“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
29 febbraio 2024
L' INCHIESTA SUGLI IMMIGRATI MERIDIONALI NELLA MILANO DEGLI ANNI 50
I. BACHMANN, Letteratura e utopia
«Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi»: questa frase, che incontriamo in una lettera di Kafka, e che la Bachmann riprende, può valere come epigrafe per queste celebri lezioni, pronunciate a Francoforte nel 1959-1960. In poche pagine limpide e vibranti la Bachmann ha consegnato l’essenza del suo pensiero sulla letteratura, vale a dire – per lei, almeno – su tutto. La forma è piana e pacata, di una trasparenza educata su Hofmannsthal e Musil. Il senso è audace e inflessibile: l’idea di una letteratura che per essere tale deve nascere «laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso». Una tale letteratura, già nel manifestarsi della sua forma, «contrappone alla vita una utopia della lingua». Queste lezioni ci confermano che in questo secolo le parole decisive sulla letteratura le hanno dette i grandi prosatori e i grandi poeti, da Proust a Benn, da Auden a Mandel’štam – e accanto a quei precedenti esse si dispongono.
ANTONIO VENEZIANO, IL POETA DI MONREALE AMATO DA L. SCIASCIA
Le ottave di Antonio Veneziano ( 1543-1593), poeta monrealese del '500 furono pubblicate dall' editore Giulio Einaudi nel 1967.
L'editore affidò a Leonardo Sciascia il compito di introdurre l'opera affidando imprudentemente la traduzione al filologo siciliano e studioso di tradizioni popolari Aurelio Rigoli.
Mentre l'introduzione di Sciascia è di grande livello, la traduzione dal siciliano all'italiano del Rigoli risulta alquanto scarsa.
L'opera comprende " La Celia" il primo e secondo libro, Canzuni di sdegnu e i Proverbij.
Alcuni di questi "Proverbi siciliani" furono cantati dalla straordinaria voce della cantautrice e cantastorie di Licata Rosa Balistreri.
L'introduzione di L. Sciascia alle Ottave del Veneziano del '67 sarà poi inserita nel suo volume La corda Pazza ( Einaudi - Torino 1970).
Di questa brutta traduzione del Rigoli ne parlerà lo stesso Sciascia in una lettera privata al suo grande amico e scrittore Vincenzo Consolo datata 18 aprile 1967 :
" Carissimo Enzo,
...... sono contento che la mia vita del Veneziano ti è piaciuta. Purtroppo, la cura e traduzione dei testi è stata, da parte di Rigoli, molto al disotto di ogni aspettativa: fortuna che in Italia nessuno bada seriamente a queste cose.
Ci sono errori spaventosi, interpretazioni balorde. Incredibile: un filologo, uno studioso di tradizioni popolari, siciliano per giunta - e va ad inciampare su cose che il primo siciliano che incontri ti tradurrebbe nel giusto senso...
Cordiali saluti per te e famiglia, anche da parte dei miei. Ti abbraccio,
Leonardo
( in: Vincenzo Consolo- Leonardo Sciascia- Essere o no scrittore- Lettere 1963-1988-editore Archinto-Milano 2019).
