INTERVISTE
SUL “GIORNALISMO CULTURALE”
a cura di Maria Teresa Carbone
[Con l’intervista a Thomas Migge, corrispondente dall’Italia per la
Radio Austriaca ORF.e la rivista Profil, si chiude l’inchiesta di Maria Teresa
Carbone sul giornalismo culturale contemporaneo. Queste sono le conversazioni
precedenti: Gianluigi Simonetti, Ilaria Feole, Francesca
Borrelli, Andrea
Cortellessa, Paolo Di
Stefano, Giorgio
Zanchini, Valentina
Berengo, Guia Soncini, Goffredo Fofi].
In uno dei
dialoghi precedenti il critico Andrea Cortellessa ha
detto che la definizione di “giornalismo culturale” è superata, perché tutto
quello che dal Settecento in poi associamo all’idea di giornalismo (diffusione,
periodicità, prezzo di copertina) non esiste più. Sei d’accordo? Ti sembra
un’osservazione valida anche per il giornalismo culturale di lingua tedesca?
In Germania e in Austria il
cosiddetto giornalismo culturale gode di salute relativamente buona, anche se
molto lentamente la sua presenza cala nella stampa, alla televisione e alla
radio. Ma esiste ancora – soprattutto nei programmi della televisione pubblica
e nelle radio pubbliche. Qui, in particolare, il giornalismo culturale è
diffuso, perché in Germania non c’è una sola radio pubblica come la Rai in
Italia, ma ogni Land ne ha una, e di conseguenza la quantità di programmi
culturali è grande: alcuni hanno un taglio più generale, altri si concentrano
su ambiti specifici, come la musica o la letteratura. E pure le riviste
culturali sono numerose, sia in Germania sia in Austria. Aggiungerei però che
questa definizione, “giornalismo culturale”, viene spesso utilizzata in modo
piuttosto generico, confermando quindi una crescente indeterminazione
concettuale del termine.
Sulla base delle ricerche
statistiche in Germania si legge molto più che in Italia e i cosiddetti
“consumi culturali” (libri, cinema, teatro, musica) hanno una platea ben più
vasta che da noi. In che modo questo dato si riflette sull’informazione culturale
nei media tedeschi? E in generale, quali sono, secondo te, le differenze
maggiori tra il giornalismo culturale tedesco e italiano?
La tua domanda si riferisce solo alla Germania, ma mi sembra
utile precisare che anche in Austria, secondo le statistiche, si leggono più
libri che in Italia. Se nei paesi di lingua tedesca si abbia anche una maggiore
frequentazione delle sale cinematografiche, è più incerto. Invece, per quanto
riguarda il teatro e la musica (in particolare la musica classica e l’opera),
il consumo culturale è sicuramente più ampio, soprattutto perché i teatri e le
sale da concerto sono più numerosi che in Italia. In Germania e in Austria la
cultura musicale ha una diffusione molto maggiore rispetto alla vostra, ed è
evidente che questa ricchezza si riflette a vari livelli in tutti i media.
Secondo me, però, la differenza più grande tra il giornalismo culturale
italiano e quello dei paesi di lingua tedesca sta nella comprensibilità. Senza
dubbio in Germania e in Austria esiste un giornalismo molto intellettuale,
soprattutto all’interno delle riviste che trattano di letteratura o di
filosofia. In generale, però, anche organi di informazione sofisticati come il
quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung trattano
argomenti specialistici con un linguaggio appropriato, ma comprensibile. Al
contrario, sui quotidiani italiani (per esempio, il Manifesto, ma non solo
quello), mi capita spesso di trovare articoli culturali che anche lettori di
lingua italiana – a meno che non appartengano alla cerchia ristretta dei
“grandi intellettuali” – sono costretti a leggere lentamente o due volte per
capire! Nel giornalismo culturale di lingua tedesca, che si tratti della
televisione o delle radio pubbliche o dei giornali di carta stampata, non ci si
aspetta che i telespettatori, gli ascoltatori e i lettori abbiano conoscenze
ultraspecifiche.
In Italia il “lavoro
culturale” è contrassegnato da una perenne penuria economica. Faccio un piccolo
esempio concreto: a parte il rimborso delle spese, chi interviene ai festival
letterari solo di rado riceve un gettone, mentre in Francia c’è una legge in
base alla quale le rassegne culturali possono chiedere sovvenzioni pubbliche
solo se è previsto un compenso per i partecipanti. Com’è la situazione nei
paesi di lingua tedesca? E qual è il tuo punto di vista su questo tema?
Sicuramente anche nei paesi di lingua tedesca i problemi
economici nel settore culturale esistono, e anzi aumentano, perché si tende a
risparmiare sempre di più. Ma per quanto riguarda i pagamenti degli onorari,
tutto avviene in modo limpido: non può succedere quindi che le persone non
vengano pagate, e questo vale in tutti gli ambiti del giornalismo culturale.
