21 agosto 2017

I SEGRETI DI INSTABUL


Città romana, bizantina, ottomana. Tra cristiani, filosofi, harem ed eunuchi Sulle tracce dei mercanti genovesi e quelle di Garibaldi. Inseguendo un'idea di civiltà protesa verso Oriente ma con le radici in Europa. Un reportage di Corrado Augias che alla città ha dedicato un libro.

Corrado Augias

I segreti di Istanbul

Sospesa tra due continenti, modellata da tre diverse civilizzazioni, Istanbul si presenta quasi con un eccesso di passato e di fascino. Bisognerebbe arrivarci dal mare, come una volta, assistere al progressivo delinearsi del suo profilo di colli, cupole e minareti, il bruno dorato delle mura, il golfo profondo del Corno d'Oro, il più bel porto naturale del mondo.

Istanbul è stata romana con Costantino, bizantina con gli imperatori d'Oriente, ottomana con i sultani, repubblicana con Mustafa Kemal Atatürk, oggi conosce l'autoritarismo di ritorno del tirannico Recep Tayyip Erdogan che non può rinnegare apertamente il padre fondatore della Turchia moderna, Atatürk cioè padre dei Turchi, però di fatto lo cancella.

Ciò che subito appare sono le tracce dei quasi cinque secoli di impero ottomano (1453-1918). Se ci si pensa non sarebbero molti rispetto ai dieci secoli e passa, più di mille anni, della precedente civiltà bizantina quando Istanbul ancora si chiamava Costantinopoli e i suoi abitanti si definivano "romani". Lo dicevano in greco, ( oi romaioi), però lo dicevano perché quella era la loro radice, il punto di riferimento. Tale la persistenza del mito di Roma che dopo la conquista di Costantinopoli (1453), perfino il sultano aggiunse ai suoi titoli quello di Qaysar-i Rum, Cesare dei Romei.
Dei mille anni di dominio bizantino non è rimasto molto anche se ciò che resta è di qualità notevole e si sbaglia a trascurarlo. Prevale però l'attrazione delle tracce ottomane anche perché su quel periodo si sono a lungo concentrate le fantasie dell'Occidente. Quelle cupole larghe e basse - così diverse delle cupole barocche - contrappuntate da minareti sottili come matite, evocano la città dei sultani, dei loro ozi, dell'harem affollato di giovani schiave pronte ad ogni capriccio.

Per un singolare paradosso la parte della città che più richiama l'Oriente e i sultani si trova sulla quota di territorio che geopoliticamente fa parte dell'Europa. Lì sono la città antica con le moschee principali, a cominciare da Santa Sofia, il grande Bazar, il palazzo reale (Topkapi) con l'harem, i mausolei, l'ippodromo, un importante museo archeologico.

Verso nord, al di là dello stretto braccio del Corno d'Oro, si trova la città più recente dominata ancora oggi dalla torre genovese di Galata che deriva il nome da "calàta" nel senso di banchina destinata all'ormeggio.
Il nome attuale del quartiere è Beyoglu, una volta si chiamava Pera, che non rimanda al frutto naturalmente ma al greco para prefisso che indica prossimità, vicinanza. Vicina era infatti la collina di Pera a quella della città vecchia. Il viale principale di Beyoglu si chiama Istiklâl Caddesi (viale dell'Indipendenza), una volta si chiamava Grande Rue de Pera attraversava la zona dove soggiornavano i viaggiatori occidentali, gli avventurieri, le belle donne in cerca di fortuna, le spie. Ancora oggi lo percorre su e giù un caratteristico piccolo tram rosso.

Nelle vicinanze si trova il Grand Hotel de Pera molto frequentato, un tempo, dagli autori di romanzi polizieschi e dai grandi inviati di guerra. Due nomi su tutti: Agatha Christie, Ernest Hemingway che, come Garibaldi, sembra essere stato dappertutto.

