L’ ULTIMO SPETTACOLO DEI CCCP- FEDELI
ALLA LINEA
di Elisa Poli
“Altre volte, a notte fonda – l’unico momento in cui, con un po’ di
spregiudicatezza o di incoscienza, puoi ignorare sensi vietati e isole pedonali
– avrei attraversato le città che la Via Emilia solca come un’arteria percorre
il corpo umano: sarei partito da Parma, poi Reggio Emilia, poi Modena, infine
Bologna…”
Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno
Wunderkammer bolscevica
L’epilogo è una mostra, l’ultimo spettacolo dei CCCP – Fedeli alla
linea fino all’ultima performance. Sette stanze per sette dischi e un
corollario di ambienti saturati con cimeli, articoli, digressioni, video,
bugiardini e islam. Il tavolo di Togliatti e il culto mariano che, a ben
guardare, non ha mai abbandonato il contro-tempo del loro verbo. Fa freddo come
a Berlino mentre ci si piega ad osservare le bacheche ordinate e pulite,
silenziosamente, senza pogare, a debita distanza dagli altri curiosi erotomani
delle subculture, spettatori mansueti e ingrigiti, in attesa dell’ultima
erezione. Salendo le scale verso la teoria di stanze del primo piano, dove
sacro e profano si fondono, per un breve istante, si respira addirittura
l’atmosfera ruvida e vitale della capitale spaccata dal muro. Una rabbia
miscelata a nostalgia e colpa profuma gli spazi interstiziali del ricordo
sadomaso-fetish. Fatur lo ha definito “basic punk”, Giovanni Lindo Ferretti
“l’ultima delle avanguardie” e Massimo Zamboni ha rivendicato un “non saper
fare niente” espresso dai testi e dalla musica che, durante tutti gli anni
Ottanta, i quattro componenti del gruppo emiliano hanno portato sui palchi
filo-sovietici che dalle feste dell’Unità arrivarono fino a Mosca. Nei loro
spettacoli i CCCP hanno, soprattutto, inscenato improvvisazioni meditate di
estreme virtù e consolidati vizi, attraverso il rigore formale di un ritmo che
incarnava la ribellione di una generazione senza più fiori e amore ma con i
picconi, pardon, i pikkoni, sfoderati per abbattere un muro, quel muro, ma anche
tutti i mattoni delle convenzioni sociali ormai sfibrate dal Sessantotto.
Ciascun componente, in ogni concerto, aggiungeva del suo, dal potere operaio
seminudo di Fatur agli abiti-architetture della benemerita soubrette Annarella
Giudici. E proprio lei, “esecutrice testamentaria” dell’archivio visivo ed
emotivo della band, ha coordinato la selezione di quel prezioso 10% di memorie
che è confluito nella mostra “FELICITAZIONI! CCCP-FEDELI ALLA LINEA 1984–2024!”
ospitata a Reggio-Emila ancora per poche settimane (fino al 10 marzo),
all’interno del suggestivo spazio dei Chiostri di San Domenico. Il titolo tutto
maiuscolo, capitale e marziale, scorre sui cartelloni pubblicitari disseminati
in città come il ritmo degli stivali nella copertina rosso sangue di
Ortodossia, il primo singolo del 1984, un raid aereo e la frase indelebile nei
nostri cuori romantici “Wir sind die Türken von morgen”.
