“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
28 giugno 2017
IL PARTITO DEMOCRATICO (PD) e REPUBBLICA
Sembra che il PD e il giornale "La Repubblica" - da tempo l'unico vero "organo" di quanto rimasto in quel partito! - abbiano perso perfino il senso del ridicolo. Se avete ancora qualche dubbio, guardate i titoli apparsi nella prima pagina odierna del giornale:
"IL PROFESSORE (Prodi): SPOSTO LE MIE TENDE PIU' LONTANO. IL SEGRETARIO (Renzi): HO VINTO LE PRIMARIE NON TORNO INDIETRO."
Incredibile ma vero! Cose e parole da manicomio. Forse anche influenzati dall'anniversario pirandelliano...(fv)
27 giugno 2017
PALERMO SECONDO NICOLA LO BIANCO
"Peppino renditi conto 38 gradi all'ombra senz'acqua / sotto il sole va a finire che prende fuoco tutto / bosco della ficuzza monte cuccio piano battaglia / non abbiamo requie notte e giorno prova col professore / della nettezza urbana gia' fatto pure all' ufficio d'igiene / non si prende una pulce all'anca in citta' tutte le squadre / impegnate senza tespiro non ci voleva il disoccupato / sopra i cavalli del teatro politeama mi butto / senza pieta' fosse per me arrostisciti le corna al sole / sul cornicione ci mancava solo il gatto della baronessa / te lo figuri presidentessa della Protezione Animali / va bene va bene ho capito vai a fare in culo pure tu."
Nicola Lo Bianco. Brano tratto da "Di uomini e di topi" in " Citta' al tramonto", Battogi 2017.
Ho voluto riproporre solo un brano dell'ultimo libro di Nicola Lo Bianco che fa rivivere, nei suoi racconti, la citta' di Beppe Schiera, Crescenzio Cane e Franco Scaldati. Alcuni dei suoi personaggi, presi dalle cronache cittadine, sembrano posseduti dalla follia. Ma, come ben sa Nicola con Pascal, "Gli uomini sono così necessariamente folli che il non esserlo, equivarrebbe ad esserlo secondo un'altra forma di follia". (fv)
25 giugno 2017
L. ARAGON, Ti dirò un gran segreto
louis aragon con else
Ti dirò un gran segreto,
tu sei il tempo, il tempo è donna
ha bisogno d’esser corteggiato
ha bisogno che ci si segga ai suoi piedi
il tempo come una veste da sciogliere
il tempo come una chioma senza fine pettinata
uno specchio che il respiro appanna e spanna.
Il tempo sei tu che dormi nell’alba in cui mi sveglio
sei tu come un coltello che trafigga la mia gola
Oh, non posso dire questo tormento del tempo che non passa
questo tormento del tempo imprigionato
come il sangue nelle vene azzurre
Ben peggiore del desiderio interminabilmente insoddisfatto
di questa sete dell’occhio quando cammini nella stanza
e io capisco che non si deve rompere l’ incantesimo
Louis Aragon
tu sei il tempo, il tempo è donna
ha bisogno d’esser corteggiato
ha bisogno che ci si segga ai suoi piedi
il tempo come una veste da sciogliere
il tempo come una chioma senza fine pettinata
uno specchio che il respiro appanna e spanna.
Il tempo sei tu che dormi nell’alba in cui mi sveglio
sei tu come un coltello che trafigga la mia gola
Oh, non posso dire questo tormento del tempo che non passa
questo tormento del tempo imprigionato
come il sangue nelle vene azzurre
Ben peggiore del desiderio interminabilmente insoddisfatto
di questa sete dell’occhio quando cammini nella stanza
e io capisco che non si deve rompere l’ incantesimo
Louis Aragon
DIONISO, IL DIO DIMENTICATO
Dioniso,
forza arcana della natura.
Guido Araldo
Dioniso è il grande dio
dimenticato! Anzitutto perché una tradizione becera l’ha ridotto a
Bacco, quando baccus era uno dei suoi molti attribuiti e neppure il
più importante, una delle sue molteplici manifestazioni, poiché dio
del vino, della coltura della vite presso i Greci (per Etruschi e
Quiriti invece era Giano) e dell’ebbrezza che dal vino ne deriva:
la droga dell’antichità. L’uomo mediocre ha sempre avuto
necessità di droghe per affrontare il quotidiano anzi, per
estraniarsi dalla vita quotidiana.
Dioniso, non a caso, era
il dio non gradito sull’Olimpo e si aggirava tra gli umani sul suo
carro trainato da tigri feroci, in un corteo interminabile di donne
in calore, le Baccanti, e ninfe isteriche, le Menadi antesignane di
tutte le masche, tanto belle quanto invasate. E Dioniso aveva per
compagna Arianna: la coscienza che Teseo aveva abbandonato sull’isola
di Nasso dopo aver ucciso la bestialità umana in un labirinto.
Arianna, cretese, costituisce l’allegoria perfetta della fine
storica del matriarcalismo minoico e dell’avvento del
patrialcalismo miceneo: matriarcalismo peraltro recuperato da Dioniso
tramite le Baccanti e la Menadi e mai dissoltosi nella civiltà
occidentale, a differenza dell’Islamismo.
Dioniso, in realtà, è
tutto! La forza arcana che induce il germoglio a germogliare, la
gemma a sbocciare e l’intima essenza maschile a inturgidirsi. La
linfa vitale che scorre sotterranea in Mater Tellus, dea Natura, che
rigenera il mondo a ogni primavera e rinnova l’umanità di
generazione in generazione. È l’arcano del pianeta Terra!
Dioniso è l’inconscio
di Jung che si contrappone all’Io di Freud, ma non allude soltanto
alla contrapposizione tra istinto e razionalità, bensì la loro
sintesi e il loro equilibro. È il simbolo della divinità arcaica
presente nell’irrazionale umano, la nostra essenza più profonda,
primitiva e divina al tempo stesso, dove tutto si compenetra e
ribolle. La rappresentazione più pura e genuina dell’essere umano
che dopo Copernico non è più al centro del mondo, dell’universo,
e dopo Darwin non è neppure più figlio di Dio, fatto a sua immagine
e somiglianza, immerso totalmente nel mondo e nel suo divenire.
