Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi
GIUSEPPE MURACA
Con la pubblicazione del libro Cristo
si è fermato ad Eboli Carlo Levi salì nell’immediato dopoguerra alla
ribalta nazionale e internazionale provocando un vivace dibattito politico e
letterario. Nato a Torino nel 1902 in un ambiente familiare di origine ebraica
e influenzato dalle idee liberal-socialiste (la madre Maria Treves era sorella
del dirigente socialista Claudio Treves), egli nel 1918 conobbe Piero Gobetti
con cui strinse una profonda amicizia: infatti collaborò alle sue riviste
«Energie nuove» e la «Rivoluzione liberale». Il libro venne scritto a Firenze
fra il mese di dicembre del 1943 e il mese di luglio dell’anno seguente durante
la sua clandestinità di sorvegliato speciale del regime nazi-fascista e
pubblicato nel 1945; quindi è un’opera che non è nata dal nulla, bensì dopo più
di un ventennio di attività pittorica, letteraria e politica da parte
dell’autore come oppositore politico del regime fascista e un processo di
riflessione sul destino dell’uomo e del mondo.
Cristo si è fermato ad Eboli, che
venne accolto con grande favore da un ampio pubblico di lettori e
successivamente tradotto in molte lingue, è un libro molto complesso,
difficilmente catalogabile, che testimonia del legame profondo che si è
istituito fra l’autore e il mondo contadino durante i mesi del confino in
Lucania, un’opera autobiografica che trae ispirazione dalla sua esperienza
soggettiva. Diciamo che si tratta di una via di mezzo fra l’indagine
sociologica e il saggio etnografico e antropologico, resa singolare da un’alta
qualità letteraria. Rocco Scotellaro lo ha definito “Il più appassionato e
crudo memoriale dei nostri paesi”. In Cristo si è fermato è fermato ad Eboli
quindi è lo stesso Levi che parla e che scrive, senza fronzoli e senza infingimenti
letterari. L’io narrante è un medico (anche se non esercita la professione da
anni) e un pittore che viene catapultato dalle autorità fasciste a Grassano, in
Lucania. La storia si svolge ai tempi della guerra d’Abissinia e del massimo
consenso del regime fascista e il libro non è altro che un viaggio di scoperta
di un mondo oltre-confine, sconosciuto all’autore e immobile in uno stadio
preistorico. Sin dal suo incipit l’autore traccia questa linea di demarcazione
che divide il Nord dal Sud e pone l’accento sulla condizione disumana dei
contadini:
– Noi non siamo cristiani, – essi
dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro
linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere,
nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato
complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo
considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le
bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o
angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di
là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un
senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello
letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno
abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre
di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né
l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti,
la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i
romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle
foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno
degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che
si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su
se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un
nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica
contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o
divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso
linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non
sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri
della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della
redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per
romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra
oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un
dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo
si è fermato a Eboli.
Dopo un breve periodo trascorso a
Grassano, Levi viene trasferito dalle autorità ad Aliano (Gagliano nel libro,
secondo il dialetto del luogo) dove trova sistemazione a casa di una vedova.
Appena giunto a destinazione, lo scrittore torinese capisce subito di essere
capitato in un mondo segnato dalla miseria, dalle ingiustizie, dalla malattia e
dalla morte. Sin dal suo arrivo egli viene convocato da alcuni contadini perché
si prenda cura di uno di loro in fin di vita a causa della malaria, una
malattia che colpisce i lucani sin da bambini. L’uomo muore ma lui subito gode
della fiducia dei contadini che lo considerano come un buon cristiano. In paese
ci sono due medici, però completamente ignoranti, che non godono però della
loro fiducia. Sin dalle prime pagine vengono denunciati i mali che affliggono
le popolazioni meridionali (miseria, emigrazione, analfabetismo, malaria), ma
esse mancano di una vera e propria coscienza politica
perché sono, in tutti i sensi del
termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono
aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale,
né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli
spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee.
E ancora:
Nel mondo dei contadini non c'è
posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la
religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è,
realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come
la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei
riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli
infiniti terrestri dèi del villaggio.” P. 102
Nella storia dell’umanità
“I contadini lucani nella loro
secolare storia hanno avuto tre guerre collocate nel tempo, la prima delle
quali fu contro i greci che conquistarono queste terre. Da un lato c'erano gli
eserciti organizzati degli Achei con le loro armi; dall'altro i contadini con
le loro scuri, le falci e i coltelli. La seconda guerra fu quella contro i
Romani che permise la diffusione della teocrazia statale con tutte le sue
incomprensibili leggi. Infine la terza e ultima fu quella dei briganti: i
contadini non avevano cannoni come "l'altra Italia" che li stava
sottomettendo, ma avevano la rabbia dovuta alla povertà, all'emigrazione,
all'ingiustizia sociale che il nuovo stato savoiardo stava perpetrando nelle
terre meridionali.”
