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Disperdere il potere come antidoto alle guerre
Nei mondi nuovi che in questo momento fatichiamo e immaginare e desiderare non c’è solo il rifiuto della guerra ma anche della sua preparazione. Non ci sono strategie dal basso per prendere il Palazzo d’Inverno, ma la forza dei piccoli gruppi tra loro legati. Non ci sono neanche eserciti di difesa, il cui fine ultimo resta sempre l’esercizio della violenza. Cade, infine, la separazione tra la nonviolenza come mezzo e la nonviolenza come fine, del resto non ci sono poteri da conquistare o difendere. In quei mondi nuovi che fatichiamo e immaginare e desiderare il “potere su qualcuno” viene messo in discussione, per dirla con Capitini, dall’omnicrazia, “il potere di tutti”, cioè dalla capacità di fare dei cittadini che smettono di delegare e scelgono di creare, qui e ora, comunità diverse, per quanto inevitabilmente fragili. Una rilettura del Poteri di tutti di Aldo Capitini, ancora drammaticamente attuale
Aldo Capitini – scrive Norberto Bobbio nell’Introduzione a Il potere di tutti evocando l’XI Tesi di Marx su Feuerbach – “legge e discute i filosofi, ma mira a trasformare il mondo non a interpretarlo”: ne identifica e denuncia le insufficienze e ne propone una visione alternativa, non da utopista, quanto piuttosto da “profeta”. L’utopista e il profeta, due figure che gettano lo sguardo sul futuro diverso possibile, ma con approcci radicalmente diversi: “Il profeta, in quanto volto alla realtà da liberare, è proteso verso il futuro – scrive ancora Bobbio – Anche l’utopista guarda al futuro. Ma il profeta non è l’utopista. La differenza sta in ciò: mentre l’utopista disegna una stupenda struttura di società ideale ma ne rinvia l’attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito, qui ed ora”. Aldo Capitini, in questo senso, è stato un infaticabile profeta.
Il Potere di tutti è il libro postumo di Aldo Capitini (pubblicato per i tipi de La Nuova Italia nel 1969) contiene un saggio incompiuto dal titolo significativo di Omnicrazia – neologismo capitiniano composto dalla parola latina omnis (tutti) e da quella greca kratos (potere) – gli articoli usciti sul periodico Il Potere è di tutti tra il 1964 e il 1968 e le Lettere di religione, lettere circolari diffuse tra gli “amici della nonviolenza” dal 1951 e il 1968. Non si tratta quindi di un lavoro sistematico, ma di un insieme di scritti che richiamano e riepilogano i temi affrontati nell’itinerario intellettuale del filosofo perugino (per la ricostruzione del quale rimando a Pasquale Pugliese, Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini, GoWare, 2018), intersecati in riferimento all’analisi del rapporto tra potere e violenza. Non una ricerca sociologica, ma l’indicazione del percorso – teorico e pratico, religioso e politico, individuale e collettivo – per l’apertura del potere nell’omnicrazia e il superamento della violenza con la nonviolenza.
I libri più recenti di Capitini prima di questo erano stati La compresenza dei morti e dei viventi (1966), Le tecniche della nonviolenza (1967), Educazione aperta (1968): i temi affrontati in questi libri precedenti – come nei coevi articoli pubblicati su Azione nonviolenta, la rivista del Movimento Nonviolento, fondata anch’essa da Capitini nel 1964 – si ritrovano intrecciati nell’elaborazione capitiniana sul potere di tutti.
Si tratta di una prospettiva che sembrava poter trovare un inveramento negli anni della “contestazione” delle strutture di potere e delle aperture dell’epoca – dal disgelo tra Est ed Ovest al Concilio Vaticano II, dalle lotte per i diritti civili con Martin Luther King negli Usa a quelle per l’obiezione di coscienza in Italia – che quegli scritti anticipavano e accompagnavano, ma che ha una forza profetica rispetto al nostro presente (“una profezia per il presente”, la definisce Capitini), nel quale le democrazie anziché un’evoluzione partecipativa stanno subendo una involuzione autocratica e la violenza della guerra, oltre che a dilagare perfino in Europa, è tornata a farsi anche minaccia nucleare. E le due cose sono collegate: la preparazione della guerra cementa poteri senza controllo che rispondono solo a chi dalle guerre trae beneficio. Per questo “il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso” – è la tesi di Capitini – anche per la declinazione di un potere differente. Tracciamone dunque – tra e con le sue parole – il sentiero che lo dimostra.