Ma Dioniso è molto di
più: è il segreto degli antichi riti orfici, la goccia apollinea in
un cervello che per i tre quarti è lo stesso dello scarafaggio, del
coccodrillo, della vipera, del toro come ha dimostrato la scienza. Da
questa contrapposizione, che tale non è, trasse origine il concetto
di anima.
Nella Teogonia di Esiodo,
il libro probabilmente più antico della nostra civiltà, antecedente
all’Iliade di Omero e incommensurabilmente superiore, Dioniso è
uno dei tanti peccatucci pornografici di Zeus che per la gestazione
lo nasconde addirittura in una sua coscia per occultarlo a Giunone,
moglie gelosa e abbondantemente cornificata. È il dio bambino che
nessuno vuole alla mensa degli Dei sull’Olimpo perché troppo
vivace, dispettoso, selvaggio e birichino. Quando deflagra la
ribellione dei Titani, alimentata da Gea, la Grande Madre, la Terra
(estrema reazione del matriarcalismo di fronte al trionfo del
patriarcalismo) tutti gli Dei scappano vigliacchi per nascondersi
dove possono, inseguiti dal terribile Tifone, ma Dionisio bambino si
attarda.
A questo punto mi sia
concessa una parentesi: dove si nasconde Afrodite, dea della
bellezza, con il figlio Eros, dio dell’amore tra le braccia? Nei
canneti dell’Eufrate, in prossimità della foce, dove un tempo
vivevano i Sumeri, il cuore della nostra civiltà oggi ridotto a
luogo tristissimo. Afrodite con il suo bambino in braccio esattamente
come l’egiziana Iside con il figlio Hors, Cibele con il nipotino
Attis, la Madonna con Gesù Bambino. Cibele era nera, originariamente
un meteorite come alla Mecca, e anche Iside a volte era nera come la
fertilissima terra dell’Egitto e tuttora molte sono le Madonne
nere. L’inconscio collettivo di Jung è una realtà, eccome se è
una realtà!
Quel giorno Afrodite con
Horus tra le braccia stava per essere raggiunta dal terrificante
Tifone dall’olfatto sensibilissimo, quando fu salvata da due pesci,
forse una coppia di delfini, inviatale provvidenzialmente da mamma
Gea: gli stessi pesci che, assurti a costellazione in cielo, chiudono
la stagione invernale e preannunciano il ritorno sulla terra di
Persefone, la primavera, simbolo di ciclicità cosmica. Afrodite era
figlia di Urano e Gea, nata dallo sperma di Urano che stillava in
mare dopo essere stato evirato da Crono… per questo, non
dimentichiamolo, era la dea più antica sull’Olimpo, zia di tutti
gli altri dei. Un dettaglio non trascurabile in merito al
matriarcalismo originario.
Ma torniamo a Dioniso che
si distrae nella più sconvolgente guerra di tutti i tempi. Per quale
motivo si distrae? Nel fuggi fuggi generale Giunone gli dona uno
specchietto in cui ammirarsi vanitoso e un sonaglio per trastullarsi,
nella speranza che i Titani lo raggiungano. Il modo migliore per
disfarsi di quella sgradita presenza, frutto di uno dei tanti
tradimenti del marito montone fedifrago. E così accade! I Titani
arrivano e lo sbranano letteralmente, mangiandoselo in un sol boccone
dopo esserselo diviso sanguinante. Ma proprio in quel momento ha
inizio la riscossa di Zeus - Giove spalleggiato dalla figlia Atena -
Minerva: la sapienza contrapposta alla brutalità dei Titani o, se si
preferisce, al recinto dei maiali di Circe grande quanto l’intero
pianeta: “Fatti non foste a viver come bruti ma per perseguir
virtute e canoscenza!” (Dante, Inferno). Per favore, cercate sulla
moneta da un Dollaro la civetta simbolo di Atena, quasi invisibile,
ma vi assicuro che c’è! Fuoco fuochino in alto a destra al numero
1 vicino, in alto a sinistra sul bordo. La civetta cara agli Ateniesi
che l’esponevano fieri sulle loro monete, trasformata in messaggera
di morte dalle ombre peggiori del Medioevo tendenti ad occultare la
luce antica. La civetta onnipresente nei quadri di Hieronymus Bosch,
a volte palese altre volte nascosta.
Per la verità il mito è
sottile: a vincere i terrificanti Titani non furono tanto le saette
di Zeus quanto le urla ancor più terrificanti di Pan: il dio al
quale s’ispireranno i preti del Medioevo per raffigurare Satana,
più caprino che umano. Un dio nato dell’amore adulterino di
Penelope, moglie di Ulisse, quella della tela, con il dio Hermes,
dopo essere stata cacciata di casa da Ulisse tornato alla pietrosa
Itaca. Penelope, nel mito più antico, precedente a Omero, fu
complice dei Proci, grandissima meretrice opportunista. Per
questo motivo Ulisse non visse felice e contento, ma riprende
sconsolato il mare per fare la fine descritta da Dante.
Occorre tornare a Dioniso
e alla sua storia. Le urla altissime di Pan attestano che anche nella
bestialità c’è un limite: est modus in rebus, sempre! I Titani,
subito dopo essersi gustati quel dio bambino, spaventati e distratti
dalle tremende urla di Pan, sono inceneriti dai fulmini di Zeus
mentre Atena, l’intelligenza, subito accorre per cercare qualcosa
del fratellino tra quelle ceneri ancora fumanti. Ne trova soltanto il
cuore palpitante.
Meditate gente, meditate!
Il cuore sanguinante di Gesù? E, visto che ci siamo, a cosa rimanda
il rito più sacro del cristianesimo: l’eucaristia? Al grano e
all’uva, al pane e al vino: a Mater Tellus ovvero Demetra e a
Dioniso, l’essenza dei misteriosi e antichissimi riti eleusini. Al
termine del viaggio negli Inferi eccoli sulla porta del cielo, a
riveder le stelle, nel gesto di offrire pane e vino all’iniziato,
che non è più profano. Dante li trasformerà, dopo il viaggio nel
fuoco dell’Inferno e nella terra del Purgatorio, e dopo la
purificazione di Matelda con le acque nel Paradiso Terrestre, XIV
carta dei Tarocchi, non a caso dopo la Morte, in Beatrice e san
Bernardo nel viaggio attraverso l’aria, in direzione dell’Empireo.
