UNA VISIONE DELLA FIGURA UMANA PER IMMAGINI: “CORPS À CORPS”
Fotografie dell’autrice.
“Corps à corps”, a Parigi al quinto piano del Centre Pompidou fino al 25 marzo, è una esposizione che raccoglie 500 opere tra fotografie e documenti, circa 120 fotografi contemporanei e non, e che mette al centro del discorso la figura umana. Nasce dall’incontro di due eccezionali fondi fotografici, quello del Museé national d’art moderne, Centre Pompidou, e quello privato del collezionista francese Marin Karmitz. La mostra, divisa in sezioni tematiche, presenta un percorso inedito che spazia dai classici ritratti e autoritratti a sperimentazioni fatte nel corso di decenni. Si assiste così, sala dopo sala, a una mappatura di oltre un secolo di fotografi e artisti che hanno scelto di mettere davanti al loro obiettivo il corpo umano, la figura umana, creando una sorta di visione antropologica in cui storia e tempo, luogo e spazio, si condensano al corpo ritratto.
La diversità di interpretazione del soggetto mette il visitatore in una specie di caleidoscopio dove dettagli, figure intere, opere stampate o prodotte su piccolissimi o grandi supporti, frammenti, ombre, riflessi, costruiscono un mondo densamente abitato e poliedricamente restituito.
Nella prima sezione intitolata “Les premiers visages”, una costellazione di volti di donne, uomini, bambini, fotografie dagli inizi fino alla metà del Novecento, dove spiccano gli scatti di Man Ray, Paul Strand, Dorothea Lange, Daniel Masclet, insieme a teste di Costantin Brancusi. Risaltano i ritratti di Dora Maar di artisti diversi e i reportage fotogiornalistici di W. Eugenie Smith: volti di minatori segnati dalla fatica e dall’ingiustizia sociale.
La seconda sezione, “Automatisme?”, documenta la passione da parte di molti artisti, soprattutto Surrealisti, negli anni ’20 del secolo scorso, negli Stati Uniti e in Europa per la fotografia automatica, l’autoscatto, e le cabine per fototessera. Una fotografia dunque anonima, senza autore, una cabina che diviene un minuscolo teatro dove mettere in scena una propria rappresentazione fisica. Gli esperimenti, come documentano le immagini in mostra, sembrano disarcionare l’idea di posa fissa e i criteri di rappresentazione di un io immutabile per spingere verso un divertimento indisciplinato e fuori da ogni consuetudine: pose buffe, spettinate, in movimento, smorfie e occhi alla rinfusa. Sembrano surreali e burlone foto segnaletiche della polizia, dove la consapevolezza che non ci sia nessuno dall’altra parte dell’obiettivo fa scivolare tutto in un divertimento anche trasgressivo. Dagli anni ’70 a oggi gli artisti performativi hanno ripreso questa tecnica in modalità anche decostruttiva, sfrondando antichi codici per rimettere in primo piano il discorso della complessità del soggetto.
Questo ci raccontano le opere esposte di Alain Baczynky che a cavallo tra i ’70 e gli ’80 sfrutta il mezzo per mettere in discussione i calcificati stereotipi culturali attraverso una immagine di sé, del proprio corpo-figura, che ammicca a una sorta di terapia psicanalitica attraverso le fototessera. Andy Warhol, in mostra con un magnifico “Self Portrait in Drag”, negli anni ’80 ha strizzato l’occhio moltissimo alla tecnica dell’autoscatto, rivelandoci strategie artistiche e forsanche psicanalitiche estreme.
Come nel primo decennio del nuovo secolo Assaf Shoshan affronta la questione dell’identità documentale, quale tra vari scatti vada ad accertare l’identità in un documento, mettendo nell’opera “T.N. de la série Simplon” l’accento sulla falsa fissità del documento che indentifica. La possibilità di un autoritratto che intervenga a dire chi sia la persona ritratta in quella fluidità di identità di cui si parla da decenni è rappresentata nel percorso espositivo da “27 possibilités d’autoportraits”, del 2007 di Christian Boltanski. La manipolazione dei 27 ritratti in anni diversi attraverso l’inserimento di parti di volto di altri anni, crea un effetto di stratificazione in cui ogni viso, seppure costruito con parti di epoche diverse, è sempre un presente identitario che mescola le carte della propria storia.
La fotografia di strada è nella sezione “Fulgurances”, in cui la visione che coglie il fotografo e lo fa scattare lungo gli spazi di una città è la figura umana: spesso in movimento e non consapevole dello scatto, diviene un uno e non più folla, uno scelto che diventa eterno. Nella metropolitana a New York negli anni ’40 fino a Washington Square nei ’60 attraversando i corpi della prostituzione a Barcellona alla fine dei ’50. Passando per la delicatezza di un Brassaï a Parigi tra gli anni ’30 e i ’40, la sezione si chiude, e un poco si schianta di meraviglia, con “3rd Avenue, New York” di Helen Levitt: attorno al 1942 una giovane donna appoggiata a un muro ricoperto di manifesti pubblicitari, le mani una sull’altra come a tenersi insieme, solo il suo volto illuminato dal sole in una espressione attonita.
La sezione “Fragments” mette in mostra opere in cui non solo i corpi sono scomposti nel loro essere dettagli, frammenti di un tutto, ma anche le inquadrature sono scomposte nella ricerca di schegge di identità. Le opere esposte vanno dal 1887 fino quasi ai giorni nostri e fanno luce su una interessantissima serie di esperimenti in cui, del tutto trasversalmente per tempo e luogo, emerge una spezzatura dell’identità nella sua ricomposizione prossimale, quasi una frantumazione che va a comprovare una disuguaglianza nei rapporti di potere. L’amore per la grazia emerge dalle opere di Dorothea Lange e di Nancy Wilson-Pajic, laddove il gesto e la posa del dettaglio sono correlativo oggettivo di intenzionalità.
“En soi” e “Intérieurs” sono sezioni dove l’obbiettivo è molto
ravvicinato, così in consuetudine col corpo che raffigura da entrare in pensieri e sogni: gli occhi sono la via di accesso, occhi talvolta mascherati, per una fotografia connotata da una semplicità stilistica in cui l’empatia fa da padrona. Gli interni riguardano asili, ospedali psichiatrici, carceri, cimiteri e molti altri luoghi chiusi, in cui le figure connotano il luogo in un continuo scambio di significante e significato. Il lavoro di Leonora Vicuña nelle case dei travestiti nel Barrio Vivaceta a Santiago, facente parte di un lavoro di quattro decenni che dà voce agli emarginati, con il suo intervento a mano con matite colorate sulle fotografie, riporta alla storia cilena di persecuzioni e dittatura fino alla libertà di fotografare fino a dare un nuovo colore alla realtà.
“Spectres” è l’ultima sezione che del corpo umano registra ombre e riflessi, sovrapposizioni e spezzature: la dissolvenza in favore dell’immaginazione, l’ombra che rivela, il riflesso che nasconde. Non si tratta dell’attimo fermato, quanto una trasformazione, un processo, un divenire bloccato per sempre nell’immagine. L’opera esposta di Vivian Maier parla di un’ombra su una saracinesca di una bambina, il movimento dei capelli sulla nuca, il protendersi innanzi. Il futuro.
Sono opere distanti tra loro nel tempo e nello spazio, opere che ci parlano di identità e di umanità attraverso i corpi, corpi interi, frammentati, ombre, intuizioni di corpi, corpi emarginati, reclusi, esclusi, esperimenti e capovolgimenti. Le infinite possibilità della fotografia di raccontare le infinite rifrazioni dell’identità.
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