12 agosto 2017

IL VIAGGIO NELL'ITALIA CHE NON C'E' PIU' DI GUIDO PIOVENE




Il viaggio in Italia di Guido Piovene, un'occasione per rileggerlo
Renato Minore

“Comincio questo viaggio senza preamboli. Sono curioso dell’Italia, degli italiani e di me stesso, che cosa ne uscirà, non saprei anticiparlo”. AH, l'Italia degli An¬ni Cinquanta, l'Ita¬lia umile e imprevedibi¬le, provinciale e laborio¬sa, avviata verso un «pe¬riodo di benessere me¬dio», dall'estremo nord fino a Pantelleria, regio¬ne per regione, provincia per provincia, protagoni¬sta assoluta del Viaggio in Italia di Guido Piovene che ora torna a circolare (Bompiani, 890 pagine, 20 euro). Con i suoi guai, vizi, nodi che alla fine somigliano molto a quelli di questi nostri giorni, convulsi e tormentati. A Trieste da pochi me¬si ritornata in Italia c'e ancora il poeta Saba «naso ricurvo, pelle di pergamena, l'occhio chiaro brillante, vecchio e insieme infantile». E il suo dramma è «d'essere nato di temperamento idillico in una città tragi¬ca». A Milano, nel «sancta sanctorum» della Banca Commerciale, c'è il banchiere umanista Mattioli circon¬dato da gente che si chia¬ma Solmi, il poe¬ta, e Gerbi, l'economista. Per lui «ad¬dottrinato, meridionale e arguto», irriverente come il Galiani, gli affari devo-no essere «scritti con co¬raggio e sincerità, non vergati dalla presunzio¬ne, dall'egoismo, dall'avarizia, dal timore delle for¬ze storiche». A Firenze, insieme a Salvemini, c'è il novantenne Berenson, «ultimo testi-mone di una civiltà qua¬si sparita» che sta ulti¬mando l'immenso catalo¬go di tutte le opere d'arte italiane nel mondo. E nel Sud incontri dappertutto una schiera d’intellettua¬li minori, lucidi, e nevra¬stenici «perché non sono riusciti a usare la loro in¬telligenza e la loro prepa¬razione».
In quell'Italia di più di sessanta anni fa, dove quasi in ogni contrada del Mezzogiorno c'è una Madonnina che s'è mes¬sa a lacrimare e dove si è appena ultimata la rifor¬ma agraria, Piovene si sposta per conto della Rai per una quarantina di mesi, fino al 1956. E' un viaggiatore di antico stampo, il modello (dichiarato) è Montaigne: storia di cit¬tà, ma anche storia di va¬ria umanità, storia di co¬stumi, di abitudini. L'es¬senziale non è lo spunto polemico, la questioncella giornalistica, ma una sorta di sguardo antropo¬logico che fissa grandez¬ze e miserie del territorio e soprattutto della gente. Ma sempre nel «segno del concreto», non lasciando¬si fuorviare per «pretese caratteristiche perenni dell'Italia e dei suoi abi¬tanti». Piovene si appas¬siona a freddo, lucida¬mente dei suoi argomen¬ti, non ha bisogno dell'ef¬fetto o dell'effettaccio, ri¬fiuta di immergersi (ad esempio) nel colore e nel folklore del Sud che que¬gli stessi anni, produce molti accaldati testimo¬ni.
Tra le molte passioni, il patrimonio artistico. E in quegli anni nasce una ta¬be che abbiamo pesante¬mente scontato. Ne è simbolo quel certo co¬struttore che copre col ce¬mento la metropoli appe¬na scoperta e irride alla passione con cui il so¬printendente l'avrebbe protetta. Per «affarismo, ignoranza, demagogia» si distrugge di tutto in que¬gli anni. Il ritratto di Pa¬lermo è impressionante: i gattopardi sono arroccati nel loro antichissimo e anacronistico privilegio che si spezza e i nuovi ricchi investono i guada¬gni in edifici nuovi di speculazione.Ma ovunque in questa Italia tra ricostruzione e boom economico le ferite sono profonde e la¬ceranti e domina «lo spi¬rito villano» che distrug¬ge tutto. Dominano gli af¬faristi e i sociologi in un tacito accordo basato sul¬la convinzione che «con-tino solo i problemi di denaro e di cibo».