San Bernardo, colui che forgiò l’Ordine dei Templari con “l’elogio
alla nuova cavalleria” …
Dioniso e Demetra
Ma la storia di Dioniso
non è finita: ora viene il bello! Ecco arrivare la bisnonna Gea,
responsabile di tutto quel casino e già pentita, come poco prima con
Afrodite e Horus tra i canneti. Gea, ovvero Madre Terra, prontamente
ricompone Dioniso utilizzando le ceneri ancora fumanti dei Titani
inserendoci quanto è rimasto del dio: il suo cuore palpitante. Ed
ecco la perfetta rappresentazione dell’essere umano: la perfida
cenere dei Titani con un cuore divino, goccia apollinea che tende a
spegnersi se non costantemente ravvivata, come Lucignolo (la luce che
si spegne) che diventa ciuco nella favola di Pinocchio.
C’è qualche differenza
con il primo uomo della Genesi, forgiato dal fango peggiore per
essere ravviato dall’alito di Dio? L’immagine di Dioniso
descritta nei riti orfici: ceneri di Titani e pulsante cuore divino,
è la più antica raffigurazione dell’anima contrapposta al corpo,
alla quale attinse in seguito Platone. Il cuore di Dioniso partecipe
dell’anima mundi: quell’alito divino, pneuma, che nella Grecia
antica nessuno si sognava di chiamare dio: non per ignoranza, ma per
saggezza!
Forse val la pena
ricordare che, secondo Freud, l’io e il superio, il cuore apollineo
e le ceneri dei Titani entrano in conflitto ad ogni nostro risveglio…
Guido Araldo
UMBERTO SABA E TRIESTE
Una nuova biografia di
Umberto Saba ricostruisce il rapporto difficile che il poeta ebbe con
la sua città. Una fatica del vivere che Saba cercò di contenere
grazie alla psicoanalisi e al rifugio nel mito.
Paolo Di Stefano
Saba, un Ulisse
incompreso a Trieste
A sessant’anni
dalla morte, Umberto Saba rimane un poeta per tanti aspetti
misterioso e incompreso, per non dire sottovalutato. Come se il suo
progetto di una «poesia onesta», piana, autobiografica e domestica,
per di più proveniente da una zona di frontiera («arretrata»)
com’è Trieste, lo avesse penalizzato. Tanto più rimane in ombra
il suo valore di scrittore in prosa, nelle forme variegate del
saggista, del narratore autocritico, dello scrittore d’invenzione o
sapienziale.
Ora, la nuova monografia
su Umberto Saba, scritta da Stefano Carrai ( Saba , Salerno Editrice
), studioso di letteratura medievale e rinascimentale oltre che di
Novecento (Montale, Sereni, Fortini, Raboni…), si sofferma su
diversi luoghi ancora oscuri della sua biografia, della sua opera e
della relazione tra la «calda vita» con i suoi traumi, il contesto
storico e l’opera. Su questa via, Carrai si avvale delle
acquisizioni filologiche, dei materiali epistolari, di puntuali
analisi metrico-stilistiche.
«L’infanzia per i poeti — dice Carrai — è quasi sempre un affioramento che provoca dolore, ma nel caso di Saba equivale a una serie di nodi irrisolti che diventano un vero e proprio groviglio esistenziale. I contrasti in mezzo ai quali la sua infanzia e la sua adolescenza si dipanarono rimasero fino all’ultimo vivi e cocenti anche nell’adulto, come traumi e ferite insanabili. Il ragazzo infatti apparteneva a una famiglia dimidiata perché il padre l’aveva abbandonata ancor prima che lui nascesse. L’acrimonia e le recriminazioni della madre nei confronti dell’assente furono una costante angosciosa. Inoltre Umberto si sentiva estraneo alla cultura chiusa e ottusa del ghetto ebraico in cui crebbe. Questi elementi di disagio sarebbero bastati a far maturare in lui la sensazione di essere un diverso e un originale».
E poi si aggiunge il complicato rapporto con l’amata Peppa, la contadina slovena che gli fece da nutrice e che scatenò la gelosia della madre…
«La presenza della balia ha contribuito a complicare ulteriormente il quadro psicologico: un rapporto in parte letteraturizzato per l’influenza di una poesia dedicata alla nutrice da d’Annunzio, ma fondato su un affetto vero e profondo, perdurato fino all’età matura, in contrapposizione alla anaffettività della madre naturale. E naturalmente va messa in conto anche la scoperta del sesso, l’esperienza dell’omosessualità o della bisessualità descritta in Ernesto , che sottintende una incertezza nella definizione della propria identità anche sessuale appunto. Sono tutti temi che tornano, spesso come sofferenza, in ogni stagione della poesia di Saba».
In che forma si presenta l’«ulissismo» di Saba?
«Ulisse è un eroe molto caro all’inquietudine novecentesca. Nella poetica di Saba il suo mito serve a trasfigurare la sensazione di non essere di casa in nessun luogo, con l’eccezione certo dell’amata Trieste, che ha costituito sempre un rifugio, specie dopo l’acquisizione della sua libreria antiquaria. Però anche qui l’umoralità e la suscettibilità esasperate di Saba facevano sì che fosse spesso ferito e urtato dagli altri, persino dai suoi amici più cari, come se anche negli affetti fosse costretto ad una peregrinazione continua. Dai circoli letterari fiorentini e romani nei quali ambiva a essere accolto, poi, non si è mai sentito accettato. Ecco, anche questo è stato vissuto da Saba come una sindrome di Ulisse».
Si ha continuamente l’impressione di un pendolarismo intimo tra marginalità (Trieste) e centro (il rapporto difficile con Firenze, e poi Milano, Parigi). Saba sembra un uomo profondamente solo ma circondato da tantissimi amici sempre pronti ad aiutarlo (non soltanto Montale).
