Appassionata 1941
Carol Rama: una regina del Novecento
di Alessandra Sarchi
È in corso alla Gam di Torino, fino al 5 febbraio, una grande retrospettiva: La passione secondo Carol Rama, a cura di Paul B. Preciado e Teresa Grandas.
La mostra è la più grande a oggi organizzata sull’artista venuta a
mancare nel 2015, con duecento opere esposte comprese tra il 1936 e il
2005.
Ideata nel 2014 dal Museu d’art contemporain di Barcelona e dal Musée d’art moderne de la ville de Paris, l’esibizione è stata ospitata a Barcellona, a Dublino e a Parigi per approdare nell’ottobre 2016 a Torino, città natale dell’artista.
Tanta visibilità e tanto spazio in istituzioni consacrate all’arte moderna e contemporanea sono un fenomeno abbastanza eccezionale, concesso a nomi di grande richiamo pop, si pensi ad esempio al tour mondiale della mostra su David Bowie curata dal Victoria and Albert Museum, o alla grande esibizione organizzata nel 2007 in onore di Louise Bourgeois alla Tate Gallery di Londra, poi migrata in altre prestigiose sedi.
D’altronde, ben prima che le fosse riconosciuto il Leone d’oro, consegnato dal ministro Urbani a Venezia nel 2003, e ancor prima che nel 2010 il presidente della Repubblica Napolitano le conferisse il premio alla carriera, su invito dell’Accademia di San Luca, un critico rigoroso e finissimo come Paolo Fossati aveva detto di Carol Rama che “s’iscrive nel Novecento da regina”.
Basterebbero il lunghissimo arco temporale in cui si estende la sua produzione (1936-2007), la varietà dei materiali e delle tecniche sperimentate, all’interno di una ricerca originale nei temi e dagli esiti estetici sempre potenti, a farne un’artista di primo interesse nel quadro del Novecento italiano ed europeo.
Eppure, al di fuori del coro di alcuni storici dell’arte e critici come Paolo Fossati, Marco Vallora, Giuliano Briganti, Lea Vergine, Vittoria Cohen e Maria Cristina Mundici, e dell’amico di una vita, Edoardo Sanguineti, che hanno commentato e accompagnato le sue opere, riconoscendone la poetica visionaria e l’intelligenza, Carol Rama è rimasta finora una regina sconosciuta, al grande pubblico almeno.
Per molti, e non solo fra quelli appartenenti alle generazioni più giovani, la mostra torinese può costituire un’occasione di scoperta.
Carol Rama è, infatti, assente dai manuali in uso nei licei e nelle facoltà universitarie dove la storia dell’arte è materia di studio e, per quanto non siano (solo) i manuali scolastici a fornire il canone delle cose da vedere e degli artisti da conoscere, va detto che per i più quella manualistica rappresenta la sola formazione ricevuta sulla disciplina. Si dirà che l’attività di Carol Rama, nata nel 1918 e morta nel 2015, è troppo estesa nel tempo e non ascrivibile a nessuna facile etichetta stilistico-cronologica, di quelle che servono per i raggruppamenti degli artisti nelle antologie e nei compendi per lo studio.
Ma a ben guardare non è solo Carol Rama a mancare: prima di lei non ci sono Suzanne Valadon, Berthe Morisot, Camille Claudel e le altre inglesi e francesi che, fra Otto e Novecento, riuscirono a scavalcare il ruolo di muse e modelle per affermarsi come pittrici e scultrici in proprio; intorno a lei non ci sono le futuriste italiane che un ruolo tanto determinante ebbero all’interno del movimento, come artiste e scrittrici; non ci sono le surrealiste, le cubiste russe; non ci sono le grandissime Sonia Delaunay, Dora Maar, Meret Oppenheim. Non c’è nessuna delle centoquattordici artiste presentate e riunite nella storica mostra milanese del 1980 ideata e curata da Lea Vergine: L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche.
Si rimane perplessi davanti a questa assenza, così ingiustificata e sistematica da risultare sospetta e da provocare ancora la (vecchia) domanda che Linda Nochlin poneva, nel 1971, non solo agli storici dell’arte, ma a tutta la cultura occidentale: Why Have There been no Great Women Artists?