28 febbraio 2024
GRAMSCI: RIMETTERSI TRANQUILLAMENTE ALL' OPERA, RICOMINCIANDO DALL' INIZIO
ANTROPOLOGIA E LETTERATURA IN ERNESTO DE MARTINO
Ci sono libri inutili e ci sono
invece libri che aprono nuovi orizzonti e nuove prospettive e che senza alcun
dubbio arricchiscono il lettore. De Martino e la letteratura fa
parte senz’altro di quest’ultima categoria. Curato da Paolo Desogus, Riccardo
Gasperina Geroni e Gian Luca Picconi, esso è stato da poco pubblicato dalla
Casa editrice Carocci (Roma 2021, pp. 286, Euro 28,00) ed è nato dalla
collaborazione di un’equipe di studiosi che fanno capo a varie Università
italiane ed europee: Paolo Zublena, Fabio Moliterni, Roberto Dainotto, Antonio
Fanelli, Marco Gatto, Andrea Agliozzo, Alessandra Grandelis, Angela Borghesi,
Chiara Carpita, Marco Antonio Bazzocchi, Francesco De Cristofaro e Valentina
Vetere, Stefania Rimini e Renato Nisticò, quest’ultimo prematuramente scomparso
alcuni anni fa. Nell’Introduzione vengono sottolineati la singolare complessità
della figura del più grande antropologo italiano, la sua relazione e il suo
costante confronto con alcuni dei più importanti scrittori italiani ed europei
contemporanei. Infatti, “l’attenzione riposta sul valore conoscitivo
dell’espressione letteraria costituisce un tratto essenziale della ricerca
antropologica e della meditazione filosofica di De Martino”. Partendo da questa
premessa, il volume è stato diviso in tre parti: nella prima vengono esaminate
le fonti letterarie che lo hanno ispirato nel corso del tempo; la seconda
(Confronti) viene dedicata all’analisi del sodalizio intellettuale fra De
Martino e alcuni scrittori e scrittrici italiani (Cesare Pavese, Rocco
Scotellaro, Pier Paolo Pasolini, Cesare Cases, Franco Fortini, Elsa Morante e
Amelia Rosselli), e infine nella terza parte (Prospettive) si raccolgono cinque
studi sull’esperienza di lettura dei testi demartiniani successiva alla
scomparsa dell’etnologo napoletano, avvenuta nel 1965 (era nato nel 1908).
Composto da saggi per nulla accademici, molto intensi e di facile lettura,
questo libro non è semplicemente utile, ma necessario, in quanto aggiunge dei
tasselli molto importanti per la conoscenza di una delle personalità più
affascinanti della cultura italiana del Novecento, di cui proprio di recente la
Casa editrice Einaudi ha ristampato due delle sue principali opere, e cioè La
fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, nuova
edizione a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre, Marcello Massenzio, Torino
2019, e Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria,
nuova edizione a cura di Marcello Massenzio, Torino 2021.
Da il manifesto
SAPER SORRIDERE DI NOI STESSI
IL PESO DI CARLO LEVI NELLA STORIA DEL 900 ITALIANO
Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi
GIUSEPPE MURACA
Con la pubblicazione del libro Cristo
si è fermato ad Eboli Carlo Levi salì nell’immediato dopoguerra alla
ribalta nazionale e internazionale provocando un vivace dibattito politico e
letterario. Nato a Torino nel 1902 in un ambiente familiare di origine ebraica
e influenzato dalle idee liberal-socialiste (la madre Maria Treves era sorella
del dirigente socialista Claudio Treves), egli nel 1918 conobbe Piero Gobetti
con cui strinse una profonda amicizia: infatti collaborò alle sue riviste
«Energie nuove» e la «Rivoluzione liberale». Il libro venne scritto a Firenze
fra il mese di dicembre del 1943 e il mese di luglio dell’anno seguente durante
la sua clandestinità di sorvegliato speciale del regime nazi-fascista e
pubblicato nel 1945; quindi è un’opera che non è nata dal nulla, bensì dopo più
di un ventennio di attività pittorica, letteraria e politica da parte
dell’autore come oppositore politico del regime fascista e un processo di
riflessione sul destino dell’uomo e del mondo.
Cristo si è fermato ad Eboli, che
venne accolto con grande favore da un ampio pubblico di lettori e
successivamente tradotto in molte lingue, è un libro molto complesso,
difficilmente catalogabile, che testimonia del legame profondo che si è
istituito fra l’autore e il mondo contadino durante i mesi del confino in
Lucania, un’opera autobiografica che trae ispirazione dalla sua esperienza
soggettiva. Diciamo che si tratta di una via di mezzo fra l’indagine
sociologica e il saggio etnografico e antropologico, resa singolare da un’alta
qualità letteraria. Rocco Scotellaro lo ha definito “Il più appassionato e
crudo memoriale dei nostri paesi”. In Cristo si è fermato è fermato ad Eboli
quindi è lo stesso Levi che parla e che scrive, senza fronzoli e senza infingimenti
letterari. L’io narrante è un medico (anche se non esercita la professione da
anni) e un pittore che viene catapultato dalle autorità fasciste a Grassano, in
Lucania. La storia si svolge ai tempi della guerra d’Abissinia e del massimo
consenso del regime fascista e il libro non è altro che un viaggio di scoperta
di un mondo oltre-confine, sconosciuto all’autore e immobile in uno stadio
preistorico. Sin dal suo incipit l’autore traccia questa linea di demarcazione
che divide il Nord dal Sud e pone l’accento sulla condizione disumana dei
contadini:
– Noi non siamo cristiani, – essi
dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro
linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere,
nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato
complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo
considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le
bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o
angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di
là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un
senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello
letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno
abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre
di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né
l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti,
la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i
romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle
foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno
degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che
si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su
se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un
nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica
contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o
divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso
linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non
sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri
della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della
redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per
romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra
oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un
dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo
si è fermato a Eboli.