«Sì, anche per il suo narcisismo estremo Saba ha sofferto di non essere adeguatamente considerato e riconosciuto come poeta, specie agli inizi, quando Slataper, con un vero e proprio equivoco critico, pensò di fare di lui un semplice emulo di Gozzano. Poi con gli anni Venti, grazie soprattutto a Debenedetti, Solmi, Montale, le cose cambiarono e tra le due guerre la sua fama si consolidò. Certo però rimaneva sempre un poeta appartato nella sua Trieste, dove era al centro di un cenacolo artistico numeroso e dove molti giovani andavano per conoscerlo, ma pur sempre un poeta che solo ogni tanto si faceva vedere negli ambienti che contavano. Tuttavia quanto fosse stimato e amato si vide dopo le leggi razziali e soprattutto dopo l’otto settembre del ’43, quando sarebbe certo finito in una camera a gas se non avesse potuto contare sull’aiuto di amici come Montale, Vittorini e altri».
Nonostante la
depressione che lo coglie in tarda età, e nonostante i messaggi
ultimativi (minacce di suicidio e minaccia di smettere precocemente
di scrivere), Saba lavora fino all’ultimo o quasi. Da cosa nasce
l’idea di tornare sul «Canzoniere» e di commentarlo?
«Storia e cronistoria del Canzoniere è uno straordinario esempio di autocommento, nato dalla convinzione di essere incompreso dalla critica del Dopoguerra e dagli alfieri dell’ermetismo. Si potrebbe perfino dire che un’opera straordinaria come questa, che più che spiegare il senso delle poesie costruisce un autoritratto dell’autore fra versi e prosa, sia nata inizialmente per impulso del complesso di persecuzione di Saba. E poi fino all’ultimo Saba ha scritto anche poesie: da “Mediterranee” a “ Sei poesie della vecchiaia” le appendici al Canzoniere vero e proprio regalano al lettore gli estremi gioielli della poetica sabiana».
L’opera di scarnificazione e di semplificazione è solo reazione alla retorica fascista?
«L’avversione al fascismo (dopo un’iniziale, momentanea simpatia) fu costante in Saba, anche se nel 1938 fu costretto al gesto umiliante di supplicare Mussolini perché risparmiasse lui e la sua famiglia, per meriti poetici, dall’applicazione delle leggi razziali. Una vera ossessione, da comunicare solo agli amici più stretti, fu la roboante propaganda del regime, odiatissima per l’invadenza ma anche per la tronfia retorica. E penso di sì, che non sia un caso se proprio negli anni Trenta la sua poesia prende la strada di una concisione linguistica, che tuttavia risentiva dichiaratamente del fascino esercitato da modelli come Ungaretti e Montale, in parte anche il giovane Penna».
Saba fu il primo poeta a confrontarsi con l’inconscio: quali conseguenze ebbe la «scoperta» della psicoanalisi?
«La psicoanalisi fu per Saba una scoperta totalizzante, cui si abbandonò con un’adesione quasi fideistica, al punto da interpretare ogni fatto della vita alla luce delle teorie di Freud. Dopo la cura intrapresa, tra il ’29 e il ’30, con lo psicanalista triestino Edoardo Weiss, che era stato allievo di Freud a Vienna, Saba accordò ancor più importanza ai traumi infantili che fin dalla prima giovinezza aveva ritenuto responsabili della propria inguaribile infelicità. Le poesie dei primi anni Trenta, raccolte nella sezione “Il piccolo Berto” del Canzoniere , sono incentrate proprio sulla scoperta dell’inconscio e del ritorno del rimosso, perciò pongono al centro la drammatica rappresentazione di uno strappo: la madre naturale che per gelosia lo sottrae con violenza, all’età di tre anni, all’amore di una madre più vera, cioè della balia, che il ragazzo tornerà a cercare nell’adolescenza. Ecco, la psicoanalisi ebbe, in fondo, l’effetto di convincerlo definitivamente che a causa delle ferite subite nella prima infanzia era destinato a scontare un’infelicità senza rimedio».
Come mai il
romanzo, quel tipo di romanzo che è «Ernesto», arriva solo alla
fine?
« Ernesto non è
soltanto la struggente confessione di una iniziazione sessuale
anomala, ma è anche la rievocazione di una stagione della vita e di
un’epoca tramontata, inimitabile, all’alba del Novecento. Saba
non poteva arrivare a scriverlo che con la libertà e col disincanto
della senilità: è un piccolo capolavoro e c’è da rammaricarsi
del fatto che oltre che anziano egli fosse allora troppo provato
dalla malattia nervosa e minato nel fisico dall’eccesso di farmaci
per riuscire a condurlo a termine».
Come si colloca la «funzione Saba» all’interno della poesia novecentesca? E con quali peculiarità?
«È vero, c’è nella poesia del Novecento una funzione Saba che si tende forse a sottovalutare. Un certo sabismo è evidente in poeti come Penna, Caproni, Bertolucci, Giudici, ma anche in Sereni è forte. Direi che se mettiamo insieme cantabilità del verso e fuga dall’enfasi del poetichese abbiamo già una tonalità in qualche misura sabiana».
Quando si pensa al meglio della poesia novecentesca, purtroppo pochi pensano a Saba. Nonostante la sua «leggibilità» e il notevole successo critico, qualcosa gli ha impedito (e ancora gli impedisce) di ottenere quel che meriterebbe. Come si spiega?
«Questa è la domanda più difficile di tutte. D’istinto direi che Saba non è mai stato, a differenza di altri poeti, un buon manager di se stesso. Una vera consacrazione l’ha ottenuta solo col premio Viareggio nel 1946 (peraltro ex aequo con un narratore viareggino come Silvio Micheli che oggi nessuno ricorda più), cioè quando aveva già sessantatré anni. Gli undici anni che gli restavano da vivere furono segnati dalla dipendenza dalla morfina e dai ripetuti ricoveri per crisi depressive. Quando ero ragazzo Saba era considerato uno dei classici della poesia del Novecento al pari di Ungaretti e Montale. Poi, è vero, la sua fortuna editoriale è un po’ calata, la sua fortuna critica è scesa ancora di più. Spero che il mio libro contribuisca a rendere giustizia a uno tra i massimi poeti italiani della modernità».
