milano è investita da queste correnti; qualcuno ha voluto risalirle, per conoscere”.
I luoghi di origine e di provenienza degli immigrati sono diversi (il Polesine allagato dalle piene del Po, il Veneto povero, le province spoglie dell’Italia centrale, l’Italia insulare e il mezzogiorno contadino, usciti sconfitti dalle lotte per la terra e delusi dalla riforma agraria), ma a spingere tanta gente verso il cuore del miracolo (Milano, Genova e Torino, ma anche le altre città del triangolo industriale) è lo stesso sogno, la ferma volontà di uscire dalla condizione di miseria e di conquistare una migliore condizione di vita e di lavoro. Però, giunti a destinazione, essi sono costretti a scontrarsi con una cruda realtà e ben presto si accorgono di trovarsi in una realtà ostile, alienante e emarginate, cioè di non essere approdati nella “capitale del benessere”, bensì in Corea. In effetti, Milano (come le altre città del nord) era completamente impreparata ad accogliere un afflusso così elevato di persone: mancavano gli alloggi e le strutture di accoglienza mentre l’assistenza e le strutture scolastiche erano molto carenti. In quel periodo il tessuto urbano subì delle profonde modifiche e nelle periferie milanesi nacquero le “coree” (vennero chiamate così perché comparvero ai tempi della guerra di Corea), quartieri disseminati di costruzioni di fortuna costruite per lo più con materiale di riporto dove gli immigrati investivano tutte le loro fortune. “La Corea nasce come un insieme di casette monofamiliari popolate al massimo, esempi di architettura spontanea, col tetto quelle dei veneti, a terrazzo quelle dei meridionali […]”. Considerati clandestini dalla legge contro l’urbanesimo, varata dal regime fascista nel 1939 (che venne abrogata soltanto nel 1961), la vita degli immigrati assomiglia il più delle volte ad un vero e proprio calvario, contrassegnata da ritmi di lavoro massacranti, dall’emarginazione, da sacrifici, privazioni e ingiustizie di ogni genere. Il lavoro tanto desiderato non sempre si riusciva a trovare per cui si era costretti ad affidarsi alle cosiddette “cooperative”, strutture illegali poste fuorilegge nel 1960. Alasia e Montaldi concentrarono la loro attenzione principalmente sul capoluogo lombardo ma il loro discorso può valere anche per le altre città del triangolo industriale. Negli anni sessanta e nei primi anni settanta Milano, Corea godette di una certa fortuna nell’ambito dei gruppi della nuova sinistra e ancora oggi conserva tutto il suo valore e resta uno dei pochi libri scritti a caldo che ci aiutano a capire il mondo dell’immigrazione, non solo l’Italia del boom economico ma anche quella di oggi.

GIUSEPPE MURACA
“Intellettuali/Storia”, 2011.

I. BACHMANN, Letteratura e utopia

 


«Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi»: questa frase, che incontriamo in una lettera di Kafka, e che la Bachmann riprende, può valere come epigrafe per queste celebri lezioni, pronunciate a Francoforte nel 1959-1960. In poche pagine limpide e vibranti la Bachmann ha consegnato l’essenza del suo pensiero sulla letteratura, vale a dire – per lei, almeno – su tutto. La forma è piana e pacata, di una trasparenza educata su Hofmannsthal e Musil. Il senso è audace e inflessibile: l’idea di una letteratura che per essere tale deve nascere «laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso». Una tale letteratura, già nel manifestarsi della sua forma, «contrappone alla vita una utopia della lingua». Queste lezioni ci confermano che in questo secolo le parole decisive sulla letteratura le hanno dette i grandi prosatori e i grandi poeti, da Proust a Benn, da Auden a Mandel’štam – e accanto a quei precedenti esse si dispongono.

ANTONIO VENEZIANO, IL POETA DI MONREALE AMATO DA L. SCIASCIA

 


Le ottave di Antonio Veneziano ( 1543-1593), poeta monrealese del '500 furono pubblicate dall' editore Giulio Einaudi nel 1967.