Scoprendo l’Italia come, in una precedente inchiesta, aveva scoperto l’America, l'infuriato Piovene do¬sa la sua passione, la di¬stribuisce equamente. Di città piccole o grandi, che vivono austeramente arroccate nel proprio bla¬sone o che dimostrano una vitalità dirompente che ricorda il Far West, racconta le storie minime, i perso¬naggi, i miti e le leggende. Il suo racconto ha il passo lungo di chi sa che co¬munque bisogna compor¬re un quadro, con le luci e con le ombre e nel qua¬dro i particolari si disse¬minano. Ed è stato forte¬mente e inutilmente imi¬tato questo Viaggio in Italia, prodotto di una ci¬viltà letteraria sul punto di scomparire. Dopo, chi lo imita, scivola nel gior-nalismo tecnico, più spe¬cializzato di una famosa inchiesta fatta dai miglio¬ri inviati del «Corriere» negli Anni Sessanta. Op¬pure, quasi trent'anni do¬po, Ceronetti ver¬sa lacrime amare e irritazione sugli stessi luoghi in cui Piovene dispensa il suo illuministico talento. Piovene racconta in un ritmo e un tempo di nar¬razione che non è più il nostro. Il «viaggio» nasce per radio e sembra risen¬tire di quelle arcate dello stile, di quel bisogno di comunicazione per nulla riduttivo che è stato del¬la migliore radio in que¬gli anni. Anche se accen¬na al fenomeno di un'Ita¬lia tutta ferma davanti al fenomeno di Lascia o raddoppia?, la scrittura di Piovene è estranea a quella velocizzazione che tutto il giornalismo ha in quegli anni proprio di fronte al nuovo televisi¬vo.
Sono racconti animati di storia e cultura i suoi, spinti da una curio¬sità che lo porta a interes¬sarsi degli orafi sardi o di certe pratiche culinarie vissute con gioia accanto ai protagonisti. In quell’Italia che si dibatte “tra le spire di un’età ingrata, di una perenne adolescenza”, un Paese ancora per molti aspetti rurali (ma con se¬gni disordinati di moder¬nità) e con una società «la più mobile, flui¬da, distruttrice d'Eu¬ropa», lo scrittore può piazzare i bersa¬gli polemici. Ad esempio il frenetico vitalismo poli¬tico che cova i mali che poi abbiamo tutti penato, fino a Tan¬gentopoli e oltre. Ad esempio:, l'amplesso continuo, «il marxismo che oc¬chieggia al cattolicesimo e viceversa» che blocca le forze legate a un’autentica trasformazione politica e sociale. Ad esempio: la scarsità di prestigio «dell'intelligen¬za italiana» e la mode¬stia della sua «capacità di irradiazione». Gli in¬tellettuali di Piovene so¬no irrimediabilmente pic¬coli borghesi, coltivano stolti sogni di gloria e si addensano in spazi dove domina la «socievolezza invidiosa», dove l'acca-parramento reciproco non «è mosso dall'amo¬re», lo stringersi l'uno all’'altro è «per denigrarsi l'uno con l'altro», l'ansie¬tà è di «fuggire e insieme di sorvegliarsi perché nes¬suno si sottragga alla sor¬te».
Eppure, ovunque domi¬na l'impressione che il li¬vello economico sia mi¬gliorato. E determina an¬che il contrasto «tra le esigenze della produttivi¬tà la quale aumenta la ricchezza, e della giusti¬zia sociale, che vuole ri¬partirla in maniera più equa». L'Italia degli anni Cinquanta ha sotto pelle tutta la potenza anche di¬struttiva o negativa che esploderà più tardi. E' un'Italia che non rie¬sce a essere moderna fi¬no in fondo e improvvi¬samente diventa «il Paese d'Euro¬pa più duro da vivere». E lo scrittore non si è mai cullato in idilli né in visioni d'apo¬calisse: è stato fedele al suo «Tour», alle sorpre¬se, alle conferme o alle smentite raccolte. Per queste ragioni il Viaggio in Italia riletto oggi non è una curiosità di tempi or¬mai preistorici. Ma mol¬to si interroga, partendo da un “lontano” quasi side¬rale, sui nostri attuali ma¬lesseri, la buona letteratura ha sempre qualche potere profetico, “sa guardare indietro per guardare avanti”. E molto ci aiuta a comprendere meglio quel carattere nazionale che resiste alle mode e ai rovesci della storia, in una pro¬spettiva meno soffocante con cui ogni giorno quei vizi, quei nodi,quei guai dell’antropologia del Belpaese sono ancora in bella evidenza sulle pagine dei giornali, nelle tv, nel fluire della Rete.


Renato Minore nel Messaggero del 9 agosto  2017 

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