C'è stato un tempo in
Italia (anche se oggi si fa fatica a crederlo) in cui gli scrittori
intervenivano sui grandi temi della politica. Proponiamo un testo di
Calvino, scritto quando lo scrittore non è già più un militante
comunista (era uscito dal PCI nel 1956 in conseguenza dei fatti
d'Ungheria), che è allo stesso tempo confronto con un grande
personaggio e rimeditazione della propria esperienza personale.
Italo Calvino
La morale di Trotsky
Appena scorso l’indice
della raccolta di scritti di Lev Trotsky Letteratura arte libertà
(ultimo volume uscito delle opere del rivoluzionario russo che Livio
Maitan cura per l’editore Schwarz) sono andato a cercare, per prima
cosa, non le pagine di critica letteraria o d’estetica (pur di
grande valore; Trotsky era un critico letterario di prim’ordine) ma
un saggio sulla morale.
D’estetica e marxismo,
d’arte e società eccetera, se ne è scritto e parlato in tal
misura che ormai ogni voce nuova o vecchia deve farsi largo in un
compatto banco di noia; invece l’etica socialista, la morale
rivoluzionaria è un campo poco meno che vergine. Lukács, quando
venne in Italia nella primavera di quel fatal ’56, ci disse che
pensava a un trattato d’etica marxista come al coronamento della
sua opera teorica; ma prima d’accingervisi doveva portare a termine
l’estetica. Auguriamo al pensatore ungherese molti anni per
compiere entrambi i lavori, ma sempre più crediamo che ‒
nell’ordine delle esigenze che la storia pone e nell’ordine dello
sviluppo della ricerca ‒ l’etica dovrebbe venire per prima e
l’estetica buon’ultima. Del resto, l’unico scrittore cui spetti
la definizione di poeta marxista senza mezzi termini né per il
sostantivo né per l’aggettivo, Bertolt Brecht, ha battuto sempre
su un solo tema, un solo chiodo: la morale della lotta di classe.
Il saggio di Trotsky, La
nostra morale e la loro è scritto nel 1938 al Messico. È una
discussione ‒ in cui il rivoluzionario sconfitto ed esule si lancia
con violenza polemica moltiplicata dal suo isolamento, soprattutto
contro il moralismo della socialdemocrazia e della sinistra
occidentale ‒ sulla validità per la rivoluzione dell’assioma il
fine giustifica i mezzi.
Trotsky lo considera
valido. L’inquadramento storico del problema è assai debole: di
Machiavelli non si fa neppure il nome, la paternità dell’idea
viene attribuita ai gesuiti, o meglio, ai protestanti che
l’attribuivano polemicamente ai gesuiti. L’argomentazione con cui
è difesa la storicità e relatività delle varie morali e la
spietatezza della morale rivoluzionaria, è più debole ancora. Quel
che è male se fatto dalla reazione è bene se fatto dalla
rivoluzione: ma quando alla contrapposizione netta tra reazione e
rivoluzione subentra quella tra l’una e l’altra corrente che si
contendono il potere accusandosi a vicenda d’essere
controrivoluzionarie, entriamo nel campo dell’opinabile e tutto il
sistema vacilla. Trotsky apologizza la legge da lui promulgata
durante la guerra civile che prescriveva l’arresto come ostaggi per
i familiari delle guardie bianche; e se ora Stalin prende in ostaggio
le famiglie dei trotskisti l’azione non è cattiva in sé ma perché
fatta da Stalin, cioè da un nemico della rivoluzione, da un
«termidoriano». Ragionamento pericoloso; se per noi Stalin
termidoriano non è, tutto quel che fa è automaticamente
giustificato?
Quand’ecco, nelle
ultime pagine del saggio, un colpo d’ala. Ecco che Trotsky
finalmente affronta il problema nel vero e unico modo in cui può
affrontarlo e per cui la morale socialista non può aver nulla a che
fare con quella machiavellica. Tra fine e mezzi c’è
un’interdipendenza dialettica, non possono essere mezzi buoni (cioè
mezzi rivoluzionari) se non quelli che si accompagnano a un processo
d’emancipazione delle masse, a una liberazione e a un arricchimento
morale degli uomini. «Quando diciamo che il fine giustifica i mezzi,
ne consegue per noi che il grande fine rivoluzionario respinge, tra
questi mezzi, i procedimenti e i metodi indegni che sospingono una
parte della classe operaia contro un’altra; o che tentano di fare
la felicità delle masse senza la loro partecipazione; o che minano
la fiducia delle masse in se stesse e nella loro organizzazione
sostituendovi l’adorazione dei “capi”. Al di sopra di ogni
altra cosa, la morale rivoluzionaria condanna irriducibilmente il
servilismo nei confronti della borghesia e l’altezzosità nei
confronti dei lavoratori, cioè una delle caratteristic e più
radicate nella mentalità dei pedanti e dei moralisti
piccolo-borghesi.»
Qui Trotsky, forte d’una
esperienza non solo sua ma di tutto il movimento cui appartenne,
tocca il vero nocciolo della questione e si pone all’altezza di
controbattere non solo i sostenitori della morale trascendente o
naturale ma anche il machiavellico suo grande antagonista. Non va più
in là, Trotsky, ma noi muovendoci da questo nocciolo possiamo
dedurre che nella morale rivoluzionaria rientra la violenza popolare,
dal basso, non quella poliziesca,dall’alto, se non emani da
un’autorità ancora investita da una spinta popolare diretta; che
alla morale rivoluzionaria contribuiscono le lotte tra tendenze che
coinvolgono ed educano l’opinione della base, non quelle le cui
ragioni sono note solo al livello dei capi; che i mezzi ‒ insomma ‒
giustificano il fine più di quanto il fine non giustifichi i mezzi,
cioè in ogni situazione storica la superiorità morale del
socialismo si vive e si giustifica «qui ed ora», non in un
ipotetico domani di rosea perfezione.
Ma deponiamo ogni nostra
sufficienza, ogni nostro senno di poi, di fronte al clima di tragedia
che gli uomini dell’Ottobre vissero in prima persona. Il saggio di
Trotsky sulla morale si chiude con un poscritto: «Scrivevo queste
pagine senza sapere che in quei giorni mio figlio lottava contro la
morte. Dedico alla sua memoria questo breve lavoro che, io spero,
avrebbe avuto la sua approvazione: perché Lev Sedov era un
rivoluzionario autentico e disprezzava i farisei.»
Un brivido di sgomento a
ripensare a quelle sue pagine sugli ostaggi scritte mentre suo figlio
ostaggio veniva ucciso; una riconferma ostinata, come con un testardo
scatto a capo chino, nella certezza dei propri ragionamenti; non
senza la confessione di un dubbio, appena accennata in quell’io
spero… L’ombra di Machiavelli è sempre più lontana, lui che non
conobbe mai cosa fosse tragedia.
Italo Calvino, «La
morale di Trotsky», Italia Domani. Settimanale politico di
attualità, a. I, n. 6, Roma, 21 dicembre 1958, p. 14
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