La dimensione dei tutti
Partiamo dalla dimensione dei tutti evocata dall’omnicazia: essa non rappresenta solo un elemento quantitativo, ma hegelianamente di trasformazione qualitativa. “Se si raggiunge l’orizzonte di tutti, c’è un cambiamento di qualità e non semplicemente di quantità”, scrive Capitini. Questo salto qualitativo avviene attraverso la capacità di dare il tu a tutti, ossia con il realizzarsi per ciascuno di un triplice riconoscimento nell’Altro: della responsabilità personale nei suoi confronti, chiunque egli sia (nella quale sembrano risuonare echi levinasiani dell’incontro con il volto dell’altro); del contributo di ciascuno alla realizzazione dei valori, perché tutti vi mettono intimamente qualcosa, e, contemporaneamente, del nesso profondo che col-lega tutti e supera, nella visione capitiniana, anche il fatto della morte. Questo riconoscimento profondo di tutti è il nesso intimo che definisce la compresenza dei morti e dei viventi e fonda la realtà di tutti: si tratta della dimensione religiosa, che attraversa tutta l’opera di Capitini e che non possiamo approfondire qui se non per dire che ha un valore non metafisico, ma etico ed etimologico. Ossia rimanda all’esperienza religiosa come legame che unisce, nel profondo, tutti, i vivi e i morti.
Riassumendo quanto scritto fin qui, l’aprirsi di ciascuno alla dimensione dei tutti ne modifica la modalità di stare al mondo, la postura etica, non solo sul piano intimo e personale ma sul piano politico e sociale, sia nei mezzi che nei fini. Aprendo in questo modo la prospettiva della nonviolenza, come spiega Aldo Capitini:
“Abbiamo visto concretarsi una posizione nuova, che è dell’interesse sommo, della passione per la realtà di tutti, dell’apertura alla compresenza: se questa passione diventa centrale nel proprio animo, avviene una rivoluzione interna o conversione o trasformazione della coscienza e della stessa psiche, dei sentimenti e abitudini dell’individuo. Nel suo agire in mezzo agli altri, egli ha un modo per manifestare questa trasformazione interna che sta avvenendo in lui, e questo modo è l’interesse aperto e visibile per la nonviolenza, nella complessità progressiva delle sue realizzazioni, delle sue acquisizioni, delle sue conquiste”.
La guerra e i limiti della democrazia
L’entrare in scena della nonviolenza rimette in discussione tutto, anche la democrazia, il potere della maggioranza, che, vista in riferimento ai poteri assoluti del passato, è un avanzamento, ma vista in riferimento al potere di tutti manifesta evidenti limiti e insufficienze. Che è lo stesso Capitini ad elencare, facendone una critica tanto lucida quanto serrata:
“La democrazia attuale attribuisce alla maggioranza un potere che qualche volta è eccessivo rispetto ai diritti delle minoranze; fa guerre di Stato contro Stato; conferisce alle polizie il potere di torturare (come avviene in tutti Paesi) e molte volte un soverchio intervento nell’ordine pubblico; non è sufficientemente aperta a ciò che potranno dare o vorranno essere i giovanissimi e i posteri; preferisce strumenti coercitivi e repressivi a strumenti persuasivi ed educativi; si lascia sopraffare dalle burocrazie trascurando il servizio al pubblico anonimo; concentra il potere preferendo l’efficienza al controllo, e finisce con non considerare sufficientemente i mezzi e le loro conseguenze pur di raggiungere un fine”.