L'editore affidò a Leonardo Sciascia il compito di introdurre l'opera affidando imprudentemente la traduzione al filologo siciliano e studioso di tradizioni popolari Aurelio Rigoli.

Mentre l'introduzione di Sciascia è di grande livello, la traduzione dal siciliano all'italiano del Rigoli  risulta alquanto scarsa.

L'opera comprende " La Celia" il primo e secondo libro, Canzuni di sdegnu e i Proverbij.

Alcuni di questi "Proverbi siciliani" furono cantati dalla straordinaria voce della cantautrice e cantastorie di Licata Rosa Balistreri.

L'introduzione di L. Sciascia alle Ottave del Veneziano del '67 sarà poi inserita nel suo volume La corda Pazza ( Einaudi - Torino 1970).

Di questa brutta traduzione del Rigoli ne parlerà lo stesso Sciascia in una lettera privata al suo grande amico e scrittore Vincenzo Consolo datata 18 aprile 1967 :

" Carissimo Enzo,

   ...... sono contento che la mia vita del Veneziano ti è piaciuta. Purtroppo, la cura e traduzione dei testi è stata, da parte di Rigoli, molto al disotto di ogni aspettativa: fortuna che in Italia nessuno bada seriamente a queste cose.

Ci sono errori spaventosi, interpretazioni balorde. Incredibile: un filologo, uno studioso di tradizioni popolari, siciliano per giunta - e va ad inciampare su cose che il primo siciliano che incontri ti tradurrebbe nel giusto senso...

    Cordiali saluti per te e famiglia, anche da parte dei miei. Ti abbraccio,

                                               Leonardo


( in: Vincenzo Consolo- Leonardo Sciascia- Essere o no scrittore- Lettere 1963-1988-editore Archinto-Milano 2019).

E' SCANDALOSO CONTINUARE A COSTRUIRE ARMI E AD ALIMENTARE I DIVERSI FOCOLAI DI GUERRE

 


Un F35 costa quanto 3.244 letti di terapia intensiva!

28 febbraio 2024

GRAMSCI: RIMETTERSI TRANQUILLAMENTE ALL' OPERA, RICOMINCIANDO DALL' INIZIO

 



"Perché ti ho scritto tutto ciò?
Perché ti convinca che mi sono trovato
in condizioni terribili, senza perciò
disperarmi, altre volte. Tutta questa vita
mi ha rinsaldato il carattere.
Mi sono convinto che anche quando tutto
è o pare perduto, bisogna rimettersi
tranquillamente all'opera, ricominciando
dall'inizio".
#AntonioGramsci, Lettere dal carcere.

LA PEDAGOGIA DI ANTONIO GRAMSCI A BAGHERIA

 


ANTROPOLOGIA E LETTERATURA IN ERNESTO DE MARTINO

 



Ci sono libri inutili e ci sono invece libri che aprono nuovi orizzonti e nuove prospettive e che senza alcun dubbio arricchiscono il lettore. De Martino e la letteratura fa parte senz’altro di quest’ultima categoria. Curato da Paolo Desogus, Riccardo Gasperina Geroni e Gian Luca Picconi, esso è stato da poco pubblicato dalla Casa editrice Carocci (Roma 2021, pp. 286, Euro 28,00) ed è nato dalla collaborazione di un’equipe di studiosi che fanno capo a varie Università italiane ed europee: Paolo Zublena, Fabio Moliterni, Roberto Dainotto, Antonio Fanelli, Marco Gatto, Andrea Agliozzo, Alessandra Grandelis, Angela Borghesi, Chiara Carpita, Marco Antonio Bazzocchi, Francesco De Cristofaro e Valentina Vetere, Stefania Rimini e Renato Nisticò, quest’ultimo prematuramente scomparso alcuni anni fa. Nell’Introduzione vengono sottolineati la singolare complessità della figura del più grande antropologo italiano, la sua relazione e il suo costante confronto con alcuni dei più importanti scrittori italiani ed europei contemporanei. Infatti, “l’attenzione riposta sul valore conoscitivo dell’espressione letteraria costituisce un tratto essenziale della ricerca antropologica e della meditazione filosofica di De Martino”. Partendo da questa premessa, il volume è stato diviso in tre parti: nella prima vengono esaminate le fonti letterarie che lo hanno ispirato nel corso del tempo; la seconda (Confronti) viene dedicata all’analisi del sodalizio intellettuale fra De Martino e alcuni scrittori e scrittrici italiani (Cesare Pavese, Rocco Scotellaro, Pier Paolo Pasolini, Cesare Cases, Franco Fortini, Elsa Morante e Amelia Rosselli), e infine nella terza parte (Prospettive) si raccolgono cinque studi sull’esperienza di lettura dei testi demartiniani successiva alla scomparsa dell’etnologo napoletano, avvenuta nel 1965 (era nato nel 1908). Composto da saggi per nulla accademici, molto intensi e di facile lettura, questo libro non è semplicemente utile, ma necessario, in quanto aggiunge dei tasselli molto importanti per la conoscenza di una delle personalità più affascinanti della cultura italiana del Novecento, di cui proprio di recente la Casa editrice Einaudi ha ristampato due delle sue principali opere, e cioè La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, nuova edizione a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre, Marcello Massenzio, Torino 2019, e Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, nuova edizione a cura di Marcello Massenzio, Torino 2021.

