21 agosto 2017

CORREGGIO A PARMA


Cinquecento anni fa Correggio dipingeva il suo capolavoro a Parma. Tra simboli e misteri rinascimentali.

Antonio Rocca

Il codice nascosto nella stanza della badessa
Tutto comincia con un errore di traduzione. Artefice ne fu Calcidio, filosofo neoplatonico del IV secolo, appartenente a una delle ultime generazioni in grado di comprendere il greco. Mentre il dominio di Roma cade in pezzi, Calcidio legge in lingua il "Timeo" e lo commenta in latino, componendo l'unica versione del testo disponibile agli studiosi del mondo occidentale sino alle soglie del Rinascimento. Quando si trova di fronte al passaggio 52d, nel quale Platone fonda l'universo sulla spazialità primaria, Calcidio decide di rendere il termine "kora" con la parola latina "silva", dando vita a una tradizione che persiste sino ai nostri giorni.

Tra VII e VIII secolo sulla stessa via si pone Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa e autore di un testo di fantasiose quanto autorevoli etimologie. Isidoro consolidò definitivamente il legame tra selva e materia, facendo derivare il termine silva da hyle, vocabolo greco per materia. Da quel momento, e per sempre, quando parliamo di selva non ci limitiamo a ragionare di un bosco, lo dimostrano gli affreschi di Correggio per la Camera della badessa a Parma, che si avviano a compiere cinquecento anni. Ma non solo: procediamo per gradi. Il caso più noto è quello della Commedia.

Dante si sveglia in un sogno di materia e s'aggira in una foresta di simboli che confusamente rimandano a una dimensione altra. Il viandante, come un re decaduto, cerca la strada per tornare alla casa del padre. A muoverlo è la nostalgia, il dolore provocato dal desiderio di tornare in un luogo ignoto. Ancora in una selva si trova Polifilo, l'eroe di una battaglia d'amore in sogno, pubblicata alla fine del 1400, in quello che è stato definito il "romanzo" capolavoro del Rinascimento: l'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Certo, oramai erano disponibili versioni corrette del testo di Platone, ma il nesso tra selva e materia era diventato patrimonio comune. Il Timeo è il manuale su cui s'era basata la cosmogonia medievale e Raffaello non esita a scegliere proprio quell'opera per inserirla tra le braccia di Platone, nella Scuola d'Atene.

Egidio Antonini, generale degli agostiniani, una manciata di anni dopo, compone le Sententiae ad mentem Platonis, nelle quali affronta dal punto di vista teologico il tema della selva. L'anima è prigioniera del mondo materiale e per liberarsene deve farsi cacciatrice, trovare le tracce di un Dio che non ha piedi né mani. Nasce così la sacra venatio o teologia simbolica, motivo che sarà ripreso da Girolamo Seripando, futuro generale dell'ordine nel quale aveva militato Martin Lutero. Al termine del Cinquecento sarà Giordano Bruno, a trarre il frutto più interessante dai lavori di Seripando. Negli

Eroici furori, il filosofo di Nola trasforma il mito di Diana e Atteone nella narrazione del momento apicale della sacra caccia. Il cacciatore ha finalmente trovato Diana, l'anima divina celata nella selva del mondo materiale, ed è allora che i cani lo divorano. I segugi, scrive Bruno, sono la razionalità che è necessaria ad attraversare il mondo e che deve condurci sino alla conclusione di quei sentieri interrotti di fronte ai quali dobbiamo affidarci alla fede e al volo. Sbranato, Atteone è liberato dalla prigione corporea e si ricongiunge con il divino, dando termine a quell'odissea nella natura che è la vita umana.

È questa una vicenda di cacce e foreste, di labirinti e voli, di morti simboliche e rinascite che innerva il tessuto di miti e letteratura, che forse non sarebbe stata se Calcidio non avesse consapevolmente deciso di tradire Platone, di renderlo moderno e in grado di affrontare un viaggio lungo più di mille anni. Poi le cose sono cambiate e oggi il termine selva ha smarrito gran parte della sua gamma di accezioni, eppure se ignoriamo quell'errore di traduzione è impossibile leggere frammenti importanti della nostra storia e alcune tra le immagini che la compongono.

E qui ritorniamo alla Camera della badessa di Parma, il capolavoro di Correggio. Roberto Longhi ha descritto gli affreschi del convento di San Paolo come una "delicata egloga venatoria", Erwin Panofsky ha invece riconosciuto nel camerino della badessa Giovanna da Piacenza la rappresentazione di un teatro sapienziale. La stanza è ripartita in sedici spicchi che sono pretesto per la realizzazione di un pergolato in trompe l'oeil. Dalle pareti muove un architrave che ospita arieti ed elementi conviviali. Il lessico è quello della mnemotecnica con rimandi al sistema zodiacale di Metrodoro di Scepsi e al Theatro di Giulio Camillo, ci sono anche citazioni precise dei falsi geroglifici ideati da Francesco Colonna per il Sogno di Polifilo.

Alla complessità dell'opera si è tentato di rispondere con una molteplicità di vie d'accesso, esperite per tentare di carpirne il segreto. Accanto ai riferimenti venatori, a quelli mnemotecnici o sapienziali, è stato individuato anche il tentativo di dare forma agli aneliti di riforma che attraversavano alcuni ambienti religiosi italiani.

Un assedio ermeneutico fruttuoso e che ritrova una visuale privilegiata a partire da Calcidio e dal suo maggiore interprete negli anni Dieci del Cinquecento, appunto, Egidio da Viterbo. Le sue Sententiae hanno appena cominciato a circolare quando Egidio diventa cardinale e acquisisce un ruolo di primo piano anche nella diocesi di Parma, retta da una sua vecchia conoscenza, il concittadino Alessandro Farnese. Tra il 1517, data di Wittenberg, e il 1519, anno in cui l'umanista Giulio Camillo ed Egidio s'incontrano a Roma, Correg- gio lavora per la badessa e trasfigura la committente nella protagonista della sacra caccia.

Sedici immagini di memoria si distribuiscono con un ritmo quaternario sulle pareti. Lo spettatore è preso in una foresta di simboli che trasforma il cacciatore in preda. Sul triangolo del camino è raffigurato il trionfo di Giovanna- Diana che, abbandonata vittoriosa la caccia, può finalmente volgere il carro verso la casa del padre. I putti hanno profumi verdi come prati; mentre tutt'attorno sembra di cogliere altre suggestioni corrotte, ricche e trionfanti che cantano il trasporto dello spirito e dei sensi. Ma queste ultime sono solo anacronistiche corrispondenze.


La repubblica – 3 agosto 2017

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