Nei quasi sessantanni che ci separano da questa analisi chirurgica dei limiti delle democrazie rappresentative, essi si sono tutti dilatati e approfonditi, con pericolose derive autocratiche a tutte le latitudini. Tra i limiti della democrazia elencati da Capitini, di gran lunga il più grave è quello della guerra e della sua preparazione. Anche nell’analisi degli “effetti collaterali” della guerra. Capitini svolge un elenco che dimostra come, in particolare dopo Hiroshima e Nagasaki, essa sia radicalmente incompatibile con un potere aperto alla partecipazione di tutti.
“Si sa che cosa significa, oggi specialmente la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage degli innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica ed aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”
L’impegno attivo per tendere al potere di tutti, dunque, non può che avere come punto di partenza la lotta per impedire la guerra, fondamento e alimento di ogni altra oppressione.
“L’omnicrazia deve prendere corpo anche in questo modo” – argomenta il fondatore del Movimento Nonviolento – “Nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo”. Il rifiuto attivo della guerra è dunque il punto essenziale di svolta. Tuttavia, perché il rifiuto della guerra – che la Costituzione italiana rinforza con il concetto di ripudio – diventi effettivo e non rimanga mera aspirazione utopica, è necessario che la resistenza alla guerra si dia un’organizzazione. Quell’organizzazione che è invece mancata nella fase di avvento del fascismo: i Gobetti, i Matteotti, i Gramsci vedevano chiaro e denunciavano il pericolo, scrive Capitini, ma non poterono organizzare un’ampia “non collaborazione dal basso” per fermarne l’ascesa, perché “non avevano intorno quella preparazione e quella maturità che li assecondasse”.
Ed oggi? Oggi che i poteri costituiti preparano ancora la guerra, anche nucleare, saremmo preparati a contrastarla?
“Bisogna aver pronta una vastissima rete di organi dal basso, di consulte locali, di comitati scuola-famiglia, di centri sociali più che per ogni parrocchia, di commissioni interne, di consigli scolastici e comitati universitari, di centri di addestramento alle tecniche della nonviolenza, (…), di sviluppo di assemblee per addestrare i giovani, perché non si sentano isolati o giocati dall’alto”.
Per essere pronti, serve un ampio lavoro culturale, politico e organizzativo – al quale peraltro Capitini si dedicò intensamente durante tutta la vita – che oggi è del tutto insufficiente rispetto ad un pericolo sempre più incombente.
Le due fasi del potere
Si tratta, secondo Capitini, di superare sia i compromessi del riformismo – diventato oggi parola quasi impronunciabile – col potere esistente, sia la violenza del massimalismo rivoluzionario – che in Italia nel due decenni successivi a Capitini ha visto la tragica parabola del terrorismo – per svolgere la “rivoluzione permanente nonviolenta dal basso”. Non la presa del Palazzo d’Inverno, ma un processo di trasformazione continua che si esercita attraverso quella che Capitini definisce la “teoria delle due fasi del potere”, in base alla quale non si tratta di conquistare un potere che rimane identico a se stesso, ma di trasformarne radicalmente le fondamenta, le manifestazioni e le articolazioni.
“La teoria delle due fasi del potere” – argomenta Capitini – “fa posto ad una fase di potere senza governo”, rispetto al quale il tema cruciale è quello di “impostare un’adeguata articolazione della prima fase, quella del potere senza governo, premessa e garanzia che l’eventuale seconda fase” – quella del potere con il governo – “sia un potere nuovo ‘conseguente’ alla prima fase, di allargamento delle aperture, di addestramento alle tecniche della nonviolenza, di miglioramento della zona in cui si vive, di lavoro educativo, di impostazione di continue solidarietà con altri nella rivoluzione permanente per la democrazia diretta, connessa intimamente con la nonviolenza”.
Un processo infinito di apertura dei loci del potere e di manutenzione continua di queste aperture: “il potere dei senza potere”, l’avrebbe definito successivamente Václav Havel, senza probabilmente aver letto Capitini.