Dopo un breve periodo trascorso a
Grassano, Levi viene trasferito dalle autorità ad Aliano (Gagliano nel libro,
secondo il dialetto del luogo) dove trova sistemazione a casa di una vedova.
Appena giunto a destinazione, lo scrittore torinese capisce subito di essere
capitato in un mondo segnato dalla miseria, dalle ingiustizie, dalla malattia e
dalla morte. Sin dal suo arrivo egli viene convocato da alcuni contadini perché
si prenda cura di uno di loro in fin di vita a causa della malaria, una
malattia che colpisce i lucani sin da bambini. L’uomo muore ma lui subito gode
della fiducia dei contadini che lo considerano come un buon cristiano. In paese
ci sono due medici, però completamente ignoranti, che non godono però della
loro fiducia. Sin dalle prime pagine vengono denunciati i mali che affliggono
le popolazioni meridionali (miseria, emigrazione, analfabetismo, malaria), ma
esse mancano di una vera e propria coscienza politica
perché sono, in tutti i sensi del
termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono
aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale,
né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli
spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee.
E ancora:
Nel mondo dei contadini non c'è
posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la
religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è,
realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come
la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei
riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli
infiniti terrestri dèi del villaggio.” P. 102
Nella storia dell’umanità
“I contadini lucani nella loro
secolare storia hanno avuto tre guerre collocate nel tempo, la prima delle
quali fu contro i greci che conquistarono queste terre. Da un lato c'erano gli
eserciti organizzati degli Achei con le loro armi; dall'altro i contadini con
le loro scuri, le falci e i coltelli. La seconda guerra fu quella contro i
Romani che permise la diffusione della teocrazia statale con tutte le sue
incomprensibili leggi. Infine la terza e ultima fu quella dei briganti: i
contadini non avevano cannoni come "l'altra Italia" che li stava
sottomettendo, ma avevano la rabbia dovuta alla povertà, all'emigrazione,
all'ingiustizia sociale che il nuovo stato savoiardo stava perpetrando nelle
terre meridionali.”
Lo Stato viene considerato dai
contadini come un ente estraneo, nemico. Lo Stato si è completamente
dimenticato di loro e si ricorda della loro esistenza solo quando deve
infliggere nuove tasse:
“Per la gente di Lucania, Roma non
è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e
malefico.” (P. 108)
Che cosa avevano essi a che fare
con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono
«quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da
cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato.
Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.” “Per i
contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre
dall'altra parte.” Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua
struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono [...] La sola
possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione,
la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro
schiene sotto i mali della natura. (p.71)
Quello contadino è un mondo
immobile, sempre uguale, senza speranza, segnato dalla rassegnazione e dalla
vanità delle cose e dalla potenza del destino, in contrasto con il mondo dei
signori. E in quel mondo chiuso attecchiscono i tabù e i pregiudizi secolari.
Ma quando, dopo infinite
sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso
elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e
non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non
conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti
difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei
contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si
trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva
fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono
sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria
natura, contro quell'altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla,
eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei
briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza
esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono
sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia,
eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le
sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.” P. 122
Come è stato sottolineato “il mondo
di Galiano si configura come un universo spaccato; da una parte i contadini, i
poveri, gli umiliati; dall’altra i signori ovvero i rappresentanti di una
piccola borghesi intristita, marcia, che vive dei propri risentimenti, dei
propri rancori, e soprattutto è caratterizzata da una meschina, repellente
disumanità […] La separazione tra signori e contadini è per sua natura
insanabile (Mario Miccinesi, p. 65). I signori partecipano alle vicende
politiche del paese, mentre i contadini si chiudono nella loro indifferenza.