Da  il manifesto


TORNA AL CINEMA "QUARTO POTERE" di ORSON WELLES

 


SAPER SORRIDERE DI NOI STESSI

 

Opera di Laura Marchese


Dobbiamo, di tanto in tanto, staccarci da noi stessi, per poter
guardare in profondità dentro di noi;
dobbiamo saper ridere e piangere di noi;
dobbiamo scoprire l’eroe e anche il buffone
che si nasconde in noi;

dobbiamo essere contenti della nostra pazzia,
se vogliamo poter essere contenti della nostra saggezza.

IL PESO DI CARLO LEVI NELLA STORIA DEL 900 ITALIANO

 


Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi 

 GIUSEPPE MURACA

 

Con la pubblicazione del libro Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi salì nell’immediato dopoguerra alla ribalta nazionale e internazionale provocando un vivace dibattito politico e letterario. Nato a Torino nel 1902 in un ambiente familiare di origine ebraica e influenzato dalle idee liberal-socialiste (la madre Maria Treves era sorella del dirigente socialista Claudio Treves), egli nel 1918 conobbe Piero Gobetti con cui strinse una profonda amicizia: infatti collaborò alle sue riviste «Energie nuove» e la «Rivoluzione liberale». Il libro venne scritto a Firenze fra il mese di dicembre del 1943 e il mese di luglio dell’anno seguente durante la sua clandestinità di sorvegliato speciale del regime nazi-fascista e pubblicato nel 1945; quindi è un’opera che non è nata dal nulla, bensì dopo più di un ventennio di attività pittorica, letteraria e politica da parte dell’autore come oppositore politico del regime fascista e un processo di riflessione sul destino dell’uomo e del mondo.

Cristo si è fermato ad Eboli, che venne accolto con grande favore da un ampio pubblico di lettori e successivamente tradotto in molte lingue, è un libro molto complesso, difficilmente catalogabile, che testimonia del legame profondo che si è istituito fra l’autore e il mondo contadino durante i mesi del confino in Lucania, un’opera autobiografica che trae ispirazione dalla sua esperienza soggettiva. Diciamo che si tratta di una via di mezzo fra l’indagine sociologica e il saggio etnografico e antropologico, resa singolare da un’alta qualità letteraria. Rocco Scotellaro lo ha definito “Il più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi”. In Cristo si è fermato è fermato ad Eboli quindi è lo stesso Levi che parla e che scrive, senza fronzoli e senza infingimenti letterari. L’io narrante è un medico (anche se non esercita la professione da anni) e un pittore che viene catapultato dalle autorità fasciste a Grassano, in Lucania. La storia si svolge ai tempi della guerra d’Abissinia e del massimo consenso del regime fascista e il libro non è altro che un viaggio di scoperta di un mondo oltre-confine, sconosciuto all’autore e immobile in uno stadio preistorico. Sin dal suo incipit l’autore traccia questa linea di demarcazione che divide il Nord dal Sud e pone l’accento sulla condizione disumana dei contadini:

– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.

