Elias Canetti. Mondo e masse
di Davide Gatto
Arbeiter verlassen die Fabrik, Harun Farocki, 1995
In un’intervista per la TV svizzera, poi ripresa dalla RAI in una scheggia preziosa del suo “Mosaico” – format culturale di Rai Educational –[1], Canetti (Rustschuk, 1905 – Zurigo 1994) spiega succintamente le ragioni che lo spinsero a occuparsi per almeno vent’anni dei problemi trattati nel monumentale saggio Massa e potere (Claassen Verlag Hamburg, 1960; Adelphi Edizioni, Milano, 1981):
“Già prima dello scoppio della guerra sentivo che era giunto il momento di capire cosa stava succedendo, di capirlo realmente, non con insufficienti e consunte teorie, ma osservando da vicino e concretamente i fenomeni[2], e cercando di capire cosa avesse portato il mondo in tale spaventosa situazione. Decisi di concentrarmi completamente sulla stesura di Massa e potere, lasciando perdere il lavoro letterario. Vi lavorai praticamente vent’anni. Fu una concentrazione difficile, e varie volte ebbi la sensazione di soffocare, perché con un lavoro del genere si impazzisce. (…)”
I venti anni corrispondono al periodo compreso approssimativamente tra l’inizio della Seconda guerra mondiale e la pubblicazione del libro, il 1960, e non è chi non veda quale evidenza il ruolo delle masse abbia giocato in quegli anni drammatici soprattutto nel suo ambivalente e sempre imprevedibile rapporto con il potere, che fossero le “folle oceaniche” radunate ad accogliere il sacro verbo del duce di turno o a gonfiare il petto di orgoglio di fronte allo sfilare composto di altre masse in divisa nelle parate militari – “masse aperte” avrebbe censito le prime Canetti nel suo saggio, “masse chiuse” o ancora meglio “cristalli di massa” le seconde[3] -, o ancora che fossero le masse in fuga dagli orrori della guerra o quelle rinchiuse a vario titolo nell’universo concentrazionario, oppure quelle degli eserciti contrapposti.
Ma Canetti, ebreo-bulgaro di origini sefardite costretto all’erranza fin da bambino per una concomitanza di circostanze sia familiari, sia storiche[4] che trascinano anche la mente più razionale a riflettere sulla peculiarità di questo popolo che Chagall ha indelebilmente fissato nella figura dell’ebreo errante, dichiara a chiare lettere nei tre volumi della sua autobiografia – e in particolare nel primo, La lingua salvata, proprio perché rimonta ai primi anni della sua infanzia – di essere sempre rimasto impressionato dalle scene di massa a cui ebbe modo di assistere. Dato però che La lingua salvata venne dato alle stampe per la prima volta nel 1977, a distanza di molti anni da Massa e potere, non sapremo mai quanto di questi ricordi sia stato retrospettivamente influenzato dal lavoro accanito sul saggio, pur restando il ricorso ad essi un indizio notevole della matrice intellettuale e del metodo di lavoro del suo autore.
Il metodo e la matrice speculativa della ricerca
Nello stralcio di intervista citato sopra è Canetti stesso a delineare con chiarezza le modalità del suo approccio allo studio del fenomeno intrecciato della massa e del potere che egli intuiva essere alla base degli eventi drammatici a cui aveva assistito e a cui tuttavia assisteva: voleva capire “realmente, non con insufficienti e consunte teorie, ma osservando da vicino e concretamente i fenomeni (…)”.