Così sono sempre le violente ed
effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e
potente affiora, per un motivo umano; e si dànno al fuoco i casotti del dazio e
le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una
ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere,
indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.”
P. 201
E l’autore quasi alla fine del
libro boccia tutte le “ricette” politiche volte a risolvere la questione
meridionale e ad un certo punto afferma:
Il problema meridionale non si
risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo
radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo
creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo
Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro
necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno:
ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che
finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma
soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento. Bisogna
che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può
più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme
tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale.
Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto
d'individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto
di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà
vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato.
L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i
rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non
esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella
loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per
esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica. che va
inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica
strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo.
Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di
infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello
Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita
collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. P. 210
Il libro si conclude con l’addio
dell’autore alla comunità dei contadini che lo ha accolto con amore e
gentilezza e con il suo ritorno a Torino in treno.
La critica ha ormai messo in luce i
caratteri singolari del libro, ma su un punto bisogna essere chiari, e cioè che
si rischia di non capire il senso dell’opera se non si tiene conto della
posizione politica di Carlo Levi, della sua appartenenza al Partito d’Azione e
della sua netta opposizione al regime fascista. Egli crea una rappresentazione
mitica della civiltà contadina, ma al tempo stesso scrive un libro di denuncia
e di alta letteratura sulla condizione di immobilismo, di arretratezza e di
miseria in cui versava il mezzogiorno d’Italia e della mancata volontà da parte
della classe dirigente di affrontare dal punto di vista politico la questione
meridionale. Il dibattito che si è sviluppato nel dopoguerra sull’opera e le
idee di Carlo Levi è stato abbastanza variegato ma tutti si sono hanno
sottolineato l’importanza di Cristo si è fermato ad Eboli. Le maggiori riserve
sono venute da parte comunista, e in particolare da parte di Carlo Muscetta,
che in seguito ha in parte corretto il suo iniziale giudizio negativo, e da
Mario Alicata che ha scritto il saggio Il meridionalismo non si può fermare ad
Eboli, che polemicamente ha sottolineato quelli che a suo avviso sono i limiti
politici del meridionalismo leviano.
Ora che il mondo descritto e
narrato da Carlo Levi non è esiste più da tempo che cosa ha da dirci il suo
libro? Esso deve essere considerato una delle massime testimonianze letterarie
e politiche su di un mondo perduto per sempre.
ROBERTO ROVERSI AMICO DI PASOLINI E SCIASCIA
27 febbraio 2024
L' ULTIMA UTOPIA SMENTITA DALLA STORIA
FAUST, DON GIOVANNI, AMLETO E DON CHISCIOTTE: DIALETTICA DEI MITI MODERNI
È uscito di recente, per Mucchi Editore, La dialettica dei miti moderni.
Faust e don Giovanni, Amleto e don Chisciotte nella ricezione romantica,
di Francesco Marola. Il libro ricostruisce le origini dell’associazione, come
coppie di opposti, dei miti letterari moderni: dalla cultura letteraria tedesca
dell’età classico-romantica fino all’irradiazione in diversi autori del primo
Ottocento europeo. Proponiamo un estratto dell’introduzione che riprendiamo dal
sito https://www.leparoleelecose.it/?p=48760
INTRODUZIONE ALLA DIALETTICA DEI
MITI MODERNI
di Francesco
Marola
Nel suo ultimo studio considerato tra i classici della mitocritica
letteraria, Myths of Modern Individualism. Faust, Don Quixote, Don
Juan, Robinson Crusoe (1996), Ian Watt prendeva in analisi quelli che
definiva i «quattro miti del mondo moderno», espressione della «spinta positiva
dell’individualismo»[1]. Tra i quattro
riconosceva una genesi organica per i primi tre a cavallo dei secoli XVI e
XVII, differente da quella posteriore di Crusoe, sentendo di doversi
giustificare per la scelta di quest’ultimo compiuta a discapito di
Amleto: lo riteneva più degno della qualifica di mito poiché, a suo dire,
più popolare rispetto al principe shakespeariano, caratterizzato da una
tematica intellettuale, ossia filosofica. Non sarà difficile riconoscere invece
che la figura di Amleto non solo è contigua alle altre, ma anche assai più
ricorrente nell’immaginario, quantomeno in quello letterario.
