Quando non esisteva
ancora l’arte della stampa la materiale sopravvivenza delle opere
poetiche era più che dubbia. Gran parte della letteratura greca non
è riunta fino a noi: molto di più della latina, ma non senza grosse
lacune. Se il Satyricon fosse stato «tirato» a diecimila
copie noi lo conosceremmo per intero e sapremmo se i suoi presunti
numerosi volumi formavano un’opera a modo suo organica, una sorta
di Ulysses del suo tempo. Se possedessimo un esemplare a
stampa della Commedia uscito dai torchi sotto il controllo
dell’autore molte dotte induzioni e ricerche ci sarebbero state
risparmiate (non in tutti i casi analoghi, se si pensa alle
differenze che si notano tra una copia e l’altra del primo Ortis).
Prima dell’invenzione
di Gutenberg la selezione delle opere letterarie era dunque affidata
al caso: pochi i codici, molti gli incendi e le distruzioni. E oggi?
Oggi si direbbe a prima vista che tutto quel che si stampa sia
destinato a durare per molti secoli. Ed è infinitamente probabile
che nelle cantine e nei sottoscala di qualche biblioteca la maggior
parte dei libri che si vengono pubblicando resti a disposizione di
sempre più rari studiosi. Ma il vero problema non è questo: è
piuttosto nella moltiplicazione delle lingue che stanno creandosi una
loro letteratura e nella proliferazione (e nella conseguente usura)
dei vari linguaggi, sempre più desunti non dalla tradizione
illustre, ma dai dialetti e dai vocabolari tecnici. Mentre si
universalizzano le mode, i costumi, il comportamento, un moto
contrario di specificazione capillare si avverte nella lingua degli
scrittori. Non si scrive più nella lingua di tutti, la lingua,
suppergiù, che parlavano i nostri padri, ma nel gergo del proprio
clan, del proprio mestiere, in quest’ora e in questo momento.
Essere originali oggi significa essere incomprensibili dieci anni
dopo.
Moltiplicate questo stato
di cose per forse trenta, quaranta letterature in fieri e ditemi che
cosa sarà, nei secoli futuri, lo sterminato ginepraio della
letteratura mondiale. Le traduzioni? Le opere originali sono poco
traducibili; e saranno anche tanto numerose da scoraggiare posteri
sempre più impegnati nella «produzione».
Sopravviveranno soltanto
alcune opere delle lingue egemoniche, eventualmente la russa e
l’inglese? Impossibile fare previsioni; da molti indizi si direbbe
che l’arte della parola sia in via di esaurimento perché esistono
forme di comunicazione molto più dirette; e in fondo il linguaggio
espressionistico che «mima» il parlato di tutti i giorni tende
piuttosto al grugnito e all’interiezione che alla parola nel suo
limite semantico. È possibile che tra qualche secolo si formi un
pidgin universale molto adatto alle didascalie di film e agli
annunzi pubblicitari (ed anche, in parte, a una rudimentale
conversazione), ma che le vere e proprie lingue letterarie esistenti
oggi siano accessibili solo a rari specialisti.
E di quella che fu la
letteratura italiana che cosa potrà sopravvivere? Diceva un giorno
Missiroli: «Non si può essere un grande poeta bulgaro»; e cioè
che una letteratura esiste solo quando ha dietro di sé un peso, una
somma di valori storici culturali ed economici. Solo allora il mondo
se ne accorge. (Si accorgerà di noi, dell’Italia fanfanesca di
oggi, il mondo di domani? Si vorrebbe sperarlo, ma purtroppo, con
Gutenberg o senza Gutenberg, le vie della distruzione sono infinite).
Corriere della sera, 5
maggio 1963
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