A scorrere l’imponente apparato bibliografico in fondo al volume[5], in effetti, colpisce innanzitutto l’assenza di riferimenti a grandi pensatori del recente passato che si erano impegnati a dare una sistemazione teorica ai problemi che assillavano Canetti: non Marx, né Freud, e neppure Weber. Al contrario le sue fonti, come egli stesso attesta, sono “molto disparate: mitologiche, religiose, storiche, etnografiche, biografiche, psichiatriche”.[6]
Per osservare “da vicino e concretamente i fenomeni” infatti Canetti attinge preferibilmente a tutte le testimonianze che in un modo o nell’altro gli consentono di tracciare un profilo antropologico primordiale dell’uomo, di avvicinare l’uomo nel momento in cui la sua contiguità con l’animale da cui proviene è ancora massima e non inquinata da “insufficienti e consunte teorie”, e saranno dunque nel libro passi interi, a volte di pagine, tratti da memorie e relazioni di viaggiatori, esploratori e etnografi, ma saranno anche riflessioni approfondite sulla conformazione e la funzionalità stessa del nostro corpo, in cui il dito proteso a impartire un comando, la mano che ghermisce e l’apparato digerente che incorpora l’altro da sé tradiscono già il meccanismo sfuggente del potere[7], così come l’aggregato fitto delle cellule e degli spermatozoi rievocano le prime masse di cui abbiamo confusamente esperienza e la “soddisfazione di sopravvivere” che costituirebbe la vera aspirazione della nostra vita: tra milioni di spermatozoi uno solo sopravvive tra tanti che sono morti[8].
E se non ricorre nella bibliografia del volume Freud, contro il quale è anzi possibile cogliere una nota polemica a proposito dell’interpretazione che il padre della psicanalisi diede circa il cosiddetto “caso Schreber”[9], spiccano invece il nome del famoso psichiatra Emil Kräpelin e il titolo del suo Compendio di psichiatria nella sua edizione più corposa in quattro volumi (1910 – 1915), il segno ancora una volta della preferenza accordata all’osservazione e alla descrizione clinica della malattia, piuttosto che alla sua interpretazione su base teorica.
Questo approccio rigorosamente fenomenologico, tendenzialmente autoptico nella scelta di memorie e di testimonianze di prima mano, lo sforzo enorme di scavalcare a ritroso lo spesso materiale sedimentario che secoli di cultura, di ideologie laiche e religiose, di teorie l’una in qualche modo dipendente dall’altra avevano accumulato per ritrovare l’uomo dei primordi, il suo corpo nudo tra le cose del mondo, le sue esperienze che all’alba della vita hanno strutturato la sua psiche – e da allora e per sempre la nostra – hanno un loro corollario nell’accanimento con cui Canetti cerca altrove – nella trilogia autobiografica di cui si discorreva sopra – di risalire la corrente della sua stessa vita per rintracciare nelle sue prime esperienze infantili la radice della sua ossessione per il tema della massa e del potere.[10]
L’esperienza del mondo, la paura del mondo: il ruolo della massa
Restio com’è ad avanzare teorie, Canetti fin dal principio del suo saggio raccoglie osservazioni, come quella preliminare e riconoscibile nel vissuto di ciascuno che “Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo”.[11] Istintivamente, evitiamo il contatto fisico con gli altri rinchiudendoci per esempio nelle nostre case, o altrettanto istintivamente ruotando il busto e scartando di lato quando incrociamo qualcuno per strada. Di fatto è la paura l’innesco per noi occulto di queste reazioni. L’uomo – atavicamente – sente incombere sempre su di sé la paura di essere aggredito e annientato. È una sensazione, questa, che gli deriva dall’esperienza tutta immanente del mondo e delle cose. Egli, fin dai suoi primordi di scimmia antropomorfa, ha sperimentato per un verso la vulnerabilità del singolo, per l’altro l’alterità come foriera di ostilità, di oppressione e addirittura di limite alla sua vita.
Canetti, supportato dalle sue fonti, guida abilmente la nostra immaginazione entro scenari primordiali, quando l’uomo assisteva e partecipava quotidianamente alla sfida tra preda e predatore, vedeva la prima supplire alla propria debolezza facendo corpo unico con il gruppo più ampio possibile dei suoi simili, l’altro fiero della sua potenza slanciarsi invece sulla sua vittima perlopiù da solo, o accompagnato da pochi gregari.
Quel nostro antenato lontano non aveva teorie su cui fondarsi; anzi, fu la conoscenza empirica di sé e del mondo che egli gradualmente acquisì a plasmare il profilo psicologico e sociale suo e degli uomini che noi siamo: aspiranti predatori da una parte, come la biologia stessa del nostro corpo rivela, e in quanto tali sempre consapevoli dall’altra di essere prede potenziali di altri predatori, a cui ci ingegniamo in ogni modo di sfuggire.[12]
Ora, tra le esperienze primigenie dell’uomo fu senza dubbio determinante quella della massa, in tutte le sue forme inizialmente animate e inanimate (mandrie di erbivori, stormi di uccelli, banchi di pesci, sciami di insetti, distese di erbe, di sassi, di sabbia), poi anche simboliche (il fuoco innanzitutto, vera e propria massa di singole fiamme, e poi il mare, o la pioggia, fenomeni reali passati presto nei miti e nei riti a evocare l’idea di massa).