L’esistenza stessa di questo display artistico, curato nei minimi dettagli,
coerente, elegante e intelligentemente in bilico tra modo imperativo e ricordo
plastificato, nega l’ipotesi di un atteggiamento punk ancora presente,
riconducendo il genere che li ha resi noti al solo periodo di attività del
gruppo, durante il decennio di Regan e Gorbachev. Fossero stati veramente punk,
fossero ancora malinconicamente, oggi, punk, i CCCP tutto il loro armamentario
di pezzi di vecchie auto, filo spinato e giacche militari soviet, lo avrebbero
bruciato e si sarebbero ben guardati dall’accettare un dispositivo mortuario
della memoria come la mostra retrospettiva (per quanto non didattica né
cronologica o didascalica). Dalla mostra, che tradisce una cultura visuale nutrita
con dovizia durante gli ultimi due decenni, emerge, piuttosto, la giusta
distanza che, sin dall’inizio, l’esperienza dei CCCP aveva posto tra sé e
l’ideologia politica rappresentata dal PCI. Un overload costante che apre
brecce di leggerezza nell’ortodossia estremista sempre rivendicata. Ed una
grazia poetica incarnata in modo sublime nella sala dedicata agli scatti
inediti di Luigi Ghirri che ha colto con esattezza le vene violacee d’intonaco
scrostato e l’odore di stalla della cascina-collettiva (ma una cascina è
collettiva per definizione) in cui i quattro artisti abitavano, in un tentativo
per cui dovremmo rendere lode, di portare Berlino in Emilia. Il catalogo che
resta, come “guida turistica” al vagare ipnotizzato tra vecchie tv e glory hole
nel backstage del servizio fotografico di cui sopra, vale come ultimo singolo o
summa teleologica di ciò che non ritornerà. Il punk è morto e svetta ben
imbalsamato alle pareti del teatrino che fece da quinta anche alla saga
equestre della Corte Transumante di Nasseta, libera compagnia di uomini e
cavalli ideata da Ferretti.
Zeitgeiste ragù
Essendo nata a Bologna, proprio allo scoccare dei fatidici anni Ottanta, ho
scoperto in tenera età che, nonostante la progressiva attenzione mediatica
verso il fenomeno urbano americano degli yuppie, ai bambini della mia
generazione, nell’estensione territoriale che sulla mappa del Risiko nostrano
era posseduta dall’armata rossa, prima regalavano la tessera della Coop (logo
d’ispirazione dei CCCP), poi facevano la carta d’identità. Sarà per questo che
mi diverte vivere, oggi, in una città in cui il re Mida della grande
distribuzione ha scritto un interessante volumetto dal titolo Falce e carrello,
in omaggio alla sfida titanica tra consumo liberale e spesa sociale ma,
soprattutto, tra regioni azzurre e zone rosse del bel paese, dove nel banco
frigo degli ipermercati si trovavano ancora paffuti infanti precotti e pronti
da mangiare. Nel 1984 c’era molta confusione sotto il sol dell’avvenire e non
soltanto a causa della morte di Berlinguer e della scoperta della Loggia P2,
del nuovo concordato tra Stato e Santa Sede che aboliva il cattolicesimo come
religione di stato, ma anche per la compresenza al botteghino di film
come Bianca e Indiana Jones, il primo
lungometraggio di Von Trier e L’allenatore nel pallone, climax
interpretativo di Lino Banfi. Mia nonna ascoltava Albano e Romina a Sanremo,
mio fratello Zen Arcade degli Hüsker Dü e mia madre Born
in the U.S.A. del re della working class americana, il muscolare Bruce
Springsteen. Nel 1984, CCCP, per i ben informati, era solo la sigla in
cirillico dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e a Berlino il
muro svettava ancora a dividere due ideologie inversamente resistenti all’urto
della perestrojka: Postdamer Platz a ovest e Karl-Marx-Straße a est. Cimeli un
po’ sbiaditi della DDR, mescolati a residui bellici nostrani, alle giubbe da
marine, alle spille di Mao e alle pellicce in pelo di gatto di nonna Speranza
in naftalina, si trovavano sui banchi inondati d’incenso della Montagnola,
mercato delle pulci e punto apicale involontario della contro-cultura emiliana,
situato tra la stazione centrale di Bologna, sfregiata indelebilmente proprio
nel 1980 dalla famosa bomba, e l’Arena del Sole, che avrebbe ospitato pochi
anni dopo la culla dell’hip-hop italiano: L’Isola nel Kantiere. Dalla
via Emilia all’Est c’era ancora un lungo tragitto e la città mediana
della pianura padana, Reggio Emilia, oltre che per il parmigiano, era famosa
più che altro per aver dato i natali a Nilde Iotti, icona matriarcale presente
nell’album di volti sovietico-sentimentale in mostra. La storia dei Fedeli alla
linea era appena cominciata.