È necessario precisare, tuttavia, che per “democrazia diretta” Capitini non intende il superamento tout-court della democrazia rappresentativa, ma la sua continua integrazione con aggiunte provenienti dal basso: da un lato attraverso lo strumento dell’assemblea, da svolgersi a tutti i livelli, sul modello dell’esperienza originaria dei Cos, i Centri di orientamento sociale, che organizzò a partire da Perugia subito dopo la Liberazione, come luoghi di confronto e formazione degli adulti, aperti a tutti, dove il motto era “ascoltare e parlare”, dopo un ventennio in cui uno solo poteva parlare e tutti gli altri dovevano ascoltare. Dall’altra parte attraverso le tecniche della nonviolenza: la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, la resistenza e la difesa civile. Mezzi nonviolenti, capaci di rendere nonviolento anche il fine, ossia il potere.
In questa direzione ciò che va immediatamente superato – senza dubbio e senza appello – è l’apparato dell’esercizio della violenza organizzata, ossia l’esercito, che è anche il fondamento ultimo del potere inteso come dominio: “L’esercito si pone come sostegno dell’imperio o potere assoluto centrale, e perciò va rifiutato alla radice, per un rinnovamento profondo”. Un potere di tipo nuovo necessita e si fonda su una forza differente, la forza della nonviolenza, sia rispetto all’interno di ciascun Paese che sul piano delle relazioni internazionali: “per una posizione di nonviolenza è da generalizzare l’insegnamento delle tecniche della nonviolenza, addestrando tutti a saperle usare e fornendo loro i mezzi necessari: tali tecniche possono valere per le trasformazioni, o rivoluzioni, interne e per l’eventuale lotta contro invasori”. È la teorizzazione della difesa civile, non armata e nonviolenta7 che sostituisce la difesa militare. “Perciò” – ribadisce, senza mezzi termini, Capitini – “il rifiuto assoluto della guerra e della guerriglia, e della tortura e del terrorismo (che accompagnano la guerra e la guerriglia), è il punto di partenza, la svolta, la condizione assoluta di una nuova impostazione del potere”. È da quel rifiuto radicale che ha inizio l’omnicrazia.
Il tema del rifiuto della guerra e degli apparati che la preparano, la legittimano e la rendono possibile, come elemento imprescindibile per la trasformazione del potere, non è un’acquisizione recente dell’evoluzione del pensiero capitiniano, ma una costante che aveva ribadito più volte anche sul periodico il Potere è di tutti, a segnalare il nesso inscindibile tra le guerre e i poteri che non rispondono ai cittadini, indipendentemente dalle forme di governo.
“Noi siamo convinti che le popolazioni si fidano troppo dei governi – scriveva a commento della Marcia della Pace di Perugia ad Assisi del 1961 – La guerra è voluta, preparata e fatta scoppiare da pochi, ma questi pochi hanno in mano le leve del comando. Se c’è chi preferisce lasciarli fare, e non pensarci, divertirsi e tirare a campare, noi dobbiamo pensare agli ignari, ai piccoli, agli innocenti, al destino della civiltà, dell’educazione e della progressiva liberazione di tutti. Noi dobbiamo dire No alla guerra ed essere duri come pietre; oggi i governi, con la decisione di fare le guerre e di usare le armi atomiche e chimiche, sono infinitamente più dannosi di qualsiasi disordine della popolazione, perché un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo”.
Il federalismo universale di centri nonviolenti
Per queste ragioni la nonviolenza è mezzo e fine allo stesso tempo, come spiegava già in una lettera di religione del 1951, in quanto influisce sia sul fondamento che sul metodo, “perché stacca dal metodo della conquista e difesa violenta del potere, anche mediante tortura, stragi, distruzione del nemico e illibertà; e opera mediante non-collaborazione ma sempre con amore e libertà”. È un metodo totalmente nuovo di pensare e agire l’impegno politico: “questo metodo” – scrive Capitini – “guarisce la politica dalla sua fretta e impazienza, per cui essa crede di poter usare i mezzi della violenza e della frode; e così usando questi mezzi, non vede più il fine”.