A fronte della paura oscuramente consapevole di essere preda potenziale proprio in ragione del proprio essere un aspirante predatore, fin dalla conformazione e dalle funzioni del proprio corpo, l’uomo – ragiona Canetti – ha subito realizzato che solo all’interno di una massa quanto più ampia e compatta possibile egli poteva “essere liberato dal timore di essere toccato”[13]: di essere aggredito, ucciso e “incorporato”, in altre parole.
Una volta stabilito questo assunto fondamentale – la massa quale antidoto alla paura della morte e la sua idea quale struttura archetipica del comportamento psicologico e sociologico dell’uomo -, non pare strano che Canetti associ fenomenologia e sforzo di catalogazione, producendo paragrafo per paragrafo schede relative a diverse tipologie di massa, e in certi casi riconoscendo nel loro embrione ancestrale forme tuttora vive e operanti: dalla massa aperta, che come le popolazioni e le città odierne mira solo a crescere e che maggiormente corre il rischio della disgregazione, a quella chiusa, che sacrifica la crescita alla sua stabilità, come avviene – per usare le parole di Canetti – per “il Tempio, la Casta, la Chiesa”,[14]ad altre ancora.
La massa esercita una forza attrattiva molto grande sugli uomini innanzitutto perché al suo interno vige la totale uguaglianza, ovvero cadono le distanze e le gerarchie necessarie a fare dell’uno una preda, dell’altro un predatore: nessuna differenza di ceto, di ruolo sociale, di genere, nessun confine eretto tra sé e gli altri in termini di mura casalinghe o proprietà cintate. Pur durando questo sentimento di perfetta uguaglianza – che Canetti definisce “scarica”[15], cioè deprivazione dei “carichi” sociali – solo pochi istanti, “Questo uscir fuori da tutto ciò che crea vincoli rigidi, confini e carichi, è la vera e propria determinante dell’euforia che l’uomo prova nella massa. In nessun altro luogo egli si sente più libero;”[16]. Conclude a margine Canetti che “Tutte le pretese di giustizia, tutte le teorie egualitarie, traggono energia in fin dei conti da questa esperienza di uguaglianza che ognuno deriva dalla sua conoscenza della massa”.[17] Altre qualità imprescindibili della massa sono poi l’aspirazione a una crescita potenzialmente illimitata, ad una densità capace di fare di essa un corpo solo, ad un compatto movimento unidirezionale: a seconda del loro rispettivo dosaggio sarebbe possibile censire differenti tipi di massa.[18]
Caparbio poi nel suo sforzo di risalire il corso del tempo fino alle più remote vestigia dell’umanità, Canetti rinviene il nucleo originario di quelle che noi oggi chiamiamo masse: la muta. Egli però transita attraverso un anello intermedio, che egli definisce “cristallo di massa” e che consisterebbe in una formazione chiusa la cui funzione assorbe totalmente qualunque eccentrica aspirazione individuale, annullando di fatto il rischio della disgregazione che tanto rende instabili le masse aperte – lo studioso non manca di chiarire che “soldati e monaci si possono definire la forma più importante di questo tipo”[19]. Canetti spiega quindi che il termine muta, derivato dal mondo animale[20], bene si presta a delineare un gruppetto sparuto di uomini, uguali tra loro e determinati nel perseguire in primo luogo il loro obiettivo di caccia. Essi inoltre sono animati come noi da un forte desiderio di accrescimento che però, impossibilitati a soddisfare per l’esiguità delle presenze umane in quei remoti tempi delle origini, possono solo tradurre in miti e danze.