Il Corriere della sera – 20 giugno 2017
LE CASTE INDIANE
Brahmini a tavola
Caste indiane. Un libro, un problema
Alfonso M. Di Nola
Il libro di Dumont sulle
caste indiane, pubblicato in Francia nel 1966, poi in edizione
revisionata e arricchita nel 1979, è divenuto ormai un classico
delle analisi francesi vagamente oscillanti fra la sociologia,
l’antropologia e la storia. Diciamo subito che è un’opera di
notevole spessore dottrinario, che avanza ipotesi interpretative
nuove, e che tuttavia è principalmente destinato a lettori
specialistici che presumibilmente già conoscano tutta la storia del
sistema castale e siano disposti a rileggerla sulla base delle teorie
di Dumont: teorie nelle quali si fondono istanze fondamentali della
vecchia scuola sociologica francese (la memoria di Hertz e di Mauss è
apertamente dichiarata), suggerimenti dell’antropologia sociale
inglese e qualche influenza dello strutturalismo lévistraussiano in
una sintesi che dà vigore a particolari prospettive interpretative e
che, tuttavia, pesa talvolta negativamente sulla chiarezza del quadro
ricostruito.
Nuove ipotesi tra
vecchie dispute
In questo quadro, va
subito detto, la grande assente è una limpida dimensione storica che
viene respinta in secondo piano e sacrificata ai comandi del
sociologismo. Del tutto inutile per il lettore italiano (ma credo che
tale sia anche per il lettore francese) la lunga e noiosa
introduzione nella quale Dumont puntigliosamente anatomizza gli
interventi dei critici sulla prima edizione dell’opera, e
costruisce una sorta di lamentosa diatriba, di gusto seicentesco,
circa le opinioni che hanno accompagnato l’edizione del suo libro.
Si ha l’impressione,
inseguendo Dumont in una lettura non agevole, né suggestiva, che il
vigore dell’opera sia ben al di là di questa giostra polemica di
diverse opinioni. Sostanzialmente Dumont sembra respingere le più
antiche e diffuse teorie che tentavano di spiegare, già nel secolo
scorso, la formazione delle caste in India: l’ipotesi secondo la
quale nelle caste si consoliderebbero raggruppamenti parentali di
origine indoeuropea (forme, cioè, di strutture chiuse, fra di loro
separate e spesso opposte, simile al concetto germanico di Sippe
e a quello latino di Gens); e l’altra ipotesi che riconduce
l’origine delle formazioni castali al dominio che i gruppi
indoeuropei esercitarono sugli autoctoni dell’India prima delle
ondate di invasione (la casta segnerebbe, nelle sue molteplici
variazioni, il limite fra conquistati e conquistatori. Si insinua fra
queste consolidate ipotesi, genetiche, una terza proposta mediante,
che farebbe risalire la genesi del sistema castale al peso del
rapporto fra puro e impuro come stimolo ideologico-religioso della
diversità e dei divieti di contatto (prospettiva sulla quale pesa
notevolmente, in Dumont, la teoria su puro/impuro della signora
Douglas, oggi in crisi).
Dalla confluenza di
queste e di altre suggestioni teoriche, nasce l’estrema difficoltà
della stessa definizione terminologica e concettuale della nozione di
casta, quando, uscendo dalla concretezza dei dati storici, si voglia
erigere sopra i dati il castello della speculazione teorica. Dumont
si diletta di codeste escursioni nell’immaginario della
teorizzazione sociologica o forse sociologistica, con conseguente
calo della puntualizzazione del concreto storico. E così, anche per
diretta ispirazione weberiana, il punto focale dell’individuazione
del concetto di casta si sposta altrove; la casta sembrerebbe una
modalità della gerarchia (di qui il titolo dell’opera), ma subito
va detto che questa struttura gerarchica, fondata su modelli
religiosi e mitici, non si associa al potere, la quale compete,
nell’antica società indiana, al re.
Il brahmano rappresenta
il culmine dell’incorporazione ereditaria e fisica di un livello
supremo gerarchico che, tuttavia, non esercita un potere. Nello
sviluppo imponente della rete castale, nelle sue infinite
frammentazioni e varianti da area ad area, da villaggio a villaggio,
viene a costituirsi una struttura per noi difficilmente
comprensibile, nella quale i destini e le attività individuali
vengono ad essere predeterminati per nascita e assegnazione genetica,
in un’inesorabile negatività del quadro storico che Dumont,
intenzionalmente, non intende percepire. Gli interessa, invece - ed è
forse uno dei motivi portanti dell'intera opera - individuare il
presuntivo significato del sistema castale per la società moderna e
per il mondo occidentale. La casta, in una semplificazione ultima di
un problema intricato, gli sembra una categoria storica di società
olistiche: quelle nelle quali l’individuo, cancellato, è immesso
nella routine della totalità, laddove il superamento della casta è
l’affermazione dell’individualismo (anche qui c’è tutto il
peso delle suggestioni weberiane). Così, in questo tipo di
organizzazione, la totalità inglobante e dominante (il leviathan
hobbesiano) inserisce l’individuo in un sistema nel quale la casta
«è la nicchia di una vasta colombaia».
Dumont, al di fuori della
sua analisi delle caste, ha dovuto sciogliere il nodo problematico
emergente fra l’organizzazione castale e l’antica tesi postvedica
dei quattro stati o condizioni dell’uomo, che appaiono già nel
Codice di Manu. Le caste sono pressoché innumerabili, ma il Codice
di Manu, fissando in uno schema mitologico la vetusta violenza del
rapporto fra classi, proclamava che i diversi stati sociali umani
dipendono da una dignità ordinaria correlata alla parte del corpo
mitico dal quale gli uomini erano originati nella metastoria. Sono,
questi, i varna, gli «stati» simili a quelli che conobbe la
teoria feudale della società e sui quali si è formata la
speculazione irrazionalistica di Dumézil: i preti o Brahmani
dominano per diritto divino ed ereditario e a loro sono assoggettati,
in un progressivo decadimento gerarchico, i guerrieri (kshatriya),
i mercanti (vayshya), fino all’infima stratificazione dei
servi (shudra), al di là della quale pullula la verminosa
massa degli intoccabili (paria).