Non ho citato il nome dell'Eroe a caso. Infatti Garibaldi è stato anche a Istanbul a benedire, se così posso dire, una società operaia organizzata dai numerosi emigranti italiani che lavoravano nella città. La sede era stata notevolmente danneggiata dal tempo e dall'incuria. Un giovane storico italo-turco - Sedat Bornovali amante dell'Italia, ha trovato i fondi per restaurarla, oggi la può visitare: stanze, documentazione, arredi, il salone-teatro dove si tenevano riunioni, comizi, balli, feste. Sul boccascena la commovente scritta: «Chi ama la patria la onori con le opere». L'edificio si trova in una brevissima traversa del Viale dell'indipedenza, Deva Cikmazi. Al fondo, fra i civici 2 e 4, c'è l'austero edificio, tre piani, della Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso fondata, ulteriore curiosità, nel 1863 - solo due anni dopo la proclamazione del Regno d'Italia.

Da quando le ambasciate non sono più qui ma ad Ankara, capitale politica, le loro vecchie sedi sono diventate centri culturali, proiettano film in lingua originale, ospitano scrittori dei rispettivi paesi. Lo fa anche l'Italia che conserva a Istanbul uno dei suoi Istituti Culturali più belli.

Varchiamo il Corno d'Oro, magari a piedi attraverso il ponte di Galata, torniamo nella città vecchia con le sue meraviglie a cominciare da quella religiosa (ora è un museo) di Santa Sofia e dal palazzo imperiale detto Topkapi. Non do i dettagli, si trovano su ogni guida, durante il mio soggiorno in città quello che ho cercato di cogliere è stato il clima, direi la temperatura di quei luoghi.

A Santa Sofia si può cogliere con relativa facilità se si è pronti a cogliere i segni del passaggio dal culto cristiano a quello musulmano. Esperimento che del resto si può fare anche a Roma - penso, per esempio, alla basilica dei Santi Quattro Coronati: vecchi templi adattati ai riti d'una nuova religione.

Topkapi non è un palazzo ma una città cinta da una triplice corona di mura, suddivisa in vari ambienti, tesoro, sala del governo, harem, magazzini, cucine eccetera. Quello che per noi è il Consiglio dei ministri, per gli ottomani era il Divan, infatti su comodi divani sedevano il Gran Visir con i suoi pascià. Sopra di loro, sulla parete, una finestra chiusa da una fitta griglia; da lì il sultano po- teva assistere alle riunioni anche se nessuno sapeva se davvero il capo supremo, dal quale dipendeva la vita di ognuno, fosse davvero presente.

Ciò che si vede dell'harem è una serie di sale, stanze, stanzette, hamam, oscuri passaggi quasi tutti vuoti meno la sala del trono. Bisogna immaginarla la vita delle tre o quattrocento schiave che popolavano quegli ambienti. Serve, sguattere, addette alle cucine, ai fiori, ai bagni, alla cura della Valide sultan, madre del sultano regnante, fino al vertice del gineceo: le favorite, le mogli, la preferita, madre del primogenito maschio.
Tutte, nei diversi ruoli, schiave di un'organizzazione dove avevano spazio capricci, crudeltà, gelosie, lascivie, vendette, ma dove vigeva anche una disciplina quasi da caserma della quale s'incaricavano gli eunuchi.

È stato questo complesso apparato politico, religioso, militare, legislativo - e sensuale - a spegnere la memoria dei bizantini. Ingiustamente. Perché la dottrina cristiana nata con Paolo di Tarso - oggi lo diremmo un turco - ha preso forma qui. I primi concili cristiani, a cominciare da quello di Nicea del 325 (voluto da Costantino in persona) sono avvenuti a Istanbul o nei dintorni. Bisognerà arrivare al 1123 perché un concilio si svolga in Occidente, a Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano. Resta dell'altissima civiltà bizantina un luogo che andrebbe visitato, almeno quello: la chiesa protocristiana detta di San Salvatore in Chora (letteralmente: fuori città, in campagna).

All'interno mosaici e affreschi tra i massimi dell'arte bizantina. Ma più del pregio pittorico, ciò che prende il visitatore - che certamente ha preso me - è il valore di testimonianza: una grande fede appena nata, nel momento in cui riteneva di poter cambiare il mondo.


La repubblica – 8 agosto 2017

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