Salvatore Maurici e il riscatto
delle bandiere tradite
Pippo Oddo
Componendo poesie, Salvatore non ubbidisce a stilemi di una particolare
scuola poetica, o di una qualsiasi moda del poetare attenta all’armonia ritmica
e poco o nulla al contenuto e, quindi, alla comunicazione lirica delle
emozioni. Meno che mai l’autore carica i versi di valenze salvifiche
individuali o afferenti alla sola sfera familiare: punta, piuttosto, ad
un’utopica palingenesi sociale, che dal luogo nativo spazia al mondo intero,
nutrendosi di idealità universali, che travalicano le barriere linguistiche e
spazio-temporali. Il suo bisogno di poesia (di cui intrisa la sua stessa
scrittura in prosa) è stato e continua ad essere, direbbe Francesco Carbone
(come ha scritto a proposito del “poeta pecoraio” di Godrano, Giacomo
Giardina), «una dimensione del pensato e del vissuto riferita a un’area sia
mentale che fisica», entro cui le esperienze individuali sono tessere di un
unico mosaico comunitario con confini che si dilatano a cerchi concentrici a
tutti i continenti e le latitudini. «Un’aria topografica che tesse e raccorda i
propri spazi con le presenze e l’esistenza delle persone», costituendo quel
prius antropologico che il sociologo del linguaggio Joshua Aaron Fishman pone
come elemento essenziale per la coesione dei gruppi, atteso che il senso del territorio
è un’eredità genetica.
Sulla poesia Le bandiere tradite, che dà il titolo anche al corpus
che l’autore ha sottoposto, bontà sua, al vaglio di una mia lettura critica, mi
ritrovo ampiamente nel giudizio sintetico che ne ha dato Maria Giacone: «il
nostro poeta va oltre il consumarsi delle vicende politiche e sociali, pur
scandalose e gravi, e il suo dolore diventa canto poetico proprio perché porta
l’eco universale del sogno umano che avendo costruito illusioni di un mondo più
bello, più giusto, più libero, dopo la “caduta”, si coagula in grumi di
angoscia, per poi erompere in un flusso di protesta e malinconia».
L’arena ideale in cui s’incontrano, confrontano, fondano facendosi versi,
gli umori e i sentimenti del poeta è il paese nativo: Sambuca di Sicilia, nel
versante agrigentino della valle del Belice. «Il forestiero-visitatore che
arriva a Sambuca – si legge in una vecchia guida del 1985 scritta dal compianto
sindaco Alfonso Di Giovanna, amico mio e di Maurici –, sia che giunga
dall’interno della Sicilia (Palermo-Corleone) o dalle strade statali che
costeggiano il Mare Mediterraneo, entra nella cittadina dall’unico ingresso che
storicamente fu la porta principale di Zabut: Porta Santa Maria sulla Via
Grande, oggi Corso Umberto I. Si tratta di un asse viario urbano che taglia in
due parti Sambuca».
È un viale che, nella trasfigurazione lirica di Maurici, segna anche il
confine fra le classi sociali; racconta l’origine stessa di ingiustizie e
prepotenze di ogni sorta, episodiche esplosioni di rabbia e lunghi periodi di
rassegnazione, su cui si è sedimentata da tempo la polvere dell’oblio,
penetrabile solo con gli occhi del cuore di un poeta, che non temano i commenti
malevoli di imbecilli e opportunisti. «Voi che mai in vita», si legge infatti
in una poesia di Maurici, «avete amato col cuore/ ridete del poeta», perché
chiama le cose con il loro vero nome. Il corso Umberto I, quella «strada
diritta e alberata» del «paese diviso a metà», in un’altra poesia di Salvatore,
ha «a sinistra i cittadini onesti/ dall’altra tutti gli altri/ carichi di colpe
antiche/ commessi dai loro avi/testimonianze di antiche miserie/ che il
presente benessere/ non riesce a cancellare».
