Bisogna rileggere Danilo Montaldi a partire da questo libro. Egli è stato uno dei primi a capire le grandi trasformazioni che stava subendo l' Italia durante il boom economico.
L’editore Donzelli ha ristampato Milano, Corea di Franco Alasia e Danilo Montaldi, con una introduzione di Guido Crainz (Roma, 2010). La prima edizione venne pubblicata nel 1960 da Feltrinelli che nel 1975, pochi mesi dopo la morte prematura di Montaldi, in una nota alla seconda edizione accresciuta spiegò la genesi del libro.
Negli anni del miracolo economico milioni di italiani abbandonarono le aree più depresse del nostro paese e si indirizzarono verso le regioni più sviluppate del nord in cerca di fortuna, attratti dalle sirene del neocapitalismo. Città come Torino, Genova e Milano divennero la meta preferita di questo esodo biblico: in pochi anni il numero dei loro abitanti crebbe sensibilmente causando una serie di conseguenze che si trascineranno per molto tempo. Giornalisti, scrittori cineasti guardarono con particolare attenzione questa realtà drammatica. Nacquero le prime inchieste giornalistiche e sociologiche. Nel 1959 Danilo Dolci propose a Feltrinelli un libro d’inchiesta sugli emarginati e i vinti (operai, disoccupati, venditori ambulanti, cameriere, prostitute) della città di Milano con le storie di vita appena raccolte da Franco Alasia, uno dei suoi allievi e dei suoi principali collaboratori. Dopo un periodo di riflessione, l’editore milanese decise di affidarne la cura a Danilo Montaldi che si era fatto conoscere per aver pubblicato su varie riviste alcuni saggi particolarmente innovativi e significativi, il quale scrisse una lunga introduzione analizzando le varie sfaccettature di quel particolare fenomeno. Da questa collaborazione nacque, appunto, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Il libro resta il frutto di un lavoro paziente e scrupoloso condotto sul campo con il metodo della con-ricerca ed è ispirato non solo a un semplice bisogno di denuncia sociale ma anche ad un’ottica antagonista.
La novità della ricerca salta subito all’attenzione del lettore, e non solo dall’introduzione. Le storie di vita raccolte da Franco Alasia vennero trascritte fedelmente, cioè senza alterare la lingua degli intervistati che diventano i veri protagonisti del libro. Esse ci raccontano, in modo lucido e penetrante, l’altra faccia del boom, un’Italia diversa, distante anni luce da quella ufficiale. Non più storia dei ceti dirigenti, quindi, bensì dei “senza storia”, delle classi mute, a cui finalmente Alasia e Montaldi danno la parola, e fanno emergere dal silenzio e dall’oblio. I due ricercatori gettano il loro sguardo penetrante su Milano ma per mostrarci i lati sconosciuti e più oscuri della metropoli lombarda, gli aspetti più crudi e più drammatici della realtà neocapitalistica, le contraddizioni del boom economico. “Qui, a Milano”, scrisse Montaldi nella Premessa, “arrivano gli immigrati. Quanti sono i contadini in Italia che sognano di vivere a Milano? L’immigrato ancora non si esprime. Però può raccontare la propria storia. Ne arrivano, ogni giorno, da anni. Per quasi tutti la speranza si arena al capolinea del 15, del 16, dell’8, del 28; all’Albergo Popolare; in Corea. La città di Milano è investita da queste correnti; qualcuno ha voluto risalirle, per conoscere”.
I luoghi di origine e di provenienza degli immigrati sono diversi (il Polesine allagato dalle piene del Po, il Veneto povero, le province spoglie dell’Italia centrale, l’Italia insulare e il mezzogiorno contadino, usciti sconfitti dalle lotte per la terra e delusi dalla riforma agraria), ma a spingere tanta gente verso il cuore del miracolo (Milano, Genova e Torino, ma anche le altre città del triangolo industriale) è lo stesso sogno, la ferma volontà di uscire dalla condizione di miseria e di conquistare una migliore condizione di vita e di lavoro. Però, giunti a destinazione, essi sono costretti a scontrarsi con una cruda realtà e ben presto si accorgono di trovarsi in una realtà ostile, alienante e emarginate, cioè di non essere approdati nella “capitale del benessere”, bensì in Corea. In effetti, Milano (come le altre città del nord) era completamente impreparata ad accogliere un afflusso così elevato di persone: mancavano gli alloggi e le strutture di accoglienza mentre l’assistenza e le strutture scolastiche erano molto carenti. In quel periodo il tessuto urbano subì delle profonde modifiche e nelle periferie milanesi nacquero le “coree” (vennero chiamate così perché comparvero ai tempi della guerra di Corea), quartieri disseminati di costruzioni di fortuna costruite per lo più con materiale di riporto dove gli immigrati investivano tutte le loro fortune. “La Corea nasce come un insieme di casette monofamiliari popolate al massimo, esempi di architettura spontanea, col tetto quelle dei veneti, a terrazzo quelle dei meridionali […]”. Considerati clandestini dalla legge contro l’urbanesimo, varata dal regime fascista nel 1939 (che venne abrogata soltanto nel 1961), la vita degli immigrati assomiglia il più delle volte ad un vero e proprio calvario, contrassegnata da ritmi di lavoro massacranti, dall’emarginazione, da sacrifici, privazioni e ingiustizie di ogni genere. Il lavoro tanto desiderato non sempre si riusciva a trovare per cui si era costretti ad affidarsi alle cosiddette “cooperative”, strutture illegali poste fuorilegge nel 1960. Alasia e Montaldi concentrarono la loro attenzione principalmente sul capoluogo lombardo ma il loro discorso può valere anche per le altre città del triangolo industriale. Negli anni sessanta e nei primi anni settanta Milano, Corea godette di una certa fortuna nell’ambito dei gruppi della nuova sinistra e ancora oggi conserva tutto il suo valore e resta uno dei pochi libri scritti a caldo che ci aiutano a capire il mondo dell’immigrazione, non solo l’Italia del boom economico ma anche quella di oggi.
GIUSEPPE MURACA
“Intellettuali/Storia”, 2011.
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