06 agosto 2017

FRANCO FORTINI CONTRO LA RETORICA DEL SUICIDIO




Contro la retorica del suicidio

 Franco Fortini


Le considerazioni che qui seguono sono in memoria dei tanti giovani che negli anni Settanta sono deliberatamente usciti dalla vita disperando di poter diminuire l’infamia della società in cui si erano trovati a vivere. Sappiamo bene che la distruzione di sé ha motivi occulti alla coscienza. Ma ci basta che una società abbia fornito, oltre alle armi, le parole della disperazione, le sue razionali ragioni, perché il giudizio che su di essa avevamo potuto pronunciare nella prima metà della nostra vita non abbia più bisogno di essere rinnovato ma solo eseguito. Non siamo in essa che degli emigrati interni o dei latitanti. Però questo plurale non è di maestà ma di verità. Non sono solo, voglio dire. Si pronunci dunque qualcosa contro la retorica della morte.
Il 19 gennaio 1778 a Weimar, Goethe scrive alla von Stein a proposito della «povera Christel» von Lassberg che si era suicidata per amore, gettandosi nella Ilm presso la casa di Goethe e col Werther in tasca: «Ora, col giardiniere, ho scavato un bel pezzetto di roccia e di lì, del tutto appartati, si domina il suo ultimo cammino e il luogo del suo trapasso. Abbiamo lavorato sino a notte, poi ho continuato io solo sino all’ora della sua morte: era una sera come questa. Orione brillava in cielo come quando noi venimmo lietamente a cavallo da Tiefurt. Ho già abbastanza ricordi e pensieri; non posso uscire ancora di qui. Buona notte, angelo, si abbia riguardo e resti a casa. Questa mestizia invitante ha una pericolosa attrazione al pari dell’acqua, e le stelle del cielo dall’una e dall’altra riflesse ci affascinano. Buona notte».
Questa sembra a me una delle grandissime liriche di Goethe. Vorrei la si rileggesse e si rilevasse soprattutto la geniale diversione che Goethe esegue per dire-tacere la propria tentazione al suicidio, attribuendone il pericolo a Carlotta: «si abbia riguardo e resti in casa». E se a un lettore veloce possono rimanere in mente solo le immagini di mestizia e di stelle che si riflettono nell’acqua, con una sua geniale specularità geometrica Goethe situa invece le stelle tanto in fondo alla «mestizia» quanto «all’acqua» quasi identificando sentimento e natura e comunque non opponendoli.
Il 16 febbraio 1910, a Gorizia, otto mesi prima di uccidersi, Carlo Michelstaedter scrive all’amico Mreule, a proposito del lavoro che sta compiendo nel primo anniversario della tragica scomparsa di suo fratello Gino, avvenuta a New York: «Ho dovuto lavorare giorno e notte, e per sorvegliare i lavori che mal fatti prima si son dovuti in massima parte rifare e far disegni minuziosi dei dettagli, e per far con le mie mani quello che gli altri dicevano di non saper fare. Per tre giorni lavorai da un fabbro per scolpire due maniglie di ferro, che fuse in ghisa sarebbero state deboli... Ma quando lunedì al tramonto — appena finiti i lavori — collocai l’urna nel sepolcro e abbandonai con i miei che piangevano il cimitero dove ancora ardeva il fuoco che ci aveva servito a lavorare, allora sentii che per la morte avevo lavorato e mi riconobbi vuoto e miserabile e impotente».
Poche righe prima, l’accento della lettera già batteva il ritmo della prosa di La persuasione e la rettorica che il giovane goriziano andava scrivendo in quel periodo, senza sapere fino in fondo di star facendo «con le sue mani quello che gli altri dicevano di non saper fare». Qui si legge chiaro come una filosofia e una cultura, quella del maggior decadentismo, non consentendo l’uso della metafora ma solo quella del simbolo e dell’allegoria, non permette come a Goethe la circonlocuzione e conduce a morte, non in figura — come con Werther — ma nella realtà.
La sera di sabato 6 giugno del 1908, vigilia di Pentecoste, fu a Firenze una bella sera calda anche se in cielo «andavano nuvoloni scuri». Michelstaedter ventunenne ne scrive alla famiglia: «Stasera vado a sentire un concerto...». «Sabato 6 giugno (1908), Santa Croce. San Lorenzo con Irma. Acquistiamo dei quadri. Il Bargello. La sera, soli: un bacio nel buio» è una annotazione del diario di Gyorgy Lukàcs, ventitré anni. La donna che riceve quel bacio è Irma Seidel. Si erano incontrati sei mesi prima.
Erano — come i nostri Settanta — anni di suicidi fra intellettuali e donne di intellettuali, inutile fare elenchi. Ma il 16 aprile del 1907 a Firenze si era uccisa Nadia, una giovane signora russa che profondamente aveva segnato così il destino di Michelstaedter. Il goriziano si toglie la vita nell'ottobre del 1910. La pittrice amica di Lukàcs, il 18 maggio del 1911. Pochi giorni dopo Lukàcs ne riceve la notizia a Firenze: «Lei era tutto... ora si è spezzato ogni filo. Ora c’è solo il lavoro — finché reggo».