Sambuca, terra di progenie, santuario della memoria, già «Mosca della
Sicilia», più che alla Itaca di Odisseo, somiglia (per il poeta) al lume
attorno a cui continua a svolazzare la farfalla, pur sapendo che vi si è tante
volte bruciacchiate le ali e che un malaccorto contatto potrebbe incenerirla
dalla testa ai piedi. Sambuca è l’alfa e l’omega per l’appassionato cantore del
riscatto delle bandiere tradite. La Musa che gli suggerisce i versi,
nell’Ottocento bazzicava nelle grotte dei briganti e ai tempi del fascismo,
quando Salvatore (nato nel 1948) era solo un vago progetto nei disegni del
Creatore, si profilava furtiva nelle pagghialore (fienili), dove si riunivano
nottetempo gli artigiani e i braccianti antifascisti del luogo, per cospirare
contro il regime, sotto la guida del perito agronomo Tommaso Amodeo (una delle
massime autorità socialiste del Mezzogiorno) e dei comunisti Domenico Cuffaro,
Giorgio Cresi e Antonino Giacone, destinati ad assumere fin dal 1944 la
direzione primaria del sindacato e del partito nella provincia di Agrigento:
Cuffaro in qualità di segretario generale della Camera confederale del lavoro;
Cresi e, poi, Giacone, come segretario della Federazione.
Figlio di questa terra e di questa cultura, Salvatore Maurici è il
primogenito di una famiglia di umili e onesti lavoratori, allietata dalla
nascita di tre figli. Il padre, Gaspare, allevava pecore di sua proprietà; la
madre, Anna Greco, era casalinga, ma era lei il perno attorno a cui ruotavano
l’economia e la progettualità familiare; lei a programmare attentamente in ogni
fase la crescita culturale e umana dei figli. «Ma i figli crescevano – ha avuto
modo di scrivere proprio Anna nel suo diario, ora inserito nel catalogo
dell’Archivio della Fondazione Diaristica Nazionale di Pieve di Santo Stefano –
e avevamo bisogno di spazio e abbiamo deciso di alzare un altro piano perché
avevamo a mio figlio Salvatore, a mio figlio Pippo [per l’anagrafe Giuseppe] e
la piccola Mariella che fu la gioia di tutti noi. Ma con questa femminuccia mio
marito era felice. Ma a quei tempi non c’erano le macchine e si camminava a
piedi, colle bestie o a piede e mio marito a casa veniva solo per cambiarse e
per la spesa per mangiare e per vedere le sue figli perché gli animali non le
poteva lasciare sole ma cera la festa della madonna e le barbiere erano chiuse
e siccome io quanto mio marito era in campagna io anche chera festa io non
andavo da nessuna parte e questa volta che era venuto non poteva uscire perché
aveva la barba lunga e una santa vicina ci ha dato il rasoio di suo marito e
lui si afatto la barba […]. Ma i miei figli erano bravi e il mio Salvatore era
bravissimo tutti i giorni portava dall’elementare nelle compiti 10 e le lodi».
Non per questo Salvatore, che peraltro conviveva con problemi seri di
salute, poté avere la fortuna di continuare regolarmente gli studi oltre le
classi elementari. Bastò una marachella di poco conto perché il padre se lo
portasse in campagna a guardare le pecore, mentre a suo fratello Giuseppe
consentì di iscriversi all’avviamento professionale, che aveva una sede a
Sambuca. Ma lui, il pastorello forzato, a voler credere a sua madre, «aveva
sempre i libre in mano perché col animale si pascevano sole e lui si sedeva
dietro un pietrone a leggere […]. Lui non frequentava ma tutti i libri di suo
fratello selimparava a memoria perché la sera ci piaceva guardare la
televisione». Ad un certo momento Salvatore decise di non fare più il pastore e
andò a fare il manovale edile. Di lì a poco, sollecitato dai compaesani che ne
apprezzavano l’intelligenza non comune e la grande passione per lo studio, si
iscrisse alla scuola serale. «Il giorno – sono ancora parole della madre – se
ne antava a lavorare con i muratori e al ritorno del lavoro si puliva
esenantava alla scuola serale». Appena un mese dopo sostenne gli esami di
licenza da esterno a Sciacca e li superò brillantemente: «di cento ragazzi fu
il primo e ci hanno dato il diproma […]. Mentre mio figlio Giuseppe – sottolinea,
con un misto di malcelato orgoglio e rammarico, Anna Greco Maurici – antava a
l’aviamento che durò tre anni, Salvatore con un mese di scuola serale si
trovava assieme a suo fratello alla scuola di meccanica e dopo tanti anni di
fare il pastore e ritornato di nuovo a studiare» e a costruirsi un progetto di
vita più consono alle sue condizioni di salute.