Watt individuava due momenti fondamentali nella storia dei moderni
miti letterari (specificazione in lui assente, che è opportuno
porre fin d’ora). Dapprima la nascita come exempla negativi
nell’epoca della Controriforma, al fine ideologico di arginare il nascente
individualismo rinascimentale con esiti punitivi o derisori. Successivamente,
una loro profonda riformulazione in epoca romantica, quando gli intenti
originari vennero rovesciati da letture idealizzanti o comunque simpatetiche,
dovute alla piena affermazione dell’individualismo con l’ascesa della
borghesia. Lo studio si diffonde sul momento delle origini, mentre alla
trasformazione romantica dedica poche pagine, appena 35 sulle 280 dell’edizione
originale. Fu la malattia dell’autore a impedire lo sviluppo del volume,
pubblicato grazie alla cura degli allievi. Ma al di là di questo limite
oggettivo, Watt stesso riconosceva dei limiti soggettivi nella trattazione di
un argomento tanto vasto, auspicandone un completamento futuro: «credo che
l’idea in generale sia interessante e importante e spero che altri, soprattutto
gli storici e gli studiosi di letteratura comparata, la riprenderanno in modo
più soddisfacente»[2].
Il proposito del mio libro è per l’appunto raccogliere l’appello del
critico inglese, restituendo però ad Amleto il suo trono usurpato. Ho dunque
preso in analisi il momento tralasciato della ‘ricezione romantica’: più
esattamente, della ricezione propria dell’età classico-romantica della cultura
letteraria tedesca, che nella lettura qui proposta è il momento determinante
alla loro riformulazione, dimostrato dall’influenza sugli sviluppi letterari
europei. In riferimento al contesto germanistico, il termine ‘romantico’ è
dunque inteso nell’accezione più ampia, come categoria estetica non
strettamente coincidente con le partizioni della storiografia letteraria.
Piuttosto che un individualismo connotato in termini morali, a essere
tematizzata in quest’epoca è la nuova prospettiva della soggettività, coi nuovi
conflitti e contraddizioni che essa comporta. All’interno di questa
‘rivoluzione’ dei quattro miti moderni, ho analizzato un fenomeno ulteriore che
li coinvolge, affrontato solo episodicamente dalla critica e mai – da quanto mi
risulta – per il loro insieme: il fenomeno della loro polarizzazione
dialettica, per cui Faust e don Giovanni da una parte, Amleto e don Chisciotte
dall’altra, vengono associati in coppie di opposti. Ancor prima, ho esaminato
il concetto stesso di mito moderno, usualmente impiegato per definirli,
tentandone una ricostruzione genealogica.
La tesi fondamentale che ho cercato di dimostrare nel primo capitolo (Letteratura
come mitologia. Alle origini dell’estetica romantica) è che alla cultura
tedesca dell’età classico-romantica sia dovuta la ricezione stessa delle
quattro figure letterarie attraverso la categoria del mito. Ho preso pertanto
in analisi i testi di estetica e di poetica che, in quell’epoca, riformulano
progressivamente i concetti di mito e di mitologia volgendoli
all’interpretazione della modernità letteraria. Questa riconcettualizzazione dà
luogo a un nuovo senso comune, a cui può essere ricondotta la nostra idea di
‘mito letterario’.
Nel confronto della modernità con l’antico, particolarmente intenso nel
secondo Settecento tedesco, dapprima Herder auspica una riformulazione più
libera e creativa del repertorio mitologico, per adattarlo alla significazione
allegorica del presente. Successivamente, passando per l’interpretazione della
mitologia classica come linguaggio della fantasia formulata da Moritz, e per il
concetto di rappresentazione simbolica posto da Kant, è il principale teorico
della Frühromantik, Friedrich Schlegel, a interpretare per primo le
opere fondative della modernità letteraria nei termini di una «nuova
mitologia», che è detta «nuova» per l’appunto perché propriamente moderna. In
questa chiave, Schlegel legge l’opera di Cervantes e di Shakespeare come
espressione di una «mitologia indiretta». Ritengo che questa lettura sia resa
possibile, in Schlegel, dalla declinazione in senso prettamente estetico e
morfologico del concetto di mitologia, svincolato quindi dalla valenza
teoretica, etico-pratica o religiosa presente in altre teorie neomitologiche,
come ad esempio nella filosofia del giovane Hegel (lo Ältestes
Systemprogramm des deutschen Idealismus), che pure prenderò qui in esame.