Domanda che potremmo modificare così, oggi che non si può più negare la grandezza, e neppure il successo, di artiste come Kiki Smith, Jenny Holzer, Cindy Sherman o Louise Burgeois: perché le (grandi) donne artiste entrano così a fatica nei testi su cui si studia la storia dell’arte?
Perché dobbiamo andarle a cercare in repertori che già nel titolo sono forme di recinto, di segnale di specie protetta, di ghetto? Tipo: L’arte delle donne, come se le donne producessero un’arte, in essenza, differente da quella degli uomini, e non differente perché diverse erano, e sono, le condizioni materiali e culturali, i ruoli e gli spazi sociali di partenza; quando poi, se si analizzano in modo serio e critico le loro opere, come scrive Linda Nochlin, “artiste e scrittrici mostrano più somiglianze con i loro colleghi maschi, della stessa epoca e corrente di pensiero, che non fra di loro”; ma è altrettanto vero che “la sessualità, il modernismo o la modernità sono organizzati dalla differenza sessuale. Rendersi conto della specificità delle donne significa analizzare storicamente una particolare configurazione della differenza” come afferma Griselda Pollock (2000), dunque si capisce il perché di studi specificamente al femminile.
E comunque anche in questi repertori, questi censimenti secolar-sessuali, come li definisce Lea Vergine, Carol Rama latita o viene menzionata di sfuggita, come se fosse fuori dalla storia, o risultasse difficile trovarle un posto. Oltraggiosa tanto da venire censurata alla sua prima mostra nel 1945, estranea al femminismo italiano degli anni ’60 e ’70, con cui avrebbe potuto condividere molti temi e interessi, isolata nella sua ricerca materica e nella consapevolezza del peso politico dello sguardo sui corpi prima che diventasse di moda parlarne, in che tempo si colloca Carol Rama e perché non l’abbiamo riconosciuta per tempo? Ciò è tanto più paradossale per un’artista dalla fama postuma crescente: mentre a Torino si celebra l’ultima tappa di una maratona europea partita da Barcelona e durata tre anni, da Fergus Mccaffrey, una delle gallerie di arte contemporanea più high brow di New York, si teneva fra settembre e ottobre una mostra di oltre quaranta delle sue opere (http://fergusmccaffrey.com/exhibition/fergus-mccaffrey-new-york-carol-rama-2016/.)
Una regina dunque, indubbiamente, ma senza regno.
Ha ragione Paul B. Preciado, autore del saggio più interessante da un’inedita prospettiva transgender nel catalogo della mostra, a citare ancora una volta Griselda Pollock (1999): “L’assenza di riconoscimento al momento giusto significa che non c’è la possibilità di recuperare l’opportunità persa di essere visti nella propria storia, così come l’assenza dai registri storici o dall’archivio non può mai essere riempita retrospettivamente con ciò che mai è stato detto”.
Se il riconoscimento del grande pubblico è arrivato tardi, troppo tardi per poter cucire intorno all’artista una storia e una geografia a lei consentanee, non sono mancate, come si diceva, preziose e illuminanti tessere critiche, né l’amicizia di altri artisti, scrittori e intellettuali con i quali confrontarsi: frequentatrice dei Casorati, Felice e il figlio Francesco, grazie ai quali conobbe anche i pittori Filippo Sartorio, Italo Cremona e il critico Albino Galvano, tenne lei stessa un salotto ‘artistico’ a partire dalla fine degli anni ‘40 nella casa di via Napione. Vi accoglieva Carlo Mollino, Cesare Pavese, Italo Calvino, Massimo Mila, Albino Galvano, Edoardo Sanguineti, i galleristi Luciano Anselmino, che le farà conoscere Andy Warhol, e Carlo Salzano che ospiterà con regolarità le sue mostre. Fece alcuni viaggi, uno in compagnia di Man Ray, conosciuto tramite Anselmino, altro un per visitare Picasso nel suo studio, dal quale riportò il ferro modellato con cui il pittore appendeva gli stracci per asciugare i pennelli. Objet re-trouvé e feticcio che Carol Rama riprodurrà poi molte volte negli anni ’70.