Dopo un breve periodo trascorso a Grassano, Levi viene trasferito dalle autorità ad Aliano (Gagliano nel libro, secondo il dialetto del luogo) dove trova sistemazione a casa di una vedova. Appena giunto a destinazione, lo scrittore torinese capisce subito di essere capitato in un mondo segnato dalla miseria, dalle ingiustizie, dalla malattia e dalla morte. Sin dal suo arrivo egli viene convocato da alcuni contadini perché si prenda cura di uno di loro in fin di vita a causa della malaria, una malattia che colpisce i lucani sin da bambini. L’uomo muore ma lui subito gode della fiducia dei contadini che lo considerano come un buon cristiano. In paese ci sono due medici, però completamente ignoranti, che non godono però della loro fiducia. Sin dalle prime pagine vengono denunciati i mali che affliggono le popolazioni meridionali (miseria, emigrazione, analfabetismo, malaria), ma esse mancano di una vera e propria coscienza politica

perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee.

E ancora:

Nel mondo dei contadini non c'è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.” P. 102

Nella storia dell’umanità

“I contadini lucani nella loro secolare storia hanno avuto tre guerre collocate nel tempo, la prima delle quali fu contro i greci che conquistarono queste terre. Da un lato c'erano gli eserciti organizzati degli Achei con le loro armi; dall'altro i contadini con le loro scuri, le falci e i coltelli. La seconda guerra fu quella contro i Romani che permise la diffusione della teocrazia statale con tutte le sue incomprensibili leggi. Infine la terza e ultima fu quella dei briganti: i contadini non avevano cannoni come "l'altra Italia" che li stava sottomettendo, ma avevano la rabbia dovuta alla povertà, all'emigrazione, all'ingiustizia sociale che il nuovo stato savoiardo stava perpetrando nelle terre meridionali.”

Lo Stato viene considerato dai contadini come un ente estraneo, nemico. Lo Stato si è completamente dimenticato di loro e si ricorda della loro esistenza solo quando deve infliggere nuove tasse:

“Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico.” (P. 108)

Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.” “Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte.” Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono [...] La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura. (p.71)

Quello contadino è un mondo immobile, sempre uguale, senza speranza, segnato dalla rassegnazione e dalla vanità delle cose e dalla potenza del destino, in contrasto con il mondo dei signori. E in quel mondo chiuso attecchiscono i tabù e i pregiudizi secolari.

Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell'altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.” P. 122

Come è stato sottolineato “il mondo di Galiano si configura come un universo spaccato; da una parte i contadini, i poveri, gli umiliati; dall’altra i signori ovvero i rappresentanti di una piccola borghesi intristita, marcia, che vive dei propri risentimenti, dei propri rancori, e soprattutto è caratterizzata da una meschina, repellente disumanità […] La separazione tra signori e contadini è per sua natura insanabile (Mario Miccinesi, p. 65). I signori partecipano alle vicende politiche del paese, mentre i contadini si chiudono nella loro indifferenza.

Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si dànno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.” P. 201

E l’autore quasi alla fine del libro boccia tutte le “ricette” politiche volte a risolvere la questione meridionale e ad un certo punto afferma:

Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento. Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto d'individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato. L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica. che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. P. 210

Il libro si conclude con l’addio dell’autore alla comunità dei contadini che lo ha accolto con amore e gentilezza e con il suo ritorno a Torino in treno.