La lettura che propongo si differenzia pertanto da importanti studi monografici
sull’argomento, che a diversi livelli hanno assimilato la teoria schlegeliana
ad altre concezioni coeve. Diverso ancora è poi il caso di Schelling, che nelle
lezioni di estetica del 1802-1803 sviluppa un concetto di rappresentazione
simbolica embrionalmente elaborato da Goethe, associandolo a quello di mito
nell’interpretazione della modernità letteraria: in particolare per le figure
di Faust e don Chisciotte. Sebbene si rifaccia ampiamente alle acquisizioni dei
fratelli Schlegel, soprattutto alla critica storico-letteraria di August
Wilhelm, Schelling concepisce il mito-simbolo secondo una valenza gnoseologica
che è persino antitetica a quella implicata dalla formulazione di Friedrich
Schlegel.
Nonostante queste differenze, Schlegel e Schelling sono entrambi pionieri
della reinterpretazione del nuovo canone moderno, e in particolare delle opere
oggetto del nostro studio, attraverso la categoria del mito. Di ciò si occupa
il secondo capitolo del libro (Miti letterari moderni, miti romantici).
Sono le singole opere, e non il complesso delle narrazioni tradizionali dei
nostri quattro personaggi, a essere intese come miti per via della loro
ricchezza simbolica. Parlo pertanto a tal proposito di ‘opere-mito’ del
romanticismo, per distinguere questo concetto di mito letterario da quello
relativo alle tradizioni narrative rielaborate nel tempo, come avveniva con
l’antica mitologia, per cui uso invece la definizione di ‘miti tradizionali’.
Faust e don Giovanni si configurano come miti moderni anche in questi
termini ulteriori, essendo stati, più di Amleto e don Chisciotte, riformulati
da molteplici riscritture, e avendo conosciuto un primo sviluppo anche nel
folclore. Inoltre, Faust e don Giovanni sono inizialmente portatori di elementi
sovrannaturali e di un tema teologico (la superbia o l’irriverenza nei
confronti della Grazia divina) che li avvicinano anch’essi alle narrazioni
dell’antichità. Diversamente, Amleto e don Chisciotte, oltre ad essere esenti
da particolari tematiche teologiche, sfuggono all’accezione di miti
tradizionali in quanto espressi all’origine dalle opere-mito di Shakespeare e
Cervantes (poco conta la figura di Amleth delle Gesta Danorum, mero
materiale narrativo per il dramma). Faust e don Giovanni trovano invece la
propria opera-mito nel tardo Settecento, con le versioni di Goethe e di Mozart.
Ciò dunque riguardo alla ricezione in senso mitologico dei quattro miti
letterari moderni qui presi in esame. Il secondo fenomeno che li coinvolge in
modo organico è quello che definisco della loro dialettica: il
processo per cui i protagonisti delle due coppie di miti letterari, Faust e don
Giovanni da una parte, Amleto e don Chisciotte dall’altra, vengono associati e
contrapposti come tipi antitetici, per arrivare in alcuni casi a una loro
sintesi o ibridazione in un’unica opera, o in un’unica figura: ad esempio, un
Amleto donchisciottesco o un don Giovanni faustiano. Entrambe le coppie di miti
letterari vengono associate, dalla critica o direttamente dalle opere
letterarie, nel riconoscimento di un’analogia tematica di fondo, a partire
dalla quale i protagonisti vengono interpretati come personificazioni di
facoltà o di caratteristiche opposte: spiritualità e sensualità, riflessione e
azione, tipicità nordica e meridionale, idealismo e scetticismo, visione del
mondo tragica e comica.
