Contro la retorica del suicidio
Franco Fortini
Le considerazioni che qui
seguono sono in memoria dei tanti giovani che negli anni Settanta
sono deliberatamente usciti dalla vita disperando di poter diminuire
l’infamia della società in cui si erano trovati a vivere. Sappiamo
bene che la distruzione di sé ha motivi occulti alla coscienza. Ma
ci basta che una società abbia fornito, oltre alle armi, le parole
della disperazione, le sue razionali ragioni, perché il giudizio che
su di essa avevamo potuto pronunciare nella prima metà della nostra
vita non abbia più bisogno di essere rinnovato ma solo eseguito. Non
siamo in essa che degli emigrati interni o dei latitanti. Però
questo plurale non è di maestà ma di verità. Non sono solo, voglio
dire. Si pronunci dunque qualcosa contro la retorica della morte.
Il 19 gennaio 1778 a
Weimar, Goethe scrive alla von Stein a proposito della «povera
Christel» von Lassberg che si era suicidata per amore, gettandosi
nella Ilm presso la casa di Goethe e col Werther in tasca:
«Ora, col giardiniere, ho scavato un bel pezzetto di roccia e di lì,
del tutto appartati, si domina il suo ultimo cammino e il luogo del
suo trapasso. Abbiamo lavorato sino a notte, poi ho continuato io
solo sino all’ora della sua morte: era una sera come questa. Orione
brillava in cielo come quando noi venimmo lietamente a cavallo da
Tiefurt. Ho già abbastanza ricordi e pensieri; non posso uscire
ancora di qui. Buona notte, angelo, si abbia riguardo e resti a casa.
Questa mestizia invitante ha una pericolosa attrazione al pari
dell’acqua, e le stelle del cielo dall’una e dall’altra
riflesse ci affascinano. Buona notte».
Questa sembra a me una
delle grandissime liriche di Goethe. Vorrei la si rileggesse e si
rilevasse soprattutto la geniale diversione che Goethe esegue per
dire-tacere la propria tentazione al suicidio, attribuendone il
pericolo a Carlotta: «si abbia riguardo e resti in casa». E se a un
lettore veloce possono rimanere in mente solo le immagini di mestizia
e di stelle che si riflettono nell’acqua, con una sua geniale
specularità geometrica Goethe situa invece le stelle tanto in fondo
alla «mestizia» quanto «all’acqua» quasi identificando
sentimento e natura e comunque non opponendoli.
Il 16 febbraio 1910, a
Gorizia, otto mesi prima di uccidersi, Carlo Michelstaedter scrive
all’amico Mreule, a proposito del lavoro che sta compiendo nel
primo anniversario della tragica scomparsa di suo fratello Gino,
avvenuta a New York: «Ho dovuto lavorare giorno e notte, e per
sorvegliare i lavori che mal fatti prima si son dovuti in massima
parte rifare e far disegni minuziosi dei dettagli, e per far con le
mie mani quello che gli altri dicevano di non saper fare. Per tre
giorni lavorai da un fabbro per scolpire due maniglie di ferro, che
fuse in ghisa sarebbero state deboli... Ma quando lunedì al tramonto
— appena finiti i lavori — collocai l’urna nel sepolcro e
abbandonai con i miei che piangevano il cimitero dove ancora ardeva
il fuoco che ci aveva servito a lavorare, allora sentii che per la
morte avevo lavorato e mi riconobbi vuoto e miserabile e impotente».
Poche righe prima,
l’accento della lettera già batteva il ritmo della prosa di La
persuasione e la rettorica che il giovane goriziano andava
scrivendo in quel periodo, senza sapere fino in fondo di star facendo
«con le sue mani quello che gli altri dicevano di non saper fare».
Qui si legge chiaro come una filosofia e una cultura, quella del
maggior decadentismo, non consentendo l’uso della metafora ma solo
quella del simbolo e dell’allegoria, non permette come a Goethe la
circonlocuzione e conduce a morte, non in figura — come con Werther
— ma nella realtà.
La sera di sabato 6
giugno del 1908, vigilia di Pentecoste, fu a Firenze una bella sera
calda anche se in cielo «andavano nuvoloni scuri». Michelstaedter
ventunenne ne scrive alla famiglia: «Stasera vado a sentire un
concerto...». «Sabato 6 giugno (1908), Santa Croce. San Lorenzo con
Irma. Acquistiamo dei quadri. Il Bargello. La sera, soli: un bacio
nel buio» è una annotazione del diario di Gyorgy Lukàcs, ventitré
anni. La donna che riceve quel bacio è Irma Seidel. Si erano
incontrati sei mesi prima.