Lo Stato viene considerato dai
contadini come un ente estraneo, nemico. Lo Stato si è completamente
dimenticato di loro e si ricorda della loro esistenza solo quando deve
infliggere nuove tasse:
“Per la gente di Lucania, Roma non
è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e
malefico.” (P. 108)
Che cosa avevano essi a che fare
con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono
«quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da
cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato.
Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.” “Per i
contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre
dall'altra parte.” Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua
struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono [...] La sola
possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione,
la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro
schiene sotto i mali della natura. (p.71)
Quello contadino è un mondo
immobile, sempre uguale, senza speranza, segnato dalla rassegnazione e dalla
vanità delle cose e dalla potenza del destino, in contrasto con il mondo dei
signori. E in quel mondo chiuso attecchiscono i tabù e i pregiudizi secolari.
Ma quando, dopo infinite
sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso
elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e
non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non
conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti
difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei
contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si
trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva
fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono
sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria
natura, contro quell'altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla,
eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei
briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza
esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono
sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia,
eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le
sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.” P. 122
Come è stato sottolineato “il mondo
di Galiano si configura come un universo spaccato; da una parte i contadini, i
poveri, gli umiliati; dall’altra i signori ovvero i rappresentanti di una
piccola borghesi intristita, marcia, che vive dei propri risentimenti, dei
propri rancori, e soprattutto è caratterizzata da una meschina, repellente
disumanità […] La separazione tra signori e contadini è per sua natura
insanabile (Mario Miccinesi, p. 65). I signori partecipano alle vicende
politiche del paese, mentre i contadini si chiudono nella loro indifferenza.
Così sono sempre le violente ed
effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e
potente affiora, per un motivo umano; e si dànno al fuoco i casotti del dazio e
le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una
ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere,
indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.”
P. 201
E l’autore quasi alla fine del
libro boccia tutte le “ricette” politiche volte a risolvere la questione
meridionale e ad un certo punto afferma:
Il problema meridionale non si
risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo
radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo
creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo
Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro
necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno:
ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che
finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma
soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento. Bisogna
che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può
più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme
tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale.
Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto
d'individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto
di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà
vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato.
L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i
rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non
esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella
loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per
esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica. che va
inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica
strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo.
Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di
infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello
Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita
collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. P. 210
Il libro si conclude con l’addio
dell’autore alla comunità dei contadini che lo ha accolto con amore e
gentilezza e con il suo ritorno a Torino in treno.
La critica ha ormai messo in luce i
caratteri singolari del libro, ma su un punto bisogna essere chiari, e cioè che
si rischia di non capire il senso dell’opera se non si tiene conto della
posizione politica di Carlo Levi, della sua appartenenza al Partito d’Azione e
della sua netta opposizione al regime fascista. Egli crea una rappresentazione
mitica della civiltà contadina, ma al tempo stesso scrive un libro di denuncia
e di alta letteratura sulla condizione di immobilismo, di arretratezza e di
miseria in cui versava il mezzogiorno d’Italia e della mancata volontà da parte
della classe dirigente di affrontare dal punto di vista politico la questione
meridionale. Il dibattito che si è sviluppato nel dopoguerra sull’opera e le
idee di Carlo Levi è stato abbastanza variegato ma tutti si sono hanno
sottolineato l’importanza di Cristo si è fermato ad Eboli. Le maggiori riserve
sono venute da parte comunista, e in particolare da parte di Carlo Muscetta,
che in seguito ha in parte corretto il suo iniziale giudizio negativo, e da
Mario Alicata che ha scritto il saggio Il meridionalismo non si può fermare ad
Eboli, che polemicamente ha sottolineato quelli che a suo avviso sono i limiti
politici del meridionalismo leviano.
Ora che il mondo descritto e
narrato da Carlo Levi non è esiste più da tempo che cosa ha da dirci il suo
libro? Esso deve essere considerato una delle massime testimonianze letterarie
e politiche su di un mondo perduto per sempre.
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