Per indole e per scelta si era costruita una personalità eccentrica, “Femme de sept visages vue par Man Ray”, come recita il finale di un gioco di parole fatto con il suo nome dall’artista statunitense, non le fu sempre agile vivere all’altezza di quel ruolo. Nel 1964 Albino Galvano scriveva: “Carol Rama non ebbe la vita facile. Faceva troppo comodo a tutti considerarla come una donna intelligente e avvincente, come una perfetta e ardita padrona di casa, come modello di stile femminile audace e aggiornato e “anche” come pittrice interessante.”
Detto da chi era presente in quegli anni, quell’anche pesa come un macigno. Ma lei non se ne fece schiacciare, continuò a produrre opere con essenziale e originale continuità. Ed è nelle sue opere che possiamo trovare l’unico regno possibile di questa regina.
Ideata nel 2014 dal Museu d’art contemporain di Barcelona e dal Musée d’art moderne de la ville de Paris, l’esibizione è stata ospitata a Barcellona, a Dublino e a Parigi per approdare nell’ottobre 2016 a Torino, città natale dell’artista.
Tanta visibilità e tanto spazio in istituzioni consacrate all’arte moderna e contemporanea sono un fenomeno abbastanza eccezionale, concesso a nomi di grande richiamo pop, si pensi ad esempio al tour mondiale della mostra su David Bowie curata dal Victoria and Albert Museum, o alla grande esibizione organizzata nel 2007 in onore di Louise Bourgeois alla Tate Gallery di Londra, poi migrata in altre prestigiose sedi.
D’altronde, ben prima che le fosse riconosciuto il Leone d’oro, consegnato dal ministro Urbani a Venezia nel 2003, e ancor prima che nel 2010 il presidente della Repubblica Napolitano le conferisse il premio alla carriera, su invito dell’Accademia di San Luca, un critico rigoroso e finissimo come Paolo Fossati aveva detto di Carol Rama che “s’iscrive nel Novecento da regina”.
Basterebbero il lunghissimo arco temporale in cui si estende la sua produzione (1936-2007), la varietà dei materiali e delle tecniche sperimentate, all’interno di una ricerca originale nei temi e dagli esiti estetici sempre potenti, a farne un’artista di primo interesse nel quadro del Novecento italiano ed europeo.
Eppure, al di fuori del coro di alcuni storici dell’arte e critici come Paolo Fossati, Marco Vallora, Giuliano Briganti, Lea Vergine, Vittoria Cohen e Maria Cristina Mundici, e dell’amico di una vita, Edoardo Sanguineti, che hanno commentato e accompagnato le sue opere, riconoscendone la poetica visionaria e l’intelligenza, Carol Rama è rimasta finora una regina sconosciuta, al grande pubblico almeno.
Per molti, e non solo fra quelli appartenenti alle generazioni più giovani, la mostra torinese può costituire un’occasione di scoperta.
Carol Rama è, infatti, assente dai manuali in uso nei licei e nelle facoltà universitarie dove la storia dell’arte è materia di studio e, per quanto non siano (solo) i manuali scolastici a fornire il canone delle cose da vedere e degli artisti da conoscere, va detto che per i più quella manualistica rappresenta la sola formazione ricevuta sulla disciplina. Si dirà che l’attività di Carol Rama, nata nel 1918 e morta nel 2015, è troppo estesa nel tempo e non ascrivibile a nessuna facile etichetta stilistico-cronologica, di quelle che servono per i raggruppamenti degli artisti nelle antologie e nei compendi per lo studio.
Ma a ben guardare non è solo Carol Rama a mancare: prima di lei non ci sono Suzanne Valadon, Berthe Morisot, Camille Claudel e le altre inglesi e francesi che, fra Otto e Novecento, riuscirono a scavalcare il ruolo di muse e modelle per affermarsi come pittrici e scultrici in proprio; intorno a lei non ci sono le futuriste italiane che un ruolo tanto determinante ebbero all’interno del movimento, come artiste e scrittrici; non ci sono le surrealiste, le cubiste russe; non ci sono le grandissime Sonia Delaunay, Dora Maar, Meret Oppenheim. Non c’è nessuna delle centoquattordici artiste presentate e riunite nella storica mostra milanese del 1980 ideata e curata da Lea Vergine: L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche.