Unter der Lindo
Il DAMS era nato nel 1971, da una costola di Lettere classiche, per opera
del grecista, Benedetto Marzullo, e l’anno successivo, quando Ferretti
s’immatricolò, a insegnare nel rivoluzionario corso di laurea
dedicato alle Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, erano già arrivati i
vari Anceschi, Arcangeli, Banfi, Eco, solo per citare le prime lettere
dell’alfabeto intellettuale che la Rossa sfoderò in quegli anni. Il capoluogo
emiliano catalizzava una congerie di esperienze originali e le ridistribuiva al
pubblico, filtrate attraverso l’ontologia dei professori-militanti e l’estetica
delle subculture artistiche. “Mi sono iscritto alla città di Bologna” ha
commentato Ferretti nell’intervista per le celebrazioni dei cinquantenario del
DAMS, stabilendo come la sua toponomastica emozionale superi di gran lunga il
valore dell’istruzione accademica, anche se di accademico, in quegli anni, Via
Zamboni 38, aveva ben poco. Scartate Napoli e Venezia, uniche destinazioni
italiane per un appassionato di lingue orientali, ma incapaci per ragioni
opposte di generare la meraviglia nel giovane di Cerreto Alpi, restava la meta
più vicina a casa, con le mattine a distribuire Lotta continua a
Zola Predosa e le lezioni del grande etno-musicologo Roberto Leydi, il cui
lavoro di riproposizione delle tradizioni musicali italiane dovrebbe già darci
la cifra di quanto sia parziale identificare i CCCP (o almeno il percorso
musicale di Ferretti) esclusivamente con il punk. Massimo Zamboni però a
Bologna nel 1972 non c’era e dovevano passare ancora alcuni anni prima che i
due membri fondatori dei Fedeli alla linea s’incontrassero
nelle retrovie di un poco raccomandabile locale berlinese. Tra i suoi numerosi
viaggi in autostop, nel 1980 Ferretti arriva a Berlino, forse anche per
scrivere quella famosa tesi “sul campo” dedicata all’esperienza punk ma,
soprattutto, per divincolarsi dal “ghetto culturale” rappresentato da Bologna,
dove tutti si somigliavano, secondo il vaticinio di Orson Wells che attribuiva
la più riuscita arte italiana alla fecondità delle più atroci guerre intestine.
Il Paese dei balocchi rossi portava con sé il rischio dei “ciucchini” tutti
uguali. Fin dall’inizio per i CCCP la politica è stata una dimensione sociale e
non fideistica “non è una religione ma una necessità di sopravvivenza” dichiara
Ferretti nel sublime documentario di Germano Maccioni (2013). Chissà
cos’avrebbe detto Suor Aurelia Strozzi, educatrice del collegio di Roncolo,
alle cui cure cui si deve l’intonazione musicale del piccolo Giovanni, se lo avesse
visto ribelle e squassato nei centri sociali maleodoranti di Berlino ovest, lei
che lo aveva portato bambino al cospetto di Mago Zurlì. Ultimamente ci si è
concentrati molto sull’immaginario politico ma anche sull’apparenza fenomenica
del gruppo, tralasciando, appunto, la musica, da cui tutto è partito, con i due
ragazzi ossuti, uncompromised (e non negatemi la bellezza di questo termine
inglese), scivolati per un caso che si è fatto destino, impegno,
consapevolezza, sulla scena più cruda d’Europa, trascinata nella ribellione
contro lo status quo. In un’intervista a Tropical Pizza, Max
Collini descrive la generazione dei cantautori degli anni dieci del nuovo
millennio come più intimista, distaccata dal racconto sociale e collettivo,
come a segnare un margine spesso di distanza tra i gruppi impegnati, di
sinistra e quelli più narcisisti e commerciali dell’era Tik-Tok. Lui lo diceva
con curiosità e piacere ma trapelava comunque una leggera e comprensibile vena
di giudizio. Eppure, anche molti capolavori dei CCCP sono liturgie laiche da
ripetere nell’intimità del proprio confessionale domestico fino all’esaurimento
della voce: sono la terapia, sono la terapia, sono la terapia. Al punto che,