Di questi tempi quel Lukàcs è di moda. Quello che secondo la quarta di copertina del Diario 1910-11 (Adelphi) era, sappiatelo, «un grande saggista» che «avrebbe poi passato buona parte della sua vita a punirsi». Nello stesso volumetto, straricco e policromo come un Klimt, un saggio di Massimo Cacciari (con la nota intelligenza, lesa tuttavia dalla certezza degli applausi) introduce alla seconda città danubiana, esaurita Vienna. In questa ottica, la storia di amore e morte del giovane Lukàcs (che già Agnès Heller aveva raccontata in una pubblicazione di sei anni fa) non può non avere un mediocre sapore di Kitsch.
Eppure, nonostante l’occasionale attraversarsi delle due vite in quella Firenze e attraverso l’impero asburgico — Vienna, Trieste, Budapest — le letture filosofiche comuni, l’accento comune della scrittura di quella età, il senso della tragedia e dell’assoluto, Michelstaedter non è un «fratello di strada» neanche di quel Lukàcs. Una volta mi piaceva fantasticare di un incontro occasionale dei due, a Firenze. Cittadini asburgici entrambi ed ebrei, avrebbero conversato non già nelle rispettive lingue nazionali ma in tedesco; e avrebbero parlato di teatro, perché quella era allora, con la filosofia, la loro grande passione. Poi sarebbero partiti per tornare al di là della frontiera italiana. L’uno a morire, appena avesse finito di scrivere La persuasione e la rettorica; l’altro per continuare, attraverso due guerre mondiali, la rivoluzione russa, gli anni di Stalin, l’atomica e la rivolta ungherese, una vita che non avrebbe mai cessato di interrogarsi sulle proprie ragioni. E «solo il dio» sa quale delle due sorti sia stata la migliore.
Dice la Heller — in pagine sgradevolmente concitate ma, in sostanza, esatte — che Lukàcs indusse Irma al ruolo che in una leggenda popolare ungherese ha la «moglie del muratore»: solo il suo sangue cementa per sempre il castello che egli deve costruire. Se si legge il diario di Lukàcs si vede che per mesi, per quei mesi, egli è ossessionato, come certo lo fu Goethe, dall’idea del suicidio. Ma, come Werther o la povera Christel muoiono perché Goethe possa scrivere, anche in loro nome, tutta la propria opera, così Irma Seidel muore perché Lukàcs non muoia anzi esca dalla giovanile tragedia, e dall’eroismo sacrificale, verso una verità e un errore maggiori, ossia verso quel che, filosoficamente, saranno per lui Hegel e Marx e, esistenzialmente, la milizia politica, l’accanita opera intellettuale, il lavoro ostinato e affascinato dalla Oggettività.

Lukàcs vuole con la propria opera essere l’ultimo beneficiario dei suicidi rituali e dei dolori inesausti che da millenni si propongono alle figure femminili, alle mogli e amanti e madri e vergini madri perché crescano indistruttibili le mura e le opere da cui si originano i sensi di colpa degli uomini. Anche Goethe lo avrebbe voluto; ed anche per questo la sua opera è popolata da donne che muoiono o vengono sacrificate. Però, a differenza, non solo di Goethe o dello stesso Marx ma anche di Mann (che non potevano non porglisi di fronte come modelli), Lukàcs vuol leggere nel moto storico il cammino che va verso la fine dei sacrifici rituali; non solo dunque di quelli che sono eredità di costumi premoderni ma anche di quelli di cui era carica la sua età ed è ancora la nostra. Che tutto questo abbia condotto, durante la sua e nostra vita adulta, ad ecatombi sterminate, è quanto gli ha fatto dire, o almeno sembra, dopo il 1968 di Praga, che forse quel che si era iniziato nel 1917 era fallito e che si sarebbe dovuto tutto ricominciare in altro luogo e tempo. Che è solo un modo di dire quel che anche Ernst Bloch aveva detto. Ed è singolare che la storia abbia costretto i due antichi amici (divisi e anche opposti, poi, per tanti anni) a ritrovarsi nel «Principio Speranza»: e cioè che quanto non è stato realizzato non è stato neppure dimostrato irrealizzabile. «Buona notte, angelo, si abbia riguardi e resti a casa». Abbiamo «riguardo», non usciamo a lasciarci tentare dal suicidio e dall'omicidio. Dobbiamo esserci tutti.

In Insistenze, Garzanti 1985

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