Si rimane perplessi davanti a questa assenza, così ingiustificata e sistematica da risultare sospetta e da provocare ancora la (vecchia) domanda che Linda Nochlin poneva, nel 1971, non solo agli storici dell’arte, ma a tutta la cultura occidentale: Why Have There been no Great Women Artists?
Domanda che potremmo modificare così, oggi che non si può più negare la grandezza, e neppure il successo, di artiste come Kiki Smith, Jenny Holzer, Cindy Sherman o Louise Burgeois: perché le (grandi) donne artiste entrano così a fatica nei testi su cui si studia la storia dell’arte?
Perché dobbiamo andarle a cercare in repertori che già nel titolo sono forme di recinto, di segnale di specie protetta, di ghetto? Tipo: L’arte delle donne, come se le donne producessero un’arte, in essenza, differente da quella degli uomini, e non differente perché diverse erano, e sono, le condizioni materiali e culturali, i ruoli e gli spazi sociali di partenza; quando poi, se si analizzano in modo serio e critico le loro opere, come scrive Linda Nochlin, “artiste e scrittrici mostrano più somiglianze con i loro colleghi maschi, della stessa epoca e corrente di pensiero, che non fra di loro”; ma è altrettanto vero che “la sessualità, il modernismo o la modernità sono organizzati dalla differenza sessuale. Rendersi conto della specificità delle donne significa analizzare storicamente una particolare configurazione della differenza” come afferma Griselda Pollock (2000), dunque si capisce il perché di studi specificamente al femminile.
E comunque anche in questi repertori, questi censimenti secolar-sessuali, come li definisce Lea Vergine, Carol Rama latita o viene menzionata di sfuggita, come se fosse fuori dalla storia, o risultasse difficile trovarle un posto. Oltraggiosa tanto da venire censurata alla sua prima mostra nel 1945, estranea al femminismo italiano degli anni ’60 e ’70, con cui avrebbe potuto condividere molti temi e interessi, isolata nella sua ricerca materica e nella consapevolezza del peso politico dello sguardo sui corpi prima che diventasse di moda parlarne, in che tempo si colloca Carol Rama e perché non l’abbiamo riconosciuta per tempo? Ciò è tanto più paradossale per un’artista dalla fama postuma crescente: mentre a Torino si celebra l’ultima tappa di una maratona europea partita da Barcelona e durata tre anni, da Fergus Mccaffrey, una delle gallerie di arte contemporanea più high brow di New York, si teneva fra settembre e ottobre una mostra di oltre quaranta delle sue opere (http://fergusmccaffrey.com/exhibition/fergus-mccaffrey-new-york-carol-rama-2016/.)
Una regina dunque, indubbiamente, ma senza regno.
Ha ragione Paul B. Preciado, autore del saggio più interessante da un’inedita prospettiva transgender nel catalogo della mostra, a citare ancora una volta Griselda Pollock (1999): “L’assenza di riconoscimento al momento giusto significa che non c’è la possibilità di recuperare l’opportunità persa di essere visti nella propria storia, così come l’assenza dai registri storici o dall’archivio non può mai essere riempita retrospettivamente con ciò che mai è stato detto”.
Se il riconoscimento del grande pubblico è arrivato tardi, troppo tardi per poter cucire intorno all’artista una storia e una geografia a lei consentanee, non sono mancate, come si diceva, preziose e illuminanti tessere critiche, né l’amicizia di altri artisti, scrittori e intellettuali con i quali confrontarsi: frequentatrice dei Casorati, Felice e il figlio Francesco, grazie ai quali conobbe anche i pittori Filippo Sartorio, Italo Cremona e il critico Albino Galvano, tenne lei stessa un salotto ‘artistico’ a partire dalla fine degli anni ‘40 nella casa di via Napione. Vi accoglieva Carlo Mollino, Cesare Pavese, Italo Calvino, Massimo Mila, Albino Galvano, Edoardo Sanguineti, i galleristi Luciano Anselmino, che le farà conoscere Andy Warhol, e Carlo Salzano che ospiterà con regolarità le sue mostre. Fece alcuni viaggi, uno in compagnia di Man Ray, conosciuto tramite Anselmino, altro un per visitare Picasso nel suo studio, dal quale riportò il ferro modellato con cui il pittore appendeva gli stracci per asciugare i pennelli. Objet re-trouvé e feticcio che Carol Rama riprodurrà poi molte volte negli anni ’70.