La critica ha ormai messo in luce i caratteri singolari del libro, ma su un punto bisogna essere chiari, e cioè che si rischia di non capire il senso dell’opera se non si tiene conto della posizione politica di Carlo Levi, della sua appartenenza al Partito d’Azione e della sua netta opposizione al regime fascista. Egli crea una rappresentazione mitica della civiltà contadina, ma al tempo stesso scrive un libro di denuncia e di alta letteratura sulla condizione di immobilismo, di arretratezza e di miseria in cui versava il mezzogiorno d’Italia e della mancata volontà da parte della classe dirigente di affrontare dal punto di vista politico la questione meridionale. Il dibattito che si è sviluppato nel dopoguerra sull’opera e le idee di Carlo Levi è stato abbastanza variegato ma tutti si sono hanno sottolineato l’importanza di Cristo si è fermato ad Eboli. Le maggiori riserve sono venute da parte comunista, e in particolare da parte di Carlo Muscetta, che in seguito ha in parte corretto il suo iniziale giudizio negativo, e da Mario Alicata che ha scritto il saggio Il meridionalismo non si può fermare ad Eboli, che polemicamente ha sottolineato quelli che a suo avviso sono i limiti politici del meridionalismo leviano.

Ora che il mondo descritto e narrato da Carlo Levi non è esiste più da tempo che cosa ha da dirci il suo libro? Esso deve essere considerato una delle massime testimonianze letterarie e politiche su di un mondo perduto per sempre.

 


ROBERTO ROVERSI AMICO DI PASOLINI E SCIASCIA

 




Non aveva gatti in casa.
La gloria era del sole appena tramontato
sopra i vasi d’ardesia
le montagne apparivano ombre dentro i mari.
Il Tamigi lontano
ma io qua voglio testimoniare la maledizione d’ Italia!
Fra gli ulivi non c’è pace
dove gli aranci gonfiano le ali di miele
gli alberi piangono coperti di sangue
la malinconia d’Italia è polvere di pergamene
la sua maledizione nuova è la peste degli anni Duemila
dovrà essere la guerra delle guerre per ripulire il
suo cuore.
Senza nemici non è vita
_______
Roberto Roversi

27 febbraio 2024

L' ULTIMA UTOPIA SMENTITA DALLA STORIA

 

ph. tina modotti


"La vera libertà è la bandiera rossa!"
approvò Quattro con gli occhi contenti.
"Che nel comunismo tutti saranno compagni!", seguitò Nino, a pieno impeto, "nun ce saranno più né ufficiali, né professori, né baroni né re né regine."
Tina Modotti

FAUST, DON GIOVANNI, AMLETO E DON CHISCIOTTE: DIALETTICA DEI MITI MODERNI

 


È uscito di recente, per Mucchi Editore, La dialettica dei miti moderni. Faust e don Giovanni, Amleto e don Chisciotte nella ricezione romantica, di Francesco Marola. Il libro ricostruisce le origini dell’associazione, come coppie di opposti, dei miti letterari moderni: dalla cultura letteraria tedesca dell’età classico-romantica fino all’irradiazione in diversi autori del primo Ottocento europeo. Proponiamo un estratto dell’introduzione che riprendiamo dal sito https://www.leparoleelecose.it/?p=48760

 

INTRODUZIONE ALLA DIALETTICA DEI MITI MODERNI

 

di Francesco Marola

 


Nel suo ultimo studio considerato tra i classici della mitocritica letteraria, Myths of Modern Individualism. Faust, Don Quixote, Don Juan, Robinson Crusoe (1996), Ian Watt prendeva in analisi quelli che definiva i «quattro miti del mondo moderno», espressione della «spinta positiva dell’individualismo»[1]. Tra i quattro riconosceva una genesi organica per i primi tre a cavallo dei secoli XVI e XVII, differente da quella posteriore di Crusoe, sentendo di doversi giustificare per la scelta di quest’ultimo compiuta a discapito di Amleto: lo riteneva più degno della qualifica di mito poiché, a suo dire, più popolare rispetto al principe shakespeariano, caratterizzato da una tematica intellettuale, ossia filosofica. Non sarà difficile riconoscere invece che la figura di Amleto non solo è contigua alle altre, ma anche assai più ricorrente nell’immaginario, quantomeno in quello letterario.