Anche in questo caso lo studioso classifica, a partire dalla muta primigenia della caccia, tutta orientata sulla preda e sulla sua eventuale spartizione, altri tre tipi di muta: quella di guerra, prossima alla prima in quanto preda è il nemico, quella del lamento, che si forma attorno al compagno agonizzante, e infine quella di accrescimento. Quest’ultima, in particolare, è per lui “di eccezionale importanza poiché costituisce la effettiva forza motrice dell’ampliarsi dell’umanità, Essa ha fatto sì che gli uomini conquistassero la terra e ha guidato a forme di civiltà sempre più ricche.” Tuttavia, “essa si può afferrare soltanto in rapporto al processo della metamorfosi”. Non potendo infatti i nostri avi accrescere il loro numero di fatto, ricorrevamo a rituali di trasformazione in specie animali o vegetali, o addirittura in forme inanimate e in fenomeni di cui constatassero l’eccezionale numerosità: è ciò che in fin dei conti testimonia “una ben conservata tradizione totemica”, per cui un popolo poteva essere strettamente imparentato attraverso un loro mitico antenato con “canguri”, ma anche con “larve, termiti, cavallette”, e addirittura con “gli scorpioni, i pidocchi, le mosche o le zanzare (…)”[21].
Ma la caratteristica delle mute ancestrali che Canetti giudica sempre operativa e più gravida di conseguenze nella storia dell’umanità è la facilità con cui una tipologia di muta può evolvere in un’altra: nulla di più facile che una muta di caccia si trasformi in una muta di guerra, quando la preda è il nemico, o in una muta del lamento quando a essere ucciso è un suo membro. In quest’ultimo caso è facile intravvedere la nascita di “singolari fenomeni religiosi”, in quanto per esempio – osserva eloquentemente Canetti – “I lamentatori non vogliono più essere stati i cacciatori, e la vittima che essi lamentano li purifica della colpa cruenta della caccia”.[22]
Metropolis, Fritz Lang, 1927
Fine prima parte
[2] Il corsivo è mio.
[3] Cfr. Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, rispettivamente pp. 19-20 e soprattutto – per i “cristalli di massa” – p. 88: “Il cristallo di massa è durevole. (…) Coloro che vi appartengono sono addestrati nelle loro attività o nel loro modo di concepire le cose. (…) Soldati e monaci si possono definire la forma più importante di questo tipo.”
[4] Dopo un primo trasferimento a Manchester e la morte del padre (1912), Canetti segue la madre a Vienna, a Zurigo, a Francoforte e poi ancora a Vienna. Nel 1938, con l’Anschluss dell’Austria da parte della Germania di Hitler, ripara in Inghilterra, dove lavorerà a Massa e potere e acquisirà la cittadinanza britannica, senza peraltro mai smettere di produrre le sue opere in tedesco, la lingua dell’anima: la lingua salvata, appunto.
[5] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, pp. 587-599, per un totale approssimativo di oltre quattrocento pubblicazioni. Tuttavia l’Autore si premura di precisare in via preliminare (p. 586) che non ha inteso “elencare in modo esauriente tutti i libri che nel corso di anni esercitarono la loro influenza sulla formazione” dell’opera.
[6] Ibidem
[7] Elias Canetti, op. cit., pp. 243-269
[8] Ivi, pp. 297-298: “Non è il caso di stupirsi che una massa costituita da spermatozoi sia simile a una massa d’uomini. (…) Tutti quegli spermatozoi non sopravvivono (…). Solo uno di essi penetra nell’uovo. Lo si può benissimo considerare il sopravvivente”.
[9] Daniel Paul Schreber, “ex presidente del Senato di Dresda” precisa Canetti (p. 528), in un triennio di intervallo della malattia paranoide in cui era sprofondato scrisse e pubblicò le sue Memorie di un malato di nervi (1903; ora Adelphi, 2007, 2ª ediz.), che fece molta impressione nel mondo della ricerca psicopatologica del tempo. Freud in particolare rilesse in chiave psicanalitica il complesso sistema paranoico descritto dallo stesso Schreber, individuando la radice della sua malattia in una tendenza omosessuale repressa. Così invece Canetti, che a chiusura del suo saggio presenta Schreber come l’esempio tipico del potente – una sorta di Hitler internato invece che capo di stato, per intenderci -, stabilendo di fatto l’equazione perfetta tra paranoia e potere: “Si è cercato di ricondurre sia il caso Schreber in particolare, sia la paranoia in generale, a tendenze omosessuali inibite. Non c’è errore più grande. (…) I processi di potere vi hanno sempre importanza determinante (p. 545).