Per indole e per scelta si era costruita una personalità eccentrica, “Femme de sept visages vue par Man Ray”, come recita il finale di un gioco di parole fatto con il suo nome dall’artista statunitense, non le fu sempre agile vivere all’altezza di quel ruolo. Nel 1964 Albino Galvano scriveva: “Carol Rama non ebbe la vita facile. Faceva troppo comodo a tutti considerarla come una donna intelligente e avvincente, come una perfetta e ardita padrona di casa, come modello di stile femminile audace e aggiornato e “anche” come pittrice interessante.”
Detto da chi era presente in quegli anni, quell’anche pesa come un macigno. Ma lei non se ne fece schiacciare, continuò a produrre opere con essenziale e originale continuità. Ed è nelle sue opere che possiamo trovare l’unico regno possibile di questa regina.
Nudità
Tra gli anni Trenta e Quaranta del
secolo scorso Carol Rama realizza numerosi acquerelli che ritraggono
corpi nudi, maschili e femminili. Spesso sono circondati da protesi
ortopediche o immobilizzati in lettini di contenzione. A volte sono
corpi mutilati, a volte sono solo parti anatomiche isolate, maschi che
si masturbano davanti a una rosea fanciulla in sedia a rotelle con un
paio di fiammeggianti scarpette rosse ai piedi e un’aiuola fiorita in
testa, donne che a loro volta ricercano il piacere nel proprio corpo.
Lingue rosse e appuntite che si proiettano dai volti dominati da niente
altro che l’immanenza del desiderio esposto, e ironicamente simbolizzato
con serpenti che escono da vagine e ani, o dal bisogno corporale, come
in Marta, un grande nudo femminile ripreso di spalle mentre sta
defecando. Questi fogli raggruppati nella serie di “Appassionata” e
“Dorina” si accompagnano a serie in cui oggetti come palette, pennelli
da barba, scopini da cesso, pissoirs, scarpe e dentiere si accampano
come feticci o come prolungamenti di un corpo, assente sul foglio, ma
sempre presente nel produrre un ordine simbolico. I colori pastello che
si accendono nella gamma dei rossi e dei viola, il tratto fine che fa
vibrare i contorni, la totale assenza di una collocazione
spazio-temporale, se non quella che fa da nicchia o da aura al corpo e
agli oggetti, rendono stranamente accostanti nella loro presenza tutta
pittorica queste immagini di un mondo altrimenti opprimente o da tenere
nascosto: la demenza della nonna Carolina, la dimestichezza con
l’ospedale psichiatrico dove la madre di Rama venne ricoverata, il
fallimento della fabbrica di componenti per automobili del padre e il
suo suicidio, il laboratorio di protesi dello zio. Non ne scaturisce
tuttavia un percorso memoriale e intimistico, piuttosto questi fantasmi
una volta evocati si animano di una vitalità propria, sono stati
concepiti dall’autrice per guardarci, e non per essere guardati, fuori
da qualsiasi tentazione voyeuristica o morbosa. Lo sguardo di Rama è
frontale e totale. L’origine du monde di Courbet viene
riscattata dalla passività cui il pittore francese relega il corpo
femminile negandocene la testa: le vagine di Carol Rama hanno testa e
lingua, spesso più di una, a suggerire il riappropriarsi del desiderio,
della corporalità anche quando questa è dolente, bassamente creaturale.
Le date di questi acquarelli si scalano fra il 1936 e il 1944, vale la pena rievocare cosa dipingessero in Italia le donne e gli uomini a quelle date: corpi antichi e fieri di idealizzata italica bellezza secondo l’estetica fascista, scomposizioni post-cubiste di paesaggi e oggetti in movimento, aerei in volo, e automobili in corsa, atleti, donne madri-matrone, donne propagatrici della summenzionata italica progenie; perfino un temperamento introspettivo e un sicuro talento artistico come quello di Benedetta Cappa, moglie di Marinetti, si concedeva, come massima defezione dal credo futurista, una velatura mistica ed esoterica nei suoi quadri, nelle sue parolibere e nei suoi scritti.