Erano — come i nostri
Settanta — anni di suicidi fra intellettuali e donne di
intellettuali, inutile fare elenchi. Ma il 16 aprile del 1907 a
Firenze si era uccisa Nadia, una giovane signora russa che
profondamente aveva segnato così il destino di Michelstaedter. Il
goriziano si toglie la vita nell'ottobre del 1910. La pittrice amica
di Lukàcs, il 18 maggio del 1911. Pochi giorni dopo Lukàcs ne
riceve la notizia a Firenze: «Lei era tutto... ora si è spezzato
ogni filo. Ora c’è solo il lavoro — finché reggo».
Di questi tempi quel
Lukàcs è di moda. Quello che secondo la quarta di copertina del
Diario 1910-11 (Adelphi) era, sappiatelo, «un grande
saggista» che «avrebbe poi passato buona parte della sua vita a
punirsi». Nello stesso volumetto, straricco e policromo come un
Klimt, un saggio di Massimo Cacciari (con la nota intelligenza, lesa
tuttavia dalla certezza degli applausi) introduce alla seconda città
danubiana, esaurita Vienna. In questa ottica, la storia di amore e
morte del giovane Lukàcs (che già Agnès Heller aveva raccontata in
una pubblicazione di sei anni fa) non può non avere un mediocre
sapore di Kitsch.
Eppure, nonostante
l’occasionale attraversarsi delle due vite in quella Firenze e
attraverso l’impero asburgico — Vienna, Trieste, Budapest — le
letture filosofiche comuni, l’accento comune della scrittura di
quella età, il senso della tragedia e dell’assoluto,
Michelstaedter non è un «fratello di strada» neanche di quel
Lukàcs. Una volta mi piaceva fantasticare di un incontro occasionale
dei due, a Firenze. Cittadini asburgici entrambi ed ebrei, avrebbero
conversato non già nelle rispettive lingue nazionali ma in tedesco;
e avrebbero parlato di teatro, perché quella era allora, con la
filosofia, la loro grande passione. Poi sarebbero partiti per tornare
al di là della frontiera italiana. L’uno a morire, appena avesse
finito di scrivere La persuasione e la rettorica; l’altro
per continuare, attraverso due guerre mondiali, la rivoluzione russa,
gli anni di Stalin, l’atomica e la rivolta ungherese, una vita che
non avrebbe mai cessato di interrogarsi sulle proprie ragioni. E
«solo il dio» sa quale delle due sorti sia stata la migliore.
Dice la Heller — in
pagine sgradevolmente concitate ma, in sostanza, esatte — che
Lukàcs indusse Irma al ruolo che in una leggenda popolare ungherese
ha la «moglie del muratore»: solo il suo sangue cementa per sempre
il castello che egli deve costruire. Se si legge il diario di Lukàcs
si vede che per mesi, per quei mesi, egli è ossessionato, come certo
lo fu Goethe, dall’idea del suicidio. Ma, come Werther o la povera
Christel muoiono perché Goethe possa scrivere, anche in loro nome,
tutta la propria opera, così Irma Seidel muore perché Lukàcs non
muoia anzi esca dalla giovanile tragedia, e dall’eroismo
sacrificale, verso una verità e un errore maggiori, ossia verso quel
che, filosoficamente, saranno per lui Hegel e Marx e,
esistenzialmente, la milizia politica, l’accanita opera
intellettuale, il lavoro ostinato e affascinato dalla Oggettività.
Lukàcs vuole con la
propria opera essere l’ultimo beneficiario dei suicidi rituali e
dei dolori inesausti che da millenni si propongono alle figure
femminili, alle mogli e amanti e madri e vergini madri perché
crescano indistruttibili le mura e le opere da cui si originano i
sensi di colpa degli uomini. Anche Goethe lo avrebbe voluto; ed anche
per questo la sua opera è popolata da donne che muoiono o vengono
sacrificate. Però, a differenza, non solo di Goethe o dello stesso
Marx ma anche di Mann (che non potevano non porglisi di fronte come
modelli), Lukàcs vuol leggere nel moto storico il cammino che va
verso la fine dei sacrifici rituali; non solo dunque di quelli che
sono eredità di costumi premoderni ma anche di quelli di cui era
carica la sua età ed è ancora la nostra. Che tutto questo abbia
condotto, durante la sua e nostra vita adulta, ad ecatombi
sterminate, è quanto gli ha fatto dire, o almeno sembra, dopo il
1968 di Praga, che forse quel che si era iniziato nel 1917 era
fallito e che si sarebbe dovuto tutto ricominciare in altro luogo e
tempo. Che è solo un modo di dire quel che anche Ernst Bloch aveva
detto. Ed è singolare che la storia abbia costretto i due antichi
amici (divisi e anche opposti, poi, per tanti anni) a ritrovarsi nel
«Principio Speranza»: e cioè che quanto non è stato realizzato
non è stato neppure dimostrato irrealizzabile. «Buona notte,
angelo, si abbia riguardi e resti a casa». Abbiamo «riguardo», non
usciamo a lasciarci tentare dal suicidio e dall'omicidio. Dobbiamo
esserci tutti.
In Insistenze, Garzanti 1985
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