[10] Si veda per esempio il racconto della folla viennese che malmena e insulta lui, di appena nove anni, e i suoi fratellini più piccoli quando, proprio il 1° agosto 1914, il giorno della dichiarazione di guerra all’Inghilterra, egli accompagna in pubblico, inconsapevolmente, “l’inno imperiale austriaco” con le parole del “God save the King” che gli avevano insegnato a cantare solennemente nei tre precedenti anni di scuola a Manchester: “Io non compresi bene che cosa avessi fatto di male; a maggior ragione, quindi, quella prima esperienza di una massa ostile mi si impresse indelebilmente nell’animo.” ( Elias Canetti, La lingua salvata, La biblioteca di Repubblica – NOVECENTO, 45, p. 129)
[11] Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi Edizioni, Milano, 1981, p. 17
[12] Ivi, pp. 243-244, passim. Per l’uomo in quanto predatore: “La psicologia dell’afferrare e incorporare – così come quella del mangiare, in generale – è ancora completamente inesplorata (…). Fra le nostre azioni non ve n’è una più antica dell’afferrare e incorporare; non si è ancora sottolineato abbastanza quanto, in essa, abbiamo da spartire con gli animali.” Poco oltre, invece, per l’uomo in quanto preda avvertita: “Dopo l’avvicinamento e il balzo (…) si ha il primo contatto. È forse ciò che l’uomo teme di più. (…) All’istante del contatto, l’intenzione di un corpo verso l’altro si fa concreta. Già nelle forme di vita inferiori quel momento ha qualcosa di decisivo. Vi sono contenuti i più antichi terrori: lo riviviamo nei sogni, lo evochiamo con la fantasia, tutta la nostra vita nella civiltà altro non è che un solo sforzo per evitarlo.”
[13] Ivi, p. 18
[14] Ivi, p. 25
[15] Ivi, pp. 20-22, il paragrafo ad essa dedicato.
[16] Elias Canetti, op. cit., p. 392; il passo continua così: “egli desidera disperatamente di continuare a formare una massa, proprio perché sa bene cosa lo aspetta quando uscirà dalla massa stessa. Tornando «a casa», ritroverà infatti tutto ciò di cui s’era provvisoriamente liberato: limiti, carichi e spine”. Sulla metafora delle spine si veda più avanti.
[17] Ivi, p. 35
[18] Interessante per esempio la distinzione tra masse rapide, cioè “le masse politiche, sportive, belliche, che ci stanno dinanzi quotidianamente” e che perseguono una meta vicina, e le masse lente, ovvero le masse religiose rivolte all’aldilà o al pellegrinaggio: la loro meta è lontana, la strada è lunga e la vera formazione della massa è spostata in un paese remotissimo o in un regno celeste”: cfr. ivi, p. 36.
[19] Elias Canetti, op. cit., p. 88
[20] Ivi, p. 115: “Gli uomini hanno imparato dai lupi”. Impossibile non ricordare a questo proposito le storie sui lupi da cui egli – ancora bambino nella città natale in Bulgaria – riferisce di essere stato contemporaneamente attratto e terrorizzato: cfr. La lingua salvata, cit., pp. 17-19.
[21] Ivi, pp. 129-135, passim. La considerazione finale di Canetti è che “In tali casi, gli indigeni possono unicamente aver di mira l’enorme numero di quelle creature: quando le considerano parenti, vogliono assicurarsi appunto il loro numero” (p. 133)
[22] Elias Canetti, op. cit., p.115. La frase ben si presta ad essere applicata al cristianesimo, che Canetti infatti definisce “La più importante di tutte le religioni del lamento” (p. 176). Insomma, la religione (poco dopo Canetti analizzerà a questo proposito anche un’importante ricorrenza religiosa degli Sciiti) nascerebbe dall’ oscuro senso di colpa di essere in fondo un cacciatore: immedesimarsi con un perseguitato annullerebbe l’angoscia del proprio senso di colpa.
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