Carol Rama non aveva nessuna tangenza con tutto ciò, e il buon costume borghese insieme all’ombra lunga della repressione fascista non avevano gli occhi per collocare gli acquerelli di Rama nel solco della sperimentazione che era stata dell’ultimo Rodin o di Egon Schiele, li censurarono.
La sua prima mostra a Torino nel 1945, pare abbia chiuso il giorno stesso in cui aprì, col risultato che quelle immagini velate, terribili ma anche giocose e ironiche che accoglievano, senza alcuna retorica del dramma, il desiderio, una materia indistintamente sessualizzata, corpi imperfetti, malattia, e rabbia, tanta energica rabbia, non si videro più fino ai tardi anni ’70 del Novecento, quando alla Galleria Martano di Torino si allestì una sua mostra, il catalogo venne curato da Paolo Fossati, e Sanguineti compose versi per accompagnare le immagini: “le lingue esposte lunghe (esperte), e i cazzi / contundenti (a tensione, a contenzione): / (i corpi, insomma): e i lacci, e i ganci (e i pazzi): / le lame (e le parrucche) e la frizione / (frigida) delle ruote, con i mazzi / delle rotelle, delle braccia: (e azione / di carrozzine, carrozzelle), e i razzi / dei riccioli (amputati): (e correzione) / (corruzione) di teste (e primavere / testicolari) di gambe: i macelli / (le macellaie), i coltelli, e le vere / scarpe: i pesci esibiti (e reti, e anelli) / i mezzi pezzi (imputati): e le fiere / i mercati: (fioriscono i capelli).
Maria Cristina Mundici (2016) nota che la carriera artistica di Rama, dal 1947 sempre presente a Biennali e Quadriennali d’arte, si svolse poi in maniera autonoma dai quei ‘sepolti’ acquerelli iniziali che in tempi recenti le sono valsi tanta notorietà.
Le date di questi acquarelli si scalano fra il 1936 e il 1944, vale la pena rievocare cosa dipingessero in Italia le donne e gli uomini a quelle date: corpi antichi e fieri di idealizzata italica bellezza secondo l’estetica fascista, scomposizioni post-cubiste di paesaggi e oggetti in movimento, aerei in volo, e automobili in corsa, atleti, donne madri-matrone, donne propagatrici della summenzionata italica progenie; perfino un temperamento introspettivo e un sicuro talento artistico come quello di Benedetta Cappa, moglie di Marinetti, si concedeva, come massima defezione dal credo futurista, una velatura mistica ed esoterica nei suoi quadri, nelle sue parolibere e nei suoi scritti.
Carol Rama non aveva nessuna tangenza con tutto ciò, e il buon costume borghese insieme all’ombra lunga della repressione fascista non avevano gli occhi per collocare gli acquerelli di Rama nel solco della sperimentazione che era stata dell’ultimo Rodin o di Egon Schiele, li censurarono.
La sua prima mostra a Torino nel 1945, pare abbia chiuso il giorno stesso in cui aprì, col risultato che quelle immagini velate, terribili ma anche giocose e ironiche che accoglievano, senza alcuna retorica del dramma, il desiderio, una materia indistintamente sessualizzata, corpi imperfetti, malattia, e rabbia, tanta energica rabbia, non si videro più fino ai tardi anni ’70 del Novecento, quando alla Galleria Martano di Torino si allestì una sua mostra, il catalogo venne curato da Paolo Fossati, e Sanguineti compose versi per accompagnare le immagini: “le lingue esposte lunghe (esperte), e i cazzi / contundenti (a tensione, a contenzione): / (i corpi, insomma): e i lacci, e i ganci (e i pazzi): / le lame (e le parrucche) e la frizione / (frigida) delle ruote, con i mazzi / delle rotelle, delle braccia: (e azione / di carrozzine, carrozzelle), e i razzi / dei riccioli (amputati): (e correzione) / (corruzione) di teste (e primavere / testicolari) di gambe: i macelli / (le macellaie), i coltelli, e le vere / scarpe: i pesci esibiti (e reti, e anelli) / i mezzi pezzi (imputati): e le fiere / i mercati: (fioriscono i capelli).