Certo, nel settore privato ci sono datori di lavoro che cercano di ritardare i
pagamenti ai liberi professionisti, ma la legislazione, in Germania come in
Austria, è chiara, soprattutto perché tutti questi rapporti di lavoro sono
regolati da contratti approvati e controllati dallo Stato.
A proposito di festival, in
Italia ce ne sono centinaia: alcuni (cito per esempio il festival di Spoleto,
su cui tu hai scritto un libro) sono dedicati alle arti performative (teatro,
danza, musica) o al cinema, ma molti ruotano intorno ai libri, a partire dal
Festivaletteratura di Mantova, che è stato l’apripista. Com’è la situazione nei
paesi di lingua tedesca? E per quanto riguarda i festival “letterari” italiani,
ti è capitato di seguirne qualcuno? Se sì, cosa ne pensi?
Sì, l’Italia è ricca di festival culturali e artistici: una cosa
meravigliosa, in particolare nei mesi caldi, quando queste manifestazioni si
svolgono all’aperto. Per motivi personali e professionali io seguo
principalmente festival musicali – più che in Italia, dove lavoro come
corrispondente, in Germania e Austria, dove si svolgono numerosi festival di
alta qualità. Qualità alta, va detto, perché in entrambi i paesi, a differenza
di quanto succede in Italia, i finanziamenti vengono pianificati almeno con un
anno di anticipo. Quanto ai festival letterari, li seguo raramente, soprattutto
a Roma.
In Italia si sta
verificando un fenomeno curioso: il giornalismo culturale su carta – tranne
rare eccezioni – si è allineato alla velocità della Rete: gli articoli sono
sempre più corti, nelle recensioni latita l’elemento critico. In compenso su
Internet ci sono riviste online o newsletter dove trovi approfondimenti
interessanti. In Germania è successo qualcosa del genere? Puoi portare degli
esempi?
Questo è un fenomeno molto interessante: in effetti, anche in
Germania le riviste culturali online si moltiplicano. Non parlerei però di una
tendenza alla superficialità del giornalismo culturale tradizionale; anzi,
l’elemento critico viene richiesto, in modo che i testi diventino più
interessanti, appassionanti, provocatori. E questo vale pure per i giornalisti
che lavorano nei media pubblici. A proposito delle riviste culturali tedesche
su carta, quasi tutte hanno un’edizione online, gratuita o a pagamento. Sotto
questo punto di vista, i tedeschi si sono adattati abbastanza rapidamente alle
nuove abitudini di lettura. Ci sono anche diverse riviste solo online che
cercano di finanziarsi attraverso la pubblicità, come la rivista di musica
classica klassikinfo.de,
per esempio. Da parte sua, una delle riviste d’arte più importanti, kunstforum.de,
offre tutti i suoi testi anche online, a pagamento. Del resto, secondo alcuni
studi, da anni il numero di lettori online della carta stampata culturale è in
crescita, anche quando questi media non sono gratuiti.
Di nuovo facendo
riferimento alle interviste già uscite, la critica cinematografica Ilaria Feole ha detto che
sulle “questioni di genere” nei media italiani “c’è davvero ancora tanto lavoro
da fare”, e che ci troviamo di fronte a “un grande problema di superficialità e
di eccessiva semplificazione”. Tu cosa ne pensi?
È indiscusso che i paesi di lingua tedesca sono più avanti su
questo tema rispetto all’Italia. Questo è sicuramente dovuto anche al fatto che
le tendenze politico-culturali provenienti dagli Stati Uniti si affermano
rapidamente, in Germania più che altrove. Il giornalismo culturale, sia
pubblico o privato, non può non tenerne conto: le definizioni di genere, cioè
l’uguaglianza linguistica tra uomini e donne, vengono prescritte dalle
redazioni o comunque gli autori hanno la libertà di utilizzarle come desiderano.
Infine, da qualche anno le
case editrici italiane, anche le più piccole, si dotano della figura del social
media manager per essere presenti su Facebook, Twitter, Instagram e ora anche
TikTok. È così anche in Germania e in Austria? Pensi che i social servano per
la circolazione dei libri e degli oggetti culturali? Al di là dei cliché o dei
pregiudizi, li inseriresti nel perimetro del giornalismo culturale?
È difficile definire se quanto troviamo sui social si possa
considerare giornalismo culturale. Quando questi gestori di social media
presentano libri o dischi online e ne discutono, potrebbero rientrare in questo
territorio, ma di regola si tratta di pubblicità più o meno nascosta. Come
autore di libri, i miei editori tedeschi mi chiedono spesso se non sia disposto
a presentare i miei libri su Facebook. Ma io non lo voglio fare perché non mi
piace pubblicizzare i miei “prodotti”, anche se la maggior parte dei miei amici
sono ben felici di farlo. Comunque sì, in Germania e in Austria anche gli
editori più piccoli dispongono di social media manager, come in Italia. E anche
se io non presento le mie cose, non penso che sia necessariamente un
male perché in questo modo è possibile trovare informazioni su libri che
ci interessano ma che potrebbero sfuggirci nei canali pubblicitari
tradizionali.
Testo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=48683
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