Sul piano internazionale la nonviolenza si manifesta nell’impegno per il superamento dei “blocchi” contrapposti attraverso l’unione dei “centri nonviolenti” dell’Oriente e dell’Occidente, in “un federalismo universale di centri nonviolenti, collegandoli in senso orizzontale indipendentemente dal potere” verticalmente costituito, sostituendo l’antagonismo di un blocco politico contro l’altro, con quello dei centri nonviolenti – “tutte le forze per la pace, di Oriente e di Occidente” – per superare i rispettivi blocchi. È la sostituzione di una dimensione verticale del potere con una dimensione orizzontale che travalica i confini dei poteri militari e unisce in un potere solidale internazionale dal basso: una “internazionale della nonviolenza”. Anch’essa già teorizzata più volte su Azione nonviolenta, anche in riferimento all’organizzazione della War Resister’s International, della quale il Movimento Nonviolento è sezione italiana.
Una visione “profetica” rispetto a quanto accaduto nell’89, quando avvenne il collegamento dei movimenti per la pace e il disarmo nell’Europa dell’Ovest, i movimenti per la democrazia nell’Europa dell’Est e la figura di Michail Gorbacev al Cremlino (il quale già nel 1986 aveva sottoscritto, con Rajiv Gandhi, la Dichiarazione di Nuova Delhi sulla nonviolenza), che portò all’abbattimento del muro di Berlino, alla fine del Patto di Varsavia e ad un – seppur breve – periodo di distensione internazionale. Così come non è lontana dalla visione capitiniana la solidarietà tra gli obiettori di coscienza dei fronti di guerra contrapposti, per esempio Russia e Ucraina, o dei costruttori di pace nel “gruppi misti”, per esempio tra israeliani e palestinesi, come le organizzazioni dei Parent’s Circle e dei Combatants for peace.
Se questi sono i compiti, locali e globali, la domanda che ne scaturisce è se non siamo troppo pochi e ininfluenti per svolgerli. Aldo Capitini, che è stato sempre portatore di grandi visioni in gruppi minoritari, scriveva nell’ultima lettera di religione – quasi un testamento, due settimane prima di morire – che ciò che conta davvero è la forza preziosa dei piccoli gruppi.
“Oggi i grandi Stati non escludono la guerra, anzi la minacciano anche, e hanno forze enormi per la sua attuazione – scriveva il 6 ottobre del 1968, ma è come se parlasse a noi qui ed ora – anzi sono carichi di tutti i difetti che abbiamo detto, di tutte le varie specie di violenza (oppressione e autoritarismo burocratico, manipolazione delle informazioni e impedimento alla libertà scolastica, disuguaglianza economica, spinta alla guerra ed educazione violenta ecc.)”.
Ma di fronte ad essi i piccoli gruppi non sono inermi, ma “hanno una forza preziosa, perché possono fondarsi su posizioni strenue, far emergere orientamenti chiari e ostinati, anche se saran detti utopistici: ma l’utopia di oggi può essere la realtà di domani”. Nella misura in cui ciascuno dei persuasi s’impegna per la sua realizzazione, come singolo e come centro. Con la consapevolezza che ciascuno non è mai isolato ma è sempre collegato agli altri, a tutti, attraverso la forza della compresenza – e qui torna la dimensione religiosa fondamentale per Capitini, come per Mohandas K. Gandhi che fu uno sei suoi costanti punti di riferimento – e della sua manifestazione pratica, la nonviolenza.
Con la scelta della nonviolenza ciascuno “ha dato segno di voler stabilire con altri esseri nel cerchio più largo possibile, un rapporto di interessamento e di apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo degli altri. Il rapporto non era circoscritto, limitato e a poco a poco rivelava la serietà della realtà di tutti, di essere cioè tendenzialmente aperto e interessato a questa sacra parola: tutti”. Tutti, dunque: sacralità di una parola che non rimanda a un esito metafisico ma fonda un nuovo potere e un nuovo mezzo, la nonviolenza, non per conquistarlo ma per trasformarlo e diffonderlo incessantemente. A partire dalla lotta alla guerra e alla sua preparazione, qui ed ora.
[Sintesi della relazione svolta presso il Laboratorio per la pace dell’Università di Ferrara e pubblicata anche su Agenda 17]
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