 

Watt individuava due momenti fondamentali nella storia dei moderni miti letterari (specificazione in lui assente, che è opportuno porre fin d’ora). Dapprima la nascita come exempla negativi nell’epoca della Controriforma, al fine ideologico di arginare il nascente individualismo rinascimentale con esiti punitivi o derisori. Successivamente, una loro profonda riformulazione in epoca romantica, quando gli intenti originari vennero rovesciati da letture idealizzanti o comunque simpatetiche, dovute alla piena affermazione dell’individualismo con l’ascesa della borghesia. Lo studio si diffonde sul momento delle origini, mentre alla trasformazione romantica dedica poche pagine, appena 35 sulle 280 dell’edizione originale. Fu la malattia dell’autore a impedire lo sviluppo del volume, pubblicato grazie alla cura degli allievi. Ma al di là di questo limite oggettivo, Watt stesso riconosceva dei limiti soggettivi nella trattazione di un argomento tanto vasto, auspicandone un completamento futuro: «credo che l’idea in generale sia interessante e importante e spero che altri, soprattutto gli storici e gli studiosi di letteratura comparata, la riprenderanno in modo più soddisfacente»[2].

 

Il proposito del mio libro è per l’appunto raccogliere l’appello del critico inglese, restituendo però ad Amleto il suo trono usurpato. Ho dunque preso in analisi il momento tralasciato della ‘ricezione romantica’: più esattamente, della ricezione propria dell’età classico-romantica della cultura letteraria tedesca, che nella lettura qui proposta è il momento determinante alla loro riformulazione, dimostrato dall’influenza sugli sviluppi letterari europei. In riferimento al contesto germanistico, il termine ‘romantico’ è dunque inteso nell’accezione più ampia, come categoria estetica non strettamente coincidente con le partizioni della storiografia letteraria. Piuttosto che un individualismo connotato in termini morali, a essere tematizzata in quest’epoca è la nuova prospettiva della soggettività, coi nuovi conflitti e contraddizioni che essa comporta. All’interno di questa ‘rivoluzione’ dei quattro miti moderni, ho analizzato un fenomeno ulteriore che li coinvolge, affrontato solo episodicamente dalla critica e mai – da quanto mi risulta – per il loro insieme: il fenomeno della loro polarizzazione dialettica, per cui Faust e don Giovanni da una parte, Amleto e don Chisciotte dall’altra, vengono associati in coppie di opposti. Ancor prima, ho esaminato il concetto stesso di mito moderno, usualmente impiegato per definirli, tentandone una ricostruzione genealogica.

 

La tesi fondamentale che ho cercato di dimostrare nel primo capitolo (Letteratura come mitologia. Alle origini dell’estetica romantica) è che alla cultura tedesca dell’età classico-romantica sia dovuta la ricezione stessa delle quattro figure letterarie attraverso la categoria del mito. Ho preso pertanto in analisi i testi di estetica e di poetica che, in quell’epoca, riformulano progressivamente i concetti di mito e di mitologia volgendoli all’interpretazione della modernità letteraria. Questa riconcettualizzazione dà luogo a un nuovo senso comune, a cui può essere ricondotta la nostra idea di ‘mito letterario’.

 

Nel confronto della modernità con l’antico, particolarmente intenso nel secondo Settecento tedesco, dapprima Herder auspica una riformulazione più libera e creativa del repertorio mitologico, per adattarlo alla significazione allegorica del presente. Successivamente, passando per l’interpretazione della mitologia classica come linguaggio della fantasia formulata da Moritz, e per il concetto di rappresentazione simbolica posto da Kant, è il principale teorico della Frühromantik, Friedrich Schlegel, a interpretare per primo le opere fondative della modernità letteraria nei termini di una «nuova mitologia», che è detta «nuova» per l’appunto perché propriamente moderna. In questa chiave, Schlegel legge l’opera di Cervantes e di Shakespeare come espressione di una «mitologia indiretta». Ritengo che questa lettura sia resa possibile, in Schlegel, dalla declinazione in senso prettamente estetico e morfologico del concetto di mitologia, svincolato quindi dalla valenza teoretica, etico-pratica o religiosa presente in altre teorie neomitologiche, come ad esempio nella filosofia del giovane Hegel (lo Ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus), che pure prenderò qui in esame. La lettura che propongo si differenzia pertanto da importanti studi monografici sull’argomento, che a diversi livelli hanno assimilato la teoria schlegeliana ad altre concezioni coeve. Diverso ancora è poi il caso di Schelling, che nelle lezioni di estetica del 1802-1803 sviluppa un concetto di rappresentazione simbolica embrionalmente elaborato da Goethe, associandolo a quello di mito nell’interpretazione della modernità letteraria: in particolare per le figure di Faust e don Chisciotte. Sebbene si rifaccia ampiamente alle acquisizioni dei fratelli Schlegel, soprattutto alla critica storico-letteraria di August Wilhelm, Schelling concepisce il mito-simbolo secondo una valenza gnoseologica che è persino antitetica a quella implicata dalla formulazione di Friedrich Schlegel.

