Perché è importante far conoscere Marcinelle ai
ragazzi di oggi. |
L’8
agosto 1956 in quella miniera belga morirono 262 giovani di 12 nazionalità, 136
erano italiani. Una tragedia europea anche perché il carbone serviva a risollevare
le sorti del nostro Paese e del Continente. Chi ignora questa storia non capirà mai
i migranti odierni.
Paolo Di Stefano
Oggi, 8 agosto, ricorre il 60°
anniversario della tragedia di Marcinelle. Che cosa ne sappiamo di quel che
accadde quel giorno? Che cosa sappiamo di quel che avvenne prima e di quel che
avvenne dopo? Nulla. Provate a chiedere che cosa fu Marcinelle a un ragazzo non
dico di 13, ma di 18 anni. Provate a chiedere a un trentenne o a un
cinquantenne. Avrete risposte vaghe. Solo i vecchi italiani ricordano qualcosa
di quella giornata del 1956. Quella mattina, prima delle 8, una rara giornata
di sole, al Bois du Cazier, la vecchia miniera del distretto di Charleroi in
Belgio, un incidente a 975 metri sottoterra scatenò un incendio che investì
subito gallerie e cunicoli, sopra e sotto, ovunque. Mezz’ora prima, erano scesi
274 minatori nei vari livelli, fino a -1.035 metri. 262 giovani sarebbero
morti, 136 erano italiani. Ne uscirono vivi solo 12, tra cui il molisano
Antonio Iannetta, che secondo le ricostruzioni provocò il disastro: aveva
inserito male un carrello pieno di carbone nell’ascensore, l’ascensore chissà
come e perché (un equivoco con l’operaio di superficie) partì e il vagonetto
che fuoriusciva andò a sbattere contro una trave, pochi metri sopra, dove
correvano vicinissimi i tubi dell’olio e i cavi elettrici. Lo schianto provocò
il fuoco. I responsabili se la presero comoda: non era la prima volta che
succedeva un incidente (anche mortale). Le operazioni di soccorso furono lente,
i pompieri arrivarono a mezzogiorno quando già il fumo usciva dalle ciminiere,
il cielo era diventato nero e le donne erano attaccate alle grate del cancello
ad aspettare e a piangere.
Sono passati sessant’anni, ma per le vedove, gli orfani, i vecchi minatori,
l’incidente di Marcinelle (che chiamano, con parola mezzo italiana e mezzo
francese, la «catastròfa») è avvenuto ieri. Hanno ancora negli occhi quella
mattina e l’attesa delle giornate successive. Due settimane dopo un
soccorritore italiano sarebbe tornato in superficie urlando la verità a cui nessuno
voleva credere: «Tutti cadaveri!». I tre processi condannarono a sei mesi con
la condizionale il direttore della miniera; gli amministratori e gli ingegneri
(responsabili delle incurie, della pessima manutenzione e delle bestiali
condizioni di lavoro) non vennero toccati dalla giustizia. I parenti dovettero
pagare le spese giudiziarie. Il testimone principe, Iannetta, era stato mandato
in Canada (era il suo desiderio) a processo in corso. Il re Baldovino era
accorso subito, il giorno stesso, le autorità italiane non si mossero da Roma.
Eravamo dei poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o
un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano
i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni
e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati
nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di
benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non
voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo
italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno
scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia
almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce (su Marcinelle è
appena uscito da Donzelli un libro-inchiesta di Toni Ricciardi).
Che cosa rimane di tutto ciò nella memoria degli italiani? La «catastròfa» è la prima
grande tragedia dell’Italia repubblicana: una tragedia europea, perché quel
carbone sarebbe servito a risollevare le sorti non solo dell’Italia ma
dell’Europa del dopoguerra. Quel giorno morirono uomini di 12 nazionalità
diverse (gli italiani furono i più numerosi). Rimane ben poco. Qualche
rievocazione per gli anniversari. Cosa ne sanno i giovani di quel che eravamo
non due secoli ma sessant’anni fa (nel 1965 altri 56 operai italiani sarebbero
morti a Mattmark, in Svizzera, per il crollo di una diga)? Che cosa ne sanno
del razzismo di cui erano vittime gli italiani («Né cani né italiani» era il
divieto appeso sulle porte dei locali pubblici in Belgio)? È cambiato tutto.
Abbiamo vissuto il boom economico mentre ancora si emigrava in Svizzera e in
Germania per fare lavori pericolosi. Nelle scuole bisognerebbe rendere
obbligatorio il capitolo: «Emigrazione italiana», nelle famiglie bisognerebbe
parlare anche del nostro passato doloroso. Per educare i nostri figli a
guardare con occhi più consapevoli alle emigrazioni degli altri, quelle che
oggi dobbiamo «subire». Esercitare la memoria, individuale e collettiva, a
futura memoria.
CORRIERE DELLA SERA 8 agosto 2016
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