Un'opera distante
da ogni tragedia
La difficile relazione
fra le «categorie» o varna e le caste o jati viene
risolta da Dumont con alcune osservazioni di fondo: che ambedue i
sistemi, per quanto diversi, pongono al culmine della gerarchia i
preti (brahmani); che quello dei varna o categorie è un
sistema semplice e universale, mentre quello delle caste è un
sistema composito; e che, infine, sussiste una costante
interrelazione fra i due modelli.
Per giungere ad una
conclusione. dovremmo dire che la pubblicazione dell’opera di
Dumont da parte di Adelphi è impresa veramente coraggiosa e
meritevole poiché fornisce agli specialisti un ulteriore apporto
teorico, e che, tuttavia, si tratta di lavoro di ardua lettura, tutto
attraversato da preoccupazioni sociologiche, distante dalla
considerazione delle umane tragedie che la struttura castale tuttora
alimenta nel continente subindiano.
Recensione
di Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue
implicazioni di Louis Dumont trad. di Delia Frigessi Adelphi,
1991
“il manifesto la talpa
libri”, 8 febbraio 1991
23 giugno 2017
MARINEO SENZA ACQUA MA SEMPRE IN FESTA...
Ecco il ridicolo comunicato ufficiale del Comune di Marineo apparso qualche giorno fa sul sito dello stesso Comune:
Erogazione idrica
"A seguito della sensibile riduzione di approvvigionamento delle
sorgenti Stretto – Risalaimi e Rossella, a decorrere dal 22 giugno 2017
il servizio di erogazione alle utenze cittadine avverrà secondo il
seguente programma di erogazione".
Queste parole sono seguite da due note dell' Ente preposto ( l'AMAP del Comune di Palermo) che indicano la relativa turnazione nei vari quartieri del paese.
Come è largamente noto la turnazione fissata sulla carta è vanificata sia dalla fatiscente rete idrica comunale sia dal fatto che coloro che possiedono grosse cisterne e potenti motori si prendono la poca acqua distribuita.
E allora qualcuno protesta verbalmente e minaccia di procedere ad azioni legali che lasciano il tempo che trovano.
Ora mentre alcuni, sbagliando bersaglio, sembrano prendersela con l'AMAP, si chiudono gli occhi sulle responsabilità che hanno tutti gli amministratori comunali di ieri e d'oggi che ha non hanno provveduto a dotare il paese di una rete idrica degna di questo nome.
Intanto gran parte del paese rimane senz'acqua anche se in tanti continuano a far festa. Comincio a capire solo adesso cosa voleva dire mio padre quando diceva: " U populu ha bisognu di tri cosi: FESTA, FARINA E FURCA! (fv)
M. GUALTIERI, Sii dolce con me
I putti di Giacomo Serpotta in una foto di Gigliola Siragusa
Avevo già postato, qualche anno fa, questa splendida poesia di Mariangela Gualtieri. La ripropongo oggi perchè sono sempre più convinto che senza gentilezza e dolcezza il mondo e noi tutti siamo perduti. (fv)
Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci -
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
Mariangela Gualtieri
Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci -
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
Mariangela Gualtieri
ADELE MUSSO, Filastrocca della traccia
Il bersaglio della satira di Adele non è, ovviamente, Giorgio Caproni, il grande poeta livornese a cui si richiama una delle tracce dei temi assegnati quest'anno per gli esami di Stato, quanto le capre ed i caproni che si aggirano intorno al mondo della nostra povera scuola. (fv)
Filostracca della traccia
Degli ovini non regge la memoria
è più facile la ginnastica che la storia
I caproni, si sa saltano sui massi,
banchettano ciuffi d'erbetta solitaria
in attesa che l'esame passi
e si riacquisti l’ora d’aria
È la poesia cibo molecolare
figlia di chef stellati, raro esemplare
indigesta assai se la parola è scondita
risulta duro boccone da ingoiare.
Abituati ai passeri e alle siepi
se muta l'imago...su fatal spiedi
stanno gli studenti
cavallini storni, rondini senza nidi
tutta la notte in piedi sonnolenti
mai stati così attaccati alla tastiera...
cosicché di questa storia vera
resta soltanto un poeta che spogliato
il verso
di libellula e pianeta reclama
la giustizia e il senso
Rammenta uomo tu non sei il padrone
ma stolto inquilino di nequizia
nemmeno paragonabile a un caprone!
Adele Musso
banchettano ciuffi d'erbetta solitaria
in attesa che l'esame passi
e si riacquisti l’ora d’aria
È la poesia cibo molecolare
figlia di chef stellati, raro esemplare
indigesta assai se la parola è scondita
risulta duro boccone da ingoiare.
Abituati ai passeri e alle siepi
se muta l'imago...su fatal spiedi
stanno gli studenti
cavallini storni, rondini senza nidi
tutta la notte in piedi sonnolenti
mai stati così attaccati alla tastiera...
cosicché di questa storia vera
resta soltanto un poeta che spogliato
il verso
di libellula e pianeta reclama
la giustizia e il senso
Rammenta uomo tu non sei il padrone
ma stolto inquilino di nequizia
nemmeno paragonabile a un caprone!
Adele Musso
PSICOANALISI E TEOLOGIA
L'inconscio, luogo del
sacro per eccellenza, diventa terreno di incontro fra psicoanalisi e
religione. Freud, probabilmente non sarebbe stato d'accordo, basti
pensare al suo studio su Mosè, ma Jung sicuramente si.
Marco Garzonio
Teologia e
psicoanalisi
Sono lontani i tempi di anatemi e diffidenze tra Chiesa e psicoanalisi. Oggi l’inconscio può essere ponte, non luogo di scontri. Scrive Pierangelo Sequeri: «Tra istituzione religiosa e istituzione psicoanalitica si è consolidato un assetto di reciproca convivenza, che fa largo spazio ad un atteggiamento di rispettosa distinzione degli ambiti e — persino — di virtuale ammissione di margini di cooperazione, nell’interesse di soggetti con speciali difficoltà proprio nell’articolazione psichica dell’esperienza religiosa». Da agosto Sequeri è preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia. Ce lo ha voluto papa Francesco.