 

Nonostante queste differenze, Schlegel e Schelling sono entrambi pionieri della reinterpretazione del nuovo canone moderno, e in particolare delle opere oggetto del nostro studio, attraverso la categoria del mito. Di ciò si occupa il secondo capitolo del libro (Miti letterari moderni, miti romantici). Sono le singole opere, e non il complesso delle narrazioni tradizionali dei nostri quattro personaggi, a essere intese come miti per via della loro ricchezza simbolica. Parlo pertanto a tal proposito di ‘opere-mito’ del romanticismo, per distinguere questo concetto di mito letterario da quello relativo alle tradizioni narrative rielaborate nel tempo, come avveniva con l’antica mitologia, per cui uso invece la definizione di ‘miti tradizionali’.

Faust e don Giovanni si configurano come miti moderni anche in questi termini ulteriori, essendo stati, più di Amleto e don Chisciotte, riformulati da molteplici riscritture, e avendo conosciuto un primo sviluppo anche nel folclore. Inoltre, Faust e don Giovanni sono inizialmente portatori di elementi sovrannaturali e di un tema teologico (la superbia o l’irriverenza nei confronti della Grazia divina) che li avvicinano anch’essi alle narrazioni dell’antichità. Diversamente, Amleto e don Chisciotte, oltre ad essere esenti da particolari tematiche teologiche, sfuggono all’accezione di miti tradizionali in quanto espressi all’origine dalle opere-mito di Shakespeare e Cervantes (poco conta la figura di Amleth delle Gesta Danorum, mero materiale narrativo per il dramma). Faust e don Giovanni trovano invece la propria opera-mito nel tardo Settecento, con le versioni di Goethe e di Mozart.

 

Ciò dunque riguardo alla ricezione in senso mitologico dei quattro miti letterari moderni qui presi in esame. Il secondo fenomeno che li coinvolge in modo organico è quello che definisco della loro dialettica: il processo per cui i protagonisti delle due coppie di miti letterari, Faust e don Giovanni da una parte, Amleto e don Chisciotte dall’altra, vengono associati e contrapposti come tipi antitetici, per arrivare in alcuni casi a una loro sintesi o ibridazione in un’unica opera, o in un’unica figura: ad esempio, un Amleto donchisciottesco o un don Giovanni faustiano. Entrambe le coppie di miti letterari vengono associate, dalla critica o direttamente dalle opere letterarie, nel riconoscimento di un’analogia tematica di fondo, a partire dalla quale i protagonisti vengono interpretati come personificazioni di facoltà o di caratteristiche opposte: spiritualità e sensualità, riflessione e azione, tipicità nordica e meridionale, idealismo e scetticismo, visione del mondo tragica e comica.

 

Note

 

[1] Watt, Ian, Myths of Modern Individualism: Faust, Don Quixote, Don Juan, Robinson Crusoe, Cambridge University Press, Cambridge 1996; trad. it. Miti dell’individualismo moderno. Faust, Don Chisciotte, Don Giovanni, Robinson Crusoe, trad. di M. Baiocchi e M. Gnoli, Donzelli, Roma 1998, p. vii.

[2] Trad. it., p. xii.