Per farla breve, la vita con Salvatore non è stata mai parca di
tribolazioni, nemmeno dopo il matrimonio (1976) e la nascita dei figli
Annamaria e Gaspare, anzi. Basti ricordare che Maria Teresa, la prima moglie
cessò di vivere a 55 anni e la seconda, Simona, da qualche tempo ha bisogno di
particolari cure mediche e assistenza. In compenso, a forza di rinunce e
sacrifici suoi e della sua famiglia, Salvatore è riuscito a conseguire il
titolo di studio che dopo il servizio militare gli consentì di trovare lavoro
come insegnante tecnico-grafico a Mesola e successivamente a Ferrara. «Così di
guardiano di pecore è diventato professore. Ma lui aveva la sua sofferenza e
Dio solo sa quello che ha sofferto nella sua vita». Nel frattempo su Sambuca di
Sicilia e l’intera valle del Belice si era abbattuto come castigo di Dio il
terremoto del 1968, che costrinse la famiglia Maurici a svendere il gregge (che
stavano per rubarle) ed emigrare in Inghilterra, da dove tornerà in migliori
condizioni economiche (grazie soprattutto al lavoro di Anna) alla fine del
1975.
Quasi contemporaneamente Salvatore fu trasferito a Palermo, una sede che
gli consentì di frequentare con una certa assiduità i familiari e i compaesani
e – perché no? – passarvi tutti i giorni di festa e le vacanze estive,
inserirsi attivamente nella sezione socialista di Sambuca, all’interno della
quale prese subito netta posizione per la corrente di sinistra di Riccardo
Lombardi (originario anche lui dell’Agrigentino), nella quale riscontrava le
stesse idee, aggiornate ai tempi, di cui si erano nutriti gli apostoli del
socialismo rurale come Bernardino Verro (cui dedicherà una poesia) e i
sambucesi antifascisti, che sfidano il regime riunendosi nelle pagghialore, cui
accennerà in un piccolo saggio sul banditismo locale, che tra le tante vicende
umane vissute ai margini del consorzio civile, racconta quelle del rozzo
masnadiero Vincenzo Capraro e altre fino allo stermino dei membri della «banda
dei comunisti», che nell’immediato secondo dopoguerra si erano aggregati come
«guardie rosse», per combattere contro i delinquenti che intrallazzavano il
grano. A Palermo Salvatore prese a frequentare la tipografia Lo Studente (con
cui pubblicò alcuni piccoli saggi) e si mise in contatto il gruppo di
intellettuali che si raccoglievano attorno al critico d’arte Francesco Carbone,
fondatore del Centro Studi Godranopoli, cui si deve la realizzazione di un
originale museo etno-antropologico (che documentava la cultura materiale e la
vita quotidiana del mondo agro-pastorale della vasta area di Rocca Busambra) e
la fondazione di una biblioteca popolare e di una pinacoteca d’arte di
transavanguardia, destinati ad attrare, negli anni ’80 e ’90, visitatori di
tutta la Sicilia e anche di altre regioni, tra cui molti artisti, poeti,
animatori culturali.
A metà degli anni ’80 Maurici entrò in rotta di collusione con il suo
partito. Tutto cominciò il giorno di San Valentino del 1984, quando Bettino
Craxi concordò con il Consiglio dei ministri, di cui era presidente, di
tagliare quattro punti percentuali della scala mobile «per il contenimento
dell’inflazione nei limiti medi del tasso programmato per l’anno 1984»,
indicato dall’economista Ezio Tarantelli. E l’indomani emise il decreto legge
n. 10 del 15 febbraio 1984, destinato a passare alla storia come «decreto di
San Valentino». L’impopolare provvedimento sostenuto, oltre che dai partiti
governativi, anche da quelli di destra e dalle organizzazioni dei datori di
lavoro, provocò una profonda spaccatura nella Federazione Cgil-Cisl-Uil, che
culminò nella rottura del patto federativo del 3 luglio 1972: la Cisl e la Uil
approvarono l’operato del governo, la Cgil si dichiarò a maggioranza contraria,
ma la sua corrente socialista si allineò, con qualche dissenso, alle altre
confederazioni.