Maria Cristina Mundici (2016) nota che la carriera artistica di Rama, dal 1947 sempre presente a Biennali e Quadriennali d’arte, si svolse poi in maniera autonoma dai quei ‘sepolti’ acquerelli iniziali che in tempi recenti le sono valsi tanta notorietà.
A vederli ora sembrano, in effetti, dipinti oggi.
Appassionata 1941
Marta 1940
Dorina 1940
Cose, cose, esasperatamente cose
Negli anni cinquanta Carol Rama aderì al
Mac, movimento per l’arte concreta, lo spazio e le geometrie astratte
si affacciarono nei suoi dipinti per un breve periodo con memorie delle
preziosità grafiche di Paul Kleee avvitate in spazi che salivano e
ascendevano; ma non doveva sentirsi del tutto pronta o del tutto a
proprio agio con questi strumenti per affrontare il tema della
spazialità che l’avrebbe occupata in seguito.
Ci sarebbe arrivata dalle cose, dagli
oggetti che andava esplorando negli anni ‘60 in un recupero tutto suo
della tradizione novecentesca del collage: cannule vaginali, biglie,
siringhe, colla vinavil, chicchi di riso, pelo, unghie, chiodi, capelli,
occhi di vetro, pellicce di animali, fili di ferro si raggrumano su
fogli e tele sempre secondo un’impeccabile senso compositivo e
coloristico.
Le macchie e le superfici esplose di
colore, i fili che s’intersecano, i numeri e le parole che s’intravedono
tra occhi di vetro e altri manufatti organici o inorganici, gli
algoritmi della bomba atomica tra nuvole sulfuree catturano lo sguardo
per la loro ritmica interna, per la struttura che costruiscono, in
seguito arrivano i titoli a suggerire che ci sia altro da vedere, che
l’animalità ferita o desiderante dei primi acquerelli sia migrata in
questi assemblaggi guadagnando in tridimensionalità e, paradossalmente,
in astrazione. Di queste opere, alcune delle quali presentano suoi versi
manoscritti, Sanguineti disse che ricordavano le forme di conoscenza
delle società primitive tramite la pratica del bricolage, il termine gli
derivava dal libro di Lévi Strauss, tradotto in Italia nel 1964: Il pensiero selvaggio.
Il poeta e l’artista erano diventati così prossimi che Carol Rama dichiarava: “infilo le sue storie innestate sulle mie”.
Composizione 1951
Contessa 1963
Spazio più che tempo
Con una scrittura che voleva entrare in
mimesi con l’oggetto della sua attenzione Paolo Fossati descriveva, nel
1995, lo studio-abitazione di Rama, considerandolo, a ragione, un’opera
non meno significativa delle altre. Anzi l’opera che per estensione
aiutava a spiegare le altre, in un certo senso comprendendole tutte.
L’intuizione di Fossati era che molto del lavoro artistico di Rama
ruotasse intorno a uno sporgersi sullo spazio, conquistandolo,
definendolo: “i suoi quadri non contengono lo spazio, uno spazio, ma
sono lo spazio”. Tematica che a ben guardare ha in sé la consapevolezza
politica, del dove si è e cosa si è, dell’essere sempre uno sguardo
collocato, che permette a Rama di porre le proprie idiosincrasie, i
propri oggetti di affezione in rapporto col mondo e con la storia.
Le stanze dell’appartamento-studio di via Napione, di cui cui Cristina Mundici ha ricostruito la vita nel bellissimo libro, Il magazzino dell’anima,
divennero progressivamente un “unico corpo-casa, grande intessuto abito
appartamento” secondo la definizione di Marco Vallora. La disposizione
degli oggetti e dei mobili: un atelier permanente, ma anche un esercizio
compositivo che portava la quotidianità, coi suoi oggetti memoriali,
coi suoi feticci, con i suoi scarti merceologici e industriali, nella
forma artistica.