Al culmine d’un percorso quasi ventennale «teoria psicoanalitica» e «ragione teologica» sono spinte «dalla stessa parte», dice ancora Sequeri. All’inizio hanno giocato sensibilità e interessi di docenti della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. A Milano si sono svolti corsi e ricerche sui rapporti tra esperienza religiosa e psicologia del profondo, con predilezione per Jacques Lacan perché meglio corrisponderebbe alle esigenze della fede, visti i riferimenti lacaniani al «nome del Padre».
Un dialogo nei propositi
non ristretto alla ricerca scientifica. Dai chiostri della Facoltà
s’è prospettato un percorso di cultura e responsabilità civili da
assumersi, cattolici e laici, nei confronti di un diffuso
disorientamento in fatto di valori alti a livello individuale e
sociale. Tanto che si parla oggi di una sorta di alleanza «nella
difesa dello spessore ontologico dell’essere simbolico e
dell’essere pratico», nel pronunciarsi «sul senso etico della
psiche», scrive (ma lo sostiene da anni) Sequeri.
Quando Bergoglio lo chiamò a Roma, Sequeri era preside della Facoltà Teologica che Paolo VI volle a Milano fuori però dalle mura della Cattolica. Una sofferenza per Giuseppe Lazzati, allora rettore, che puntava a rilanciare l’ateneo dopo il Sessantotto attraverso un dialogo tra scienze umane e teologia. Corsi e ricorsi di storia e di fede!
Prodotto recente
della scuola teologica milanese è il libro di Rossano Gaboardi « Un
Dio a parte» . Che altro? Jacques Lacan e la teologia , pubblicato
dalle Edizioni Glossa, l’editrice della Facoltà. È l’esito di
una tesi di dottorato: oltre seicento pagine, rassegna densa di
autori, testi, riferimenti a Lacan e seguaci e al teologo Hans Urs
von Balthasar. Dalla presentazione al volume abbiamo tratto le
citazioni di Sequeri intorno alla nuova «frontiera dell’umanesimo»,
sulla quale sembrano dunque attestate oggi Chiesa e psicoanalisi.
Poste le basi dalla teologia fondamentale, adesso la sfida potrebbe allargarsi e coinvolgere altre branche del sapere teologico, quali ad esempio la teologia pastorale e quella biblica. Si pone per primo infatti un problema di linguaggio, trasmissione, coinvolgimento sulle questioni che una corretta relazione tra fede e psicologia del profondo può generare. Se non diventano parola parlata, spezzata come pane della conoscenza, vissuta, condivisa, le parole dei teologi che studiano la psicoanalisi rimangono per pochi addetti ai lavori, autoreferenziali, lessico per iniziati.
La teologia biblica poi è l’esempio della fecondità di approcci molteplici. Numerosi specialisti già si servono di vari strumenti psicoanalitici per comprendere le Scritture, le componenti umane e storiche dei testi sacri, i pionieri della psicologia del profondo. Questi ultimi sarebbero fuori luogo in soffitta, anche se Lacan li ha criticati con un linguaggio al cui fascino la teologia fondamentale non sembra indifferente.
La rivoluzione di Sigmund Freud, ad esempio, si coglie se si ha il coraggio di affrontare con spirito libero e senza pregiudizi l’essere ebreo del fondatore della psicoanalisi. Un lettore della Bibbia può verificare come Talmud e modi di lettura del testo siano importanti per comprendere L’interpretazione dei sogni . L’ebraicità di Freud è un valore che avvicina in modo significativo il cultore della psiche, che cerca di decifrare i contenuti inconsci attraverso il mondo onirico, e il docente di critica testuale che fa parlare la Parola tramite simboli e immagini.
Discorso simile può essere fatto a proposito di Carl Gustav Jung. Dopo la pubblicazione del Libro Rosso , nel 2010, Jung va riconsiderato, in specie dai teologi: dall’apporto di questi potrebbe venire molto. Un esempio: il «processo di individuazione», cioè la conoscenza e la realizzazione di sé poggiata su riferimenti a Isaia e a Giovanni nel Libro Rosso , è versione moderna e attuale dell’Imitatio Christi , in termini psicologici. Non dimentichiamo che Jung fu psichiatra e in quanto tale ha vissuto in prima persona le sofferenze estreme della psiche che disputa con Dio, come Giobbe, o che del Creato coglie il vuoto, come Qoelet, e rischia di sprofondarci. Sul dolore del singolo e del collettivo fede e psicoanalisi insieme possono chinarsi e farsi prossimo all’uomo.
Il Corriere della sera –
7 giugno 2017
N. CUSANO, un cardinale libero pensatore
Esce una nuova edizione delle opere principali di Niccolò Cusano, da consigliare ai teorici del pensiero unico (oggi moltitudine) convinti che non sia possibile andare oltre i confini concettuali del proprio tempo. Tollerante verso l'Islam, contrario alle crociate, consapevole dei limiti della Chiesa, aperto ai nuovi fermenti generati da una borghesia nascente, Cusano è ancora oggi un esempio di come si possa vivere nel mondo aprendosi senza timori al nuovo.
Maria Bettetini
Niccolò Cusano. Un
filosofo extraterrestre
Pur tra guerre, corruzione, miseria, il Quattrocento europeo continua a stupire con grandi menti, che sono anche uomini d’azione, condottieri, pensatori o artisti. Ecco Nicola da Kues, della diocesi di Trier, nato dal comandante di battello Iohan Krebs, commerciante sulla Mosella, e da Katharina Roemer nel 1401. Niccolò e Cusano sono nomi acquisiti dopo, negli anni romani. Nicola non nasconderà mai le origini borghesi, sia per dimostrare di essere diventato vescovo e cardinale con le proprie forze, sia nei numerosi casi in cui si è scontrato con le famiglie nobili, cercando di limitare le prevaricazioni contro i diritti e i possedimenti ecclesiastici.
