Philip Roth, come faccio a dirti addio
di Luca AlvinoDopo aver letto della clamorosa decisione di Philip Roth di chiudere definitivamente con la scrittura, ho ripensato alla visita che Mickey Sabbath, stanco di un’esistenza ormai completamente allo sbaraglio, compie nello scalcinato cimitero ebraico del New Jersey in cui è sepolta tutta la sua famiglia. Dopo aver scelto con grande accuratezza la posizione e le dimensioni della propria tomba, il tipo di bara, il rabbino e la lapide, egli lascia scritto in una busta il testo dell’epitaffio destinato a illustrare il senso della sua vita interamente consacrata all’irrisione e alla dissolutezza: «Morris Sabbath / “Mickey” / Amato Puttaniere, Seduttore, / Sodomizzatore e Sfruttatore di Donne, / Distruttore della Morale, Corruttore della Gioventù / Uxoricida / Suicida / 1929 – 1994». In tanta colossale indifferenza nei confronti dell’opinione e del consenso altrui, mi è sembrato di intuire quale possa essere oggi l’atteggiamento divertito dello scrittore verso tutte le ipotesi e le chiacchiere che nel mondo si sono sollevate dopo la divulgazione della notizia.
Eppure, per me non sarà facile accettare che uno come Roth abbia deciso di smettere di scrivere. Nel 2009, poche settimane dopo l’uscita dell’Umiliazione – e dunque solamente tre anni fa –, in un’intervista per la rivista web «The Daily Beast», aveva confidato a Tina Brown di volersi dedicare alla scrittura di un lungo romanzo che lo tenesse impegnato per il tempo rimanente della sua esistenza. In tal modo aveva lasciato intendere di non essere in grado nemmeno di concepire la propria vita senza la scrittura; come se, per sentirsi pienamente vivo, avesse bisogno di dare sfogo fino alla fine alla propria energia creativa. Cosa è cambiato, dunque, in soli tre anni? Cosa lo ha convinto ad abbandonare il suo prolifico impegno letterario che sembrava destinato a una così felice inesauribilità?
Lo scrittore spiega in questo modo la propria scelta: «Scrivere è avere torto tutto il tempo… Si passa il tempo a buttar giù parole sbagliate, frasi sbagliate, storie sbagliate. Ci si sbaglia in continuazione, si fallisce continuamente e si vive in una frustrazione perpetua. Si passa il tempo a dirsi: questo non funziona, devo ricominciare». Si tratta dunque solamente del confronto quotidiano con l’errore? Dello sforzo di affrontare ogni giorno il vaglio severo dell’autocritica e l’opera faticosa di un incessante lavoro di lima? Ma cosa ne è stato di quell’urgenza che ha infiammato la sua ispirazione fino a poco tempo fa, e che gli ha fatto produrre – proprio al termine della sua lunghissima carriera – dei libri vigorosi come Indignazione o Nemesi? Che cosa della straordinaria intensità di personaggi indimenticabili, come lo Svedese in Pastorale americana o Coleman Silk nella Macchia umana? Per tentare di comprendere qualcosa in più su questa sconcertante decisione, è opportuno affrontare una questione fondamentale: cosa ha significato, davvero, la scrittura nel pensiero e nell’opera di Philip Roth.
Nella scrittura, diversamente che nella vita, la forma non è un contenitore statico, quanto un itinerario la cui mèta viene continuamente differita. Laddove gli eventi dell’esistenza assumono una propria immutabilità nell’atto stesso dell’accadere, la letteratura è destinata a rimanere a lungo nel crogiolo della gestazione creativa prima di acquisire la sua forma definitiva. Mentre la storia assume rapidamente la propria conformazione, costretta dalla inarrestabile violenza delle circostanze, nella scrittura nulla può definirsi concluso fin quando l’autore non si ritiene soddisfatto di ciò che ha scritto. Fino ad allora, tutto è in perenne trasformazione, soggetto a una consistenza formale aleatoria, a una fluttuazione continua dei rapporti causali e temporali. Da un lato questa duttilità è carica di un enorme potenziale. D’altro canto, la laboriosità e la durata del processo creativo si rivelano condizioni estremamente faticose.
Nell’intervista al settimanale francese «Les inRocks» in cui ha rivelato di voler smettere di scrivere, Roth ha dichiarato: «Scrivere, per me, è sempre stato molto difficile. Il mio problema è che da bambino mi sono innamorato della letteratura. Solo più tardi ho pensato di fare lo scrittore. Ci ho provato e la cosa ha funzionato fino a un certo punto. Credetemi, avessi potuto fare qualcos’altro di meglio, l’avrei fatto volentieri!». Per Roth la difficoltà della scrittura non consiste solamente nella fatica che essa richiede – che pure deve essere enorme per uno scrittore come lui, attento fino all’estremo alla precisione lessicale di ogni singolo vocabolo. Scrivere è difficile perché con la scrittura egli non tenta di nascondere le contraddizioni della storia, quanto di portare allo scoperto il disordine che la abita. E lo fa mettendo continuamente in gioco la propria vita, senza temere di contaminare la realtà con la finzione, arrivando a distorcere persino la propria stessa identità.