forse non comprendendo la gravità del senso di una morte familiare avvenuta nel
1987, Amandoti è finita recentemente proprio sul palco di
Sanremo, come ballata d’amore tra un maestro capellone e il suo discepolo
rasato, dopo la più nota e interessante interpretazione di Gianna Nannini del
2004. Ma quanti strati di senso emergono oltre il suono, rileggendo il Libretto
rozzo, vangelo apocrifo del gruppo, e quanta arte performativa nei loro
concerti, che oggi si è persa, appiattita e impoverita nelle pose da autoscatto
digitale del glam. È il nostro occhio di spettatori tecnologici che filtra
soltanto il fascino delle uniformi da lavoro sui corpi ancora interessanti dei
quattro emiliani (riduzione in cui pare sia incappato anche san Wim Wenders con
il suo attore nel suo giorno perfetto nipponico) a resuscitare l’erotismo di
tre signori leggermente attempati; Annarella no, l’archetipo di ogni ironia
dell’apparire avrà sempre l’età del primo giorno in cui entrò nel gruppo. È il
concerto finale di Berlino, semmai, più che il merchandising, a far sorgere il
sospetto di un modo per derubricare la scelta tassidermica d’incorniciare al
muro gli sputi e le urla di quarant’anni fa quando, davvero, Giovanni Lindo
Ferretti, contro qualunque vocazione od intenzione, ammaliava le platee con la
sua voce profonda e la sua sagoma filiforme. Qualcuno dovrebbe dirglielo a lui
e a Zamboni che erano molto sensuali quando si esibivano al Kob nel 1983.
Matrioska emiliana
“Berlino era una città da sogno, consumista e occidentale all’interno del
sistema comunista, una grande prigione che era il luogo più libero del mondo”,
descrive Ferretti in più occasioni dall’altura spirituale della sua casa
appenninica che, si sente, lo ha tenuto ancorato e stabile, ogni volta che
volava giù da un palco, fino a richiamarlo definitivamente, sulla costa che
dalla maremma dipana in Emilia. Ritorno necessario per uno che si rivede con
gli occhi materni, ripensandosi in quegli anni di gioventù e autostop con
piglio impietoso “io ero una delusione totale in atto”. Un νόστος verso le
maestranze del vivere antico, così sensato da chiedersi come mai non sia un
rito collettivo obbligatorio, almeno nel nostro paese fatto di province, città
minori e piccoli paesi, villaggi abbandonati fuori dalle rotte del turismo
globale. L’Appennino è una dimensione specifica, non è montagna né collina,
bisogna percorrerlo con la dovuta lentezza, starci, per capirne l’unicità.
Spina dorsale d’Italia, orizzonte che guarda al di là, dialetti che si
susseguono diversissimi, firmamento di piccole storie punteggiate tra le valli
e i torrenti. La competenza dei mestieri che qui sopravvivono è fatta ancora di
corpi e di riti abbastanza profondi da apparire quasi semplici. Per chi
nell’Appennino ci ha abitato, e non di passaggio, viandante, ma radicato con lo
stomaco e il cuore, la messa della domenica è l’evento sociale più
significativo, la chiesa il rifugio della collettività, porta sempre aperta
anche nelle notti senza stelle. Con tutte le dovute differenze di vedute,
specialmente sulla legittimità della gestione del mio utero, è difficile non
rimanere impressionati dalla coerenza di Ferretti, non soltanto nell’oggi,
almeno nelle interviste vissuto come pacificato e sereno, ma nella transizione
di ieri, quando scemata la rabbia è finito anche lo spettacolo e, caduto il
muro, anche la fascinazione per la capitale tedesca. Coerenza di tutti e
quattro e per questo sì, felicitazioni! Ma, con tutto l’affetto possibile verso
Emilia paranoica, il vero testamento resta necessariamente dentro ai versi
dello stare, come le cose che stanno, incastonate le une nelle altre, tesori di
plastica negli abiti da scena della benemerita soubrette. L’ultimo testamento
non è la mostra ma Annarella.
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