Ma questo non impedì che la Cgil organizzasse una serie di manifestazioni
in tutto il Paese, culminate nello sciopero generale del 24 marzo 1984 con
concentramento a Roma di un milione di lavoratori provenienti da tutte le
regioni d’Italia, mentre al Senato si stava discutendo della conversione in
legge del decreto di San Valentino, che peraltro decadde per la dura
opposizione comunista. Craxi lo ripropose e lo fece convertire nella legge 219
del 12 giugno 1984. Ai comunisti non restò che raccogliere le firme per indire
il referendum abrogativo, che (dopo una serie peripezie) fu fissato per il 9 e
10 giugno 1985 e ricevette l’appoggio convinto di Democrazia proletaria e, qua
e là, anche di gruppi di socialisti di sinistra. La campagna referendaria non
poté, però, avvalersi della guida di Enrico Berlinguer che, colto da un malore
il 7 giugno 1984 durante un comizio a Padova, cessò di vivere l’11 giugno,
ossia alla viglia della conversione del decreto in legge. Il 18 settembre 1984
tacque per sempre anche la voce critica del Psi: Riccardo Lombardi. Il 27 marzo
1985 le Brigate rosse uccisero il professor Tarantelli. La campagna elettorale
fu perciò particolarmente infuocata.
A pagarne lo scotto furono i comunisti e i loro alleati, sparsi per
l’Italia. Tra questi il nostro Salvatore Maurici, che durante la campagna
elettorale non aveva lasciato nulla d’intentato per far trionfare il sì
all’abrogazione della legge sul taglio dei punti della contingenza. A Sambuca
tenne addirittura comizi assieme ai dirigenti comunisti. E fu espulso dal Psi.
Il provvedimento lo ferì profondamente, come se gli avessero inferto una
coltellata alle spalle trafiggendogli il cuore. Sì sentì per un po’ di tempo
solo, senza santi cui votarsi. Poi cominciò a trovare conforto nella Musa.
Sambuca, Mosca della Sicilia, non era più nemmeno l’ombra della culla degli
antifascisti che si riunivano nelle pagghialore; si era persa la memoria stessa
delle belle feste del 1° maggio: «strade piene di gente/ addobbi di fiori/
rosse bandiere al vento». Sambuca è un deserto, è titolo di una poesia.
«Ovunque morti ammazzati/ la mafia uccide/ gli uomini onesti/ ma qui è un
deserto». E se Sambuca è un deserto, dove nessuno si fa più ammazzare per una
società migliore, la conclusione non può che essere: la rivoluzione è rinviata.
È questo il titolo di una poesia che Salvatore ha scritto assieme a Maria
Giacone, nipote del comunista Antonino Giacone che, già negli anni roventi,
aveva un passato di tutto rispetto.
L’orizzonte culturale di Maurici non coincide tuttavia con i punti focali
del territorio della cittadina natia. È assai più ampio! «La sensibilità ai
temi sociali – scrive Paolo Ferrera –, specialmente nel quadro etico che
riguarda una maggiore giustizia, il desiderio di minore ipocrisia nei
comportamenti, il ripercorrere la sofferenza nel lavoro di cui fa sentire la
dignità, la natura come respiro universale e senso dell’io, fanno di Salvatore
Maurici un autore da guardare particolarmente per quello che è quando scrive,
perché scrive se stesso e nella verità assume di conseguenza le problematiche
portanti che traversano il mondo che non è quello delle apparenze dove tutto si
dice vada bene». Potrei chiuderla qui, se non dovessi aggiungere che Maurici
non è solo poeta della protesta: propugna, con i suoi versi, il riscatto
sociale dei ceti umili delle campagne e della nuova Apocalissi urbana, dove «è
una vergogna/ il lamento di un bimbo/ che ha fame […]. Urla la madre/ e piange
il figlio/ vittima del benessere/ e della droga». Il Nostro consiglia maggior
coraggio e dignità a chiunque soffra, a prescindere da dove viva o il bisogno
di sopravvivenza lo porti. E non è senza ragione se, dopo aver fatto rivivere
uomini e donne delle generazioni passate, negli ultimi tempi la sua vis poetica
si sofferma su drammi attuali. È il caso, fra gli altri, di Destrieri senza
morso, metafora dell’esodo biblico dalla sponda meridionale del Mare Nostro,
che vede vecchi barconi affondare e il mare accogliere «corpi ormai sfatti nel
tempo», e si conclude con questi versi: «A noi/, specchi di orrori/ e di onde
accoglienti cadaveri/ l’impegno di fermare l’eccidio/, apriamo le braccia del
cuore/ e beviamo le lacrime/ dei fratelli smarriti». Insomma, la battaglia per
una umanità più solidale non è ancora finita per Maurici. Grazie, Salvatore.
Giuseppe Oddo, Palermo 15 giugno 2019
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