Cinquecento anni fa
Correggio dipingeva il suo capolavoro a Parma. Tra simboli e misteri
rinascimentali.
Antonio Rocca
Il codice nascosto
nella stanza della badessa
Tutto comincia con un
errore di traduzione. Artefice ne fu Calcidio, filosofo neoplatonico
del IV secolo, appartenente a una delle ultime generazioni in grado
di comprendere il greco. Mentre il dominio di Roma cade in pezzi,
Calcidio legge in lingua il "Timeo" e lo commenta in
latino, componendo l'unica versione del testo disponibile agli
studiosi del mondo occidentale sino alle soglie del Rinascimento.
Quando si trova di fronte al passaggio 52d, nel quale Platone fonda
l'universo sulla spazialità primaria, Calcidio decide di rendere il
termine "kora" con la parola latina "silva",
dando vita a una tradizione che persiste sino ai nostri giorni.
Tra VII e VIII secolo
sulla stessa via si pone Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa e
autore di un testo di fantasiose quanto autorevoli etimologie.
Isidoro consolidò definitivamente il legame tra selva e materia,
facendo derivare il termine silva da hyle, vocabolo greco per
materia. Da quel momento, e per sempre, quando parliamo di selva non
ci limitiamo a ragionare di un bosco, lo dimostrano gli affreschi di
Correggio per la Camera della badessa a Parma, che si avviano a
compiere cinquecento anni. Ma non solo: procediamo per gradi. Il caso
più noto è quello della Commedia.
Dante si sveglia in un
sogno di materia e s'aggira in una foresta di simboli che
confusamente rimandano a una dimensione altra. Il viandante, come un
re decaduto, cerca la strada per tornare alla casa del padre. A
muoverlo è la nostalgia, il dolore provocato dal desiderio di
tornare in un luogo ignoto. Ancora in una selva si trova Polifilo,
l'eroe di una battaglia d'amore in sogno, pubblicata alla fine del
1400, in quello che è stato definito il "romanzo"
capolavoro del Rinascimento: l'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco
Colonna. Certo, oramai erano disponibili versioni corrette del testo
di Platone, ma il nesso tra selva e materia era diventato patrimonio
comune. Il Timeo è il manuale su cui s'era basata la cosmogonia
medievale e Raffaello non esita a scegliere proprio quell'opera per
inserirla tra le braccia di Platone, nella Scuola d'Atene.
Egidio Antonini, generale
degli agostiniani, una manciata di anni dopo, compone le Sententiae
ad mentem Platonis, nelle quali affronta dal punto di vista teologico
il tema della selva. L'anima è prigioniera del mondo materiale e per
liberarsene deve farsi cacciatrice, trovare le tracce di un Dio che
non ha piedi né mani. Nasce così la sacra venatio o teologia
simbolica, motivo che sarà ripreso da Girolamo Seripando, futuro
generale dell'ordine nel quale aveva militato Martin Lutero. Al
termine del Cinquecento sarà Giordano Bruno, a trarre il frutto più
interessante dai lavori di Seripando. Negli
Eroici furori, il
filosofo di Nola trasforma il mito di Diana e Atteone nella
narrazione del momento apicale della sacra caccia. Il cacciatore ha
finalmente trovato Diana, l'anima divina celata nella selva del mondo
materiale, ed è allora che i cani lo divorano. I segugi, scrive
Bruno, sono la razionalità che è necessaria ad attraversare il
mondo e che deve condurci sino alla conclusione di quei sentieri
interrotti di fronte ai quali dobbiamo affidarci alla fede e al volo.
Sbranato, Atteone è liberato dalla prigione corporea e si
ricongiunge con il divino, dando termine a quell'odissea nella natura
che è la vita umana.
È questa una vicenda di
cacce e foreste, di labirinti e voli, di morti simboliche e rinascite
che innerva il tessuto di miti e letteratura, che forse non sarebbe
stata se Calcidio non avesse consapevolmente deciso di tradire
Platone, di renderlo moderno e in grado di affrontare un viaggio
lungo più di mille anni. Poi le cose sono cambiate e oggi il termine
selva ha smarrito gran parte della sua gamma di accezioni, eppure se
ignoriamo quell'errore di traduzione è impossibile leggere frammenti
importanti della nostra storia e alcune tra le immagini che la
compongono.
E qui ritorniamo alla
Camera della badessa di Parma, il capolavoro di Correggio. Roberto
Longhi ha descritto gli affreschi del convento di San Paolo come una
"delicata egloga venatoria", Erwin Panofsky ha invece
riconosciuto nel camerino della badessa Giovanna da Piacenza la
rappresentazione di un teatro sapienziale. La stanza è ripartita in
sedici spicchi che sono pretesto per la realizzazione di un pergolato
in trompe l'oeil. Dalle pareti muove un architrave che ospita arieti
ed elementi conviviali. Il lessico è quello della mnemotecnica con
rimandi al sistema zodiacale di Metrodoro di Scepsi e al Theatro di
Giulio Camillo, ci sono anche citazioni precise dei falsi geroglifici
ideati da Francesco Colonna per il Sogno di Polifilo.
Alla complessità
dell'opera si è tentato di rispondere con una molteplicità di vie
d'accesso, esperite per tentare di carpirne il segreto. Accanto ai
riferimenti venatori, a quelli mnemotecnici o sapienziali, è stato
individuato anche il tentativo di dare forma agli aneliti di riforma
che attraversavano alcuni ambienti religiosi italiani.
Un assedio ermeneutico
fruttuoso e che ritrova una visuale privilegiata a partire da
Calcidio e dal suo maggiore interprete negli anni Dieci del
Cinquecento, appunto, Egidio da Viterbo. Le sue Sententiae hanno
appena cominciato a circolare quando Egidio diventa cardinale e
acquisisce un ruolo di primo piano anche nella diocesi di Parma,
retta da una sua vecchia conoscenza, il concittadino Alessandro
Farnese. Tra il 1517, data di Wittenberg, e il 1519, anno in cui
l'umanista Giulio Camillo ed Egidio s'incontrano a Roma, Correg- gio
lavora per la badessa e trasfigura la committente nella protagonista
della sacra caccia.
Sedici immagini di
memoria si distribuiscono con un ritmo quaternario sulle pareti. Lo
spettatore è preso in una foresta di simboli che trasforma il
cacciatore in preda. Sul triangolo del camino è raffigurato il
trionfo di Giovanna- Diana che, abbandonata vittoriosa la caccia, può
finalmente volgere il carro verso la casa del padre. I putti hanno
profumi verdi come prati; mentre tutt'attorno sembra di cogliere
altre suggestioni corrotte, ricche e trionfanti che cantano il
trasporto dello spirito e dei sensi. Ma queste ultime sono solo
anacronistiche corrispondenze.
La repubblica – 3
agosto 2017
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