Note
[1] Watt,
Ian, Myths of Modern Individualism: Faust, Don Quixote, Don Juan,
Robinson Crusoe, Cambridge University Press, Cambridge 1996; trad.
it. Miti dell’individualismo moderno. Faust, Don Chisciotte, Don
Giovanni, Robinson Crusoe, trad. di M. Baiocchi e M. Gnoli, Donzelli, Roma
1998, p. vii.
[2] Trad.
it., p. xii.
"GREEN BORDER" visto da ROSELLA CORRADO
GREEN
BORDER
Il
film di A. Holland ci parla di “Confini” territoriali e non solo
Dopo Io capitano di Matteo Garrone e The old oak di Ken
Loach è arrivato nelle sale (grazie
Rouge) Green Border di Agnieszka Holland, regista polacca,
premiata nell’ultima Mostra
cinematografica di Venezia con il Premio speciale della
Giuria. I tre film, del 2023, delineano quasi
una ideale trilogia sul tema doloroso delle Migrazioni. Io
Capitano mostra il viaggio avventuroso di
due ragazzi partiti dal Senegal verso l’Europa. The old oak
racconta la difficile convivenza di
profughi siriani già arrivati in Europa.
Green Border inizia nell’ottobre 2021 con un volo di linea
su cui viaggiano una famiglia di profughi
siriani, con tre bambini, e una donna afghana. Atterrano a
Minsk in Bielorussia dove Lukashenko li
ha attirati facendo credere che dalla Bielorussia sarebbero
potuti entrare in Polonia e quindi
raggiungere i parenti che li attendono in Svezia. Ma al
confine polacco – la zona verde del titolo,
intricata e paludosa - vengono respinti dalle guardie di
confine, picchiati pestati derubati, e
sbattuti oltre confine. I soldati bielorussi con pari
violenza li ributtano oltre il filo spinato.
Il film mostra la disumanità delle guardie di frontiera,
strumenti ciechi nelle mani di un Potere
cinico e crudele ma evidenzia anche la generosità e
l’abnegazione di alcuni giovani attivisti che si
adoperano con immenso coraggio per aiutare e salvare i
profughi. Il confine tra questi due mondi
– il disumano e l’umano – è varcato da un soldato polacco di
frontiera che da passivo esecutore di
ordini spietati si trasforma in uomo consapevole e
soccorritore coraggioso dei profughi. Questo
personaggio ci dice che la presa di coscienza e l’assunzione
di responsabilità sono possibili.
L’incubo vissuto dai protagonisti è reso da un bianco e nero
cupo e dalla vegetazione selvaggia del
confine dove i migranti sono abbandonati. Girato con taglio
documentaristico, il film è uno
squarcio sulla bestialità cui può arrivare il Potere. La
speranza però non manca ed è affidata ai
giovani: gli attivisti volontari, una psicologa che si
unisce ai volontari, un paziente della psicologa
che ospita nella sua villa alcuni giovanissimi migranti che
solidarizzano subito con i suoi figli,
accomunati dalla spontaneità e dai comuni gusti musicali.
Una scena merita particolare attenzione. I superstiti della
famiglia siriana giunta in volo a Minsk,
alla fine del film siedono affamati sul marciapiedi di un paesino,
dietro di loro un graffito sul muro
con il cerchio delle 12 stelle della bandiera europea …
Cos’è l’Europa? Il film dopo avere coinvolto
lo spettatore costringe ad una riflessione morale e
politica.
Riporto, a questo proposito, una riflessione della regista
A. Holland
“Viviamo in un mondo in cui sono necessari grande
immaginazione e coraggio per affrontare tutte
le sfide dei nostri tempi. La rivoluzione dei social media e
l’intelligenza artificiale hanno ostacolato
sempre di più l’ascolto di voci autentiche. A mio avviso,
non ha alcun senso impegnarsi nell’arte se
non si lotta per quelle voci, se non si lotta per porre
domande su questioni importanti, dolorose, a
volte irrisolvibili, che ci mettono di fronte a scelte
drammatiche. Questa è esattamente la
situazione in atto al confine tra Polonia e Bielorussia.”
Palermo, 14 febbraio ’24
Rosella Corrado
Recensione già pubblicata nella rivista MEZZOCIELO
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