 


A. RIMBAUD IL POETA VEGGENTE

 


LA SICILIA DI NAT SCAMMACCA

 


VIGNETTE SUL VOTO SARDO


 






"GREEN BORDER" visto da ROSELLA CORRADO

 



GREEN BORDER

Il film di A. Holland ci parla di “Confini” territoriali e non solo

 

Dopo Io capitano di Matteo Garrone e The old oak di Ken Loach è arrivato nelle sale (grazie

Rouge) Green Border di Agnieszka Holland, regista polacca, premiata nell’ultima Mostra

cinematografica di Venezia con il Premio speciale della Giuria. I tre film, del 2023, delineano quasi

una ideale trilogia sul tema doloroso delle Migrazioni. Io Capitano mostra il viaggio avventuroso di

due ragazzi partiti dal Senegal verso l’Europa. The old oak racconta la difficile convivenza di

profughi siriani già arrivati in Europa.

Green Border inizia nell’ottobre 2021 con un volo di linea su cui viaggiano una famiglia di profughi

siriani, con tre bambini, e una donna afghana. Atterrano a Minsk in Bielorussia dove Lukashenko li

ha attirati facendo credere che dalla Bielorussia sarebbero potuti entrare in Polonia e quindi

raggiungere i parenti che li attendono in Svezia. Ma al confine polacco – la zona verde del titolo,

intricata e paludosa - vengono respinti dalle guardie di confine, picchiati pestati derubati, e

sbattuti oltre confine. I soldati bielorussi con pari violenza li ributtano oltre il filo spinato.

Il film mostra la disumanità delle guardie di frontiera, strumenti ciechi nelle mani di un Potere

cinico e crudele ma evidenzia anche la generosità e l’abnegazione di alcuni giovani attivisti che si

adoperano con immenso coraggio per aiutare e salvare i profughi. Il confine tra questi due mondi

– il disumano e l’umano – è varcato da un soldato polacco di frontiera che da passivo esecutore di

ordini spietati si trasforma in uomo consapevole e soccorritore coraggioso dei profughi. Questo

personaggio ci dice che la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità sono possibili.

L’incubo vissuto dai protagonisti è reso da un bianco e nero cupo e dalla vegetazione selvaggia del

confine dove i migranti sono abbandonati. Girato con taglio documentaristico, il film è uno

squarcio sulla bestialità cui può arrivare il Potere. La speranza però non manca ed è affidata ai

giovani: gli attivisti volontari, una psicologa che si unisce ai volontari, un paziente della psicologa

che ospita nella sua villa alcuni giovanissimi migranti che solidarizzano subito con i suoi figli,

accomunati dalla spontaneità e dai comuni gusti musicali.

Una scena merita particolare attenzione. I superstiti della famiglia siriana giunta in volo a Minsk,

alla fine del film siedono affamati sul marciapiedi di un paesino, dietro di loro un graffito sul muro

con il cerchio delle 12 stelle della bandiera europea … Cos’è l’Europa? Il film dopo avere coinvolto

lo spettatore costringe ad una riflessione morale e politica.

Riporto, a questo proposito, una riflessione della regista A. Holland

“Viviamo in un mondo in cui sono necessari grande immaginazione e coraggio per affrontare tutte

le sfide dei nostri tempi. La rivoluzione dei social media e l’intelligenza artificiale hanno ostacolato

sempre di più l’ascolto di voci autentiche. A mio avviso, non ha alcun senso impegnarsi nell’arte se

non si lotta per quelle voci, se non si lotta per porre domande su questioni importanti, dolorose, a

volte irrisolvibili, che ci mettono di fronte a scelte drammatiche. Questa è esattamente la

situazione in atto al confine tra Polonia e Bielorussia.”

 

Palermo, 14 febbraio ’24                                                                           Rosella Corrado

 

Recensione già pubblicata nella rivista MEZZOCIELO


LUNGA VITA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

 


BASTA CON LE ARMI E CON LE GUERRE

 


FOTO DI ENZO SELLERIO AL MASSIMO DI PALERMO

 



Foto di Enzo Sellerio



ELEZIONI SARDE

 

Gramsci dice: "meglio di niente!"

In Sardegna sconfitta la Celere di Pisa (anche grazie a Sergio Mattarella...)