In Inganno, la moglie del narratore scopre casualmente un taccuino lasciato incustodito dal marito scrittore. Nel taccuino si alternano gli appunti per un romanzo alle trascrizioni dei dialoghi che l’uomo intrattiene con la sua amante. Ovviamente, la donna fa una scenata. Ora, il narratore si chiama Philip Roth, e nega con fastidio qualsiasi corrispondenza tra il contenuto del taccuino e la vita reale. Egli le spiega che il Philip di cui parla il taccuino non è il Philip della realtà, bensì una sua proiezione letteraria; e la moglie, non del tutto convinta, gli chiede di eliminare dal testo il nome Philip, nel caso in cui intenda pubblicarlo:
– «Philip, hai un portacenere?» Potresti cambiarlo in «Nathan», no?, se dovesse venir pubblicato.
– Tu pensi? No. Non è Nathan Zuckerman. Il romanzo è Zuckerman. Il taccuino sono io.
– Mi hai appena detto che non sei tu.
– No, ti ho detto che sono io, nell’immaginazione. È la storia di un’immaginazione che si innamora.
La distinzione tra Roth e Zuckerman è una sottolineatura importante.
Data la loro somiglianza, infatti, per i lettori è spesso facile
confondere l’uno con l’altro: entrambi sono nati a Newark negli anni
trenta, entrambi sono degli scrittori, entrambi vengono da una famiglia
ebrea tradizionale. Tuttavia, il Philip Roth della vita reale non
corrisponde a Nathan Zuckerman (e nemmeno al Philip Roth personaggio,
protagonista di Inganno e di altri tre romanzi). Ma neanche il
Philip Roth del taccuino corrisponde in tutto e per tutto al Philip Roth
della realtà. O meglio, è lui, ma proiettato nell’universo purificato
della finzione. Non si può dire che non sia facile fare confusione.– Tu pensi? No. Non è Nathan Zuckerman. Il romanzo è Zuckerman. Il taccuino sono io.
– Mi hai appena detto che non sei tu.
– No, ti ho detto che sono io, nell’immaginazione. È la storia di un’immaginazione che si innamora.
Nel Fantasma esce di scena, un Nathan Zuckerman di settant’anni, reso impotente e incontinente dall’asportazione chirurgica della prostata, si innamora di una brillante giovane trentenne, e inizia a corteggiarla con prudenza, frenato dall’impossibilità di intraprendere con lei una vera e propria relazione sentimentale. Ciononostante, egli sente l’esigenza di mettere per iscritto il dialogo immaginario che non ha l’opportunità di intrattenere realmente con la donna. La potenza del non detto rivendica sulla storia una preminenza che al reale viene preclusa dalla caducità che lo contraddistingue. Il dialogo immaginario si rivela assai più interessante, più seducente, più coinvolgente di quello autentico. Per la maggior parte degli uomini, il dolore della vita reale è già abbastanza terribile da non aver bisogno di amplificazioni letterarie. Tuttavia, precisa Roth, «per poche, pochissime persone quest’amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica sicurezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più». Certamente Philip Roth appartiene a questa speciale categoria di persone. Ma egli sa bene che anche il non vissuto, il frutto di un appassionato vagheggiamento letterario, quando entra in contatto con la caducità della vita reale è destinato a un’ineludibile decadenza. Anche Rodolphe, l’irresistibile amante di Emma Bovary, con il trascorrere del tempo perde inevitabilmente il proprio fascino, e si trasforma a poco a poco in Léon, il marito zoticone.
Philip Roth ha vissuto tutta la sua esistenza rivendicando con lealtà e abnegazione la preminenza della letteratura sulla vita, prestandosi a una continua, ardita contaminazione tra realtà e scrittura. Oggi, al termine della sua lunga carriera, egli ha riletto gli autori amati in giovinezza: Dostoevskij, Turgenev, Conrad, Hemingway. E ripercorrendo con sguardo rinnovato i propri romanzi, si è certamente imbattuto nell’ultima, memorabile pagina di Ho sposato un comunista, nella quale, riflettendo su cosa resta dopo la morte delle passioni che fanno deflagrare la vita degli uomini durante la loro esistenza, contempla un universo pacificato «dove l’errore non ha corso», finalmente privo di rivalità, nel quale «non esiste il tradimento, non esiste l’idealismo, non esiste falsità». E infine affrancato dalla tirannia dell’antagonismo, assurge a quell’olimpo di riferimenti assoluti in cui soltanto i grandissimi possono abitare.
Dal nostro archivio, un pezzo di Luca Alvino apparso su minima&moralia il 5 febbraio 2013.
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Questo pezzo è uscito anche sulla rivista Orlando esplorazioni. (Fonte immagine)
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