Un poderoso esercizio compositivo sullo
spazio domina anche le opere di Rama negli anni ’70, quando inizia a
lavorare con le gomme di camere d’aria di biciclette e auto. La
vicinanza tattile della gomma con la pelle umana suggerisce un nuovo
ordito simbolico di visceri, membri afflosciati, anatomie umane che
sporgono, si fanno scultura come nella serie di Birnam, o al
contrario si tendono in strisce levigate che aderiscono alla tela e per
differenza cromatica creano spessori di profondità nella serie Arsenale e Spazio più che tempo.
E ancora di dominio dello spazio si deve parlare quando si affrontano
le pitture che Rama sovrappone a fogli catastali a partire dalla metà
degli anni ’80, creando degli ipertesti visivi dove convivono vecchie e
nuove ossessioni. Rane, uccelli, falli, angeli, lingue arrossate e
ancora animali fantastici e totemici. E spaziale è ancora la ricerca che
domina gli anni ’90 con la serie de La mucca pazza sono io,
che vede l’uso di sacchi postali come supporto e poi di gomme e di
pittura in una mescolanza di superfici lisce, ruvide e scabrose che
rendono la folle immedesimazione panica dell’artista nell’animale
ammalato per una forma di autocannibalismo indotto dall’industria
alimentare.
Un impazzimento inguaribile, come
inguaribili Carol Rama ha sempre considerato le proprie manie, ben
sapendo che erano il pozzo magico cui attingeva per la propria arte e
che “i dolori, se te li coccoli con un po’ di gentilezza, li sopporti
meglio”.
Presagi di Birnam 1970
La Mucca Pazza 1997
Bibliografia citata e consultata:
Arte a parte: donne artiste fra margini e centro, a cura di Maria Antonietta Trasforini, Franco Angeli, Milano 2000
Bartolena S., Arte al femminile: donne artiste dal Rinascimento al XXI secolo, Electa, Milano 2003.
Bonito Oliva A., Carol Rama dal presente al passato, 1994-1936, Bocca editori, Milano 1994
Galvano A. e Sanguineti E., Carol Rama, Galleria Stampatori, 1964.
Fossati P., Carol Rama, 12 opere 1937-1941. Opere 1978-1979, Galleria Martano, Torino 1979.
La Passione secondo Carol Rama,
catalogo della mostra, a cura di Paul B. Preciado e Teresa Grandas,
Torino Gam 16 ottobre 2016-5 febbraio 2017, Silvana Editoriale,
Cinisello Balsamo, 2106.
L’arte delle donne nell’Italia del Novecento, a cura di Laura Iamurri e Sabrina Spinazzé, Meltemi, Roma 2001
Le stanze di Carolina 1939-1994, testi di Fossati P., Trento D. con una nota biografica di Perosino M. e una poesia di Sanguineti E., Nuovagrafica, Carpi, 1995.
Mundici M. C., con fotografie di Ghiotti B., Carol Rama. Il magazzino dell’anima, Skirà, Milano 2014
Nochlin L., Perché non ci sono state grandi artiste, (ed. orig. 1971) trad. it. di Jessica Perna, Castelvecchi, Roma, 2014.
Petersen K., Donne artiste: il ruolo della donna nella storia dell’arte dal Medioevo ai giorni nostri, Savelli, Roma 1978.
Pollock G., Visions and Difference. Femininity, Feminism and the Histories of Art, Routledge, London 1988, riedito e ampliato nel 2003.
Eadem, Old Bones and Cocktail Dresses: Louise Bourgeois and the question of Age, in Oxford Journal, 22 (1999), n. 2.
Spirale di dolcezza + Serpe di fascino. Scrittrici futuriste. Antologia, a cura di Bello Minciacchi C., Bibliopolis, Napoli 2007
Tozzato L. e Zambianchi C., Edoardo Sanguineti, Carol Rama, Franco Masoero edizioni d’arte, Torino 2002
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Weller S., Il complesso di Michelangelo. Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte italiana del Novecento, La Nuova Foglio Editrice, Macerata 1976.
Articolo pubblicato il 25 gennaio 2017 in http://www.leparoleelecose.it/?p=28629
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