La sua forza è nello studio, sempre intenso, mai interrotto, e nella affannosa ricerca di testi antichi che gli permettano di superare le ormai fruste e rigide posizioni dell’aristotelismo scolastico. Platone, Plotino, Proclo e lo Pseudo-Dionigi stanno tornando nelle terre europee, le prime traduzioni dal greco al latino ne permettono comprensione e circolazione, un “nuovo” neoplatonismo fa respirare gli intellettuali del Rinascimento.
I tramiti si chiamano, tra gli altri, Marsilio Ficino, Pietro Balbi, Niccolò Cusano. Ora per la prima volta un unico volume racchiude il testo latino, la traduzione, il commento delle opere di Cusano: le filosofiche, le teologiche e le tre più importanti tra le matematiche, sulla quadratura del cerchio, sui complementi matematici e sulla perfezione matematica, ossia sulla possibilità di arrivare alla perfezione attraverso la famosa coincidenza degli opposti, lasciandosi così condurre dalle realtà matematiche «penitus all’assoluto divino ed eterno», quasi all’assoluto.
Il volume, che supera
le tremila pagine, è curato con grande perizia da Enrico Peroli.
Molti sono i documenti che permettono una buona ricostruzione
dell’ambiente e della vita del cardinale di Kues, che se pur ebbe
amici famosi, come Enea Silvio Piccolomini, fu spesso avversato per
l’intransigenza, e dovette addirittura fuggire dalla diocesi di
Bressanone di cui pur era vescovo. Molto giovane lasciò la casa dei
genitori per studiare prima a Heidelberg, poi a Padova, dove si
laureò in giurisprudenza (divenne doctor decretorum).
Durante un breve soggiorno a Roma ascolta, e non per la prima volta, Bernardino da Siena che invita ad abbandonare i fasti mondani e probabilmente ha grande influenza sul futuro moralizzatore e riformatore della Chiesa, perseverante fino all’ultimo nonostante l’evidente fallimento di tutte le sue campagne. Il ritorno in Germania coincide con le prime letture platoniche, tra queste il Liber de causis, e la fascinazione per le opere di Raimondo Lullo.
Sono gli anni della battaglia tra conciliaristi e papisti, e qui accade qualcosa che sarà fondamentale per la vita di Nicola: inizialmente segue i suoi maestri tra le file conciliariste, sostenendo dunque che l’ultima parola spetta alla maggioranza dei vescovi. Poi però, dopo grandi litigi, aderisce alla minoranza e da quel momento sostiene la posizione del Papa e del suo primato. Una via al successo? Una scelta dottrinale? Uno sgarbo diventato poi presa di posizione? Non lo sappiamo. Sappiamo però che subito Eugenio IV lo manda a Costantinopoli a trattare per la riunificazione delle chiese orientale e occidentale. L’immersione nel mondo culturale greco, il possesso di tanti nuovi manoscritti filosofici, fanno dimenticare il politico che voleva controllare il potere del Papa e che dichiarava un falso la donazione di Costantino (così nella Concordanza cattolica), e promuovono invece il pensatore della coincidenza degli opposti.
Tra il 1438 e il 1440 Cusano compone la sua opera più nota, La dotta ignoranza, e incomincia quella sulle Congetture. Sa di proporre una novità, di agire con «audacia», promette al lettore «cose mai prima udite». Il mondo non è più ordinato tra finito e infinito, vero e falso, sensi e intelletto. La ragione non lo comprende e domina secondo la logica. Nulla è ovvio. Dio è oltre il principio di non contraddizione, in lui gli opposti si annullano e uniscono; l’universo è un grande organismo vivo, ma non è altro rispetto all’infinito divino, ne costituisce semmai un aspetto, una sua contrattura, un suo “modo”, diranno poi altri.
Anche l’intelligenza
umana dunque, per quanto può, deve disporsi a seguire questa
apertura all’infinito, che più che di concetti e differenze si
serve di congetture e somiglianze. Cusano si spingerà anche a
parlare di vita sugli altri pianeti (se l’universo è vivo…), a
rifiutare il geocentrismo, perché solo Dio è centro e circonferenza
del mondo intero. E pensare che queste idee un po’, come dire,
hyppies, erano di un uomo criticato per la sua fedeltà al Papa.
Dopo il fallimento di
Costantinopoli (che sarebbe caduta in mano musulmana nel 1453),
Nicola viene infatti inviato a riformare la Chiesa in Germania e a
ricondurla all’obbedienza. Accusato di panteismo dai tomisti,
sbeffeggiato come «Ercole papista contro i tedeschi», fallisce
anche in questa impresa, i principi e i nobili tengono ben stretti
molti beni della Chiesa, la gestione del clero e dei monasteri è a
dir poco corrotta e fondata su ricchezza e piacere invece che su
sante vite, ma nulla cambia.
E nulla cambierà fino
alla Riforma e alle guerre immediatamente successive, con la
soppressione, di fatto, di clero e monasteri. Continua questo doppio
binario, per Nicola da Cusa: la fermezza della riforma, tentata anche
da cardinale e vescovo a Bressanone, e insieme l’afflato mistico di
opere come i Dialoghi dell’idiota, del sempliciotto che a confronto
del retore appare ignorante ma capace di comprendere, dotato appunto
di «dotta ignoranza».
Gli ultimi anni trascorrono a Roma, dove l’amico Enea Silvio è diventato papa col nome di Pio II. L’accordo è grande tra i due, sul valore degli studi e dei manoscritti. Il disaccordo anche, sul tema dell’ultima crociata, che il Papa chiedeva contro l’Islam.
Da parte sua Nicola ha scritto un’interpretazione “buonista” del Corano, è soprattutto convinto dell’inutilità e della cattiveria delle guerre di religione, molto ha scritto a favore della pace. Muore a Todi nel 1464, quando obbediente sta per raggiungere Pio II alle navi in partenza per la crociata, ad Ancona. Pochi giorni dopo muore però anche il Papa, la crociata non si farà: quel sognatore di Niccolò Cusano ha infine vinto una partita per la pace.
Il Sole 24Ore – 4
giugno 2017
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