Ogni anno a Melpignano
nel Salento si rinnova il rito che ha un’eco già nelle Baccanti di
Euripide e in Medea E che ha piegato al mito anche San Paolo
trasformandolo nel grande taumaturgo immune a ogni veleno. Terza puntata di "
Pagani d'Italia" di Marino Niola, racconto dei luoghi, più o
meno noti, del nostro Paese dove sopravvive la memoria di leggende e
culti ancestrali.
Marino Niola
L’estasi dionisiaca
nei morsi e rimorsi dei tarantolati
Una menade in estasi
danza nella notte. Tamburello nella destra e fiaccola nella sinistra.
È una scheggia delle Baccanti di Euripide caduta sotto il tacco
d’Italia. E incastonata, come una farfalla nell’ambra, sulla
superficie di un vaso greco. Si trova in una sala del bellissimo
museo Sigismondo Castromediano di Lecce, appartato foyer del
politeismo salentino, dove si cammina piano piano per far perdere le
proprie tracce alle ombre del passato che, nell’austera costruzione
gesuitica, vivono la loro cattività archeologica. In attesa del
viaggiatore incantato che le le faccia tornare a ballare. Come Agave
e le sue sorelle che, nella tragedia euripidea, vengono pizzicate dal
pungolo divino, l’oistros, da cui il nostro estro, che scatena
epidemie di danza notturna.
Un po’ come fanno ora le menadi femministe quando ballano la pizzica nella Notte della taranta, che domani, anche in diretta tv, riunirà a Melpignano il popolo del ragno ballerino. Sulle tracce di quel che resta dell’aracne mediterranea e del rito musicale che per secoli ha rappresentato l’antidoto ritmico ai palpiti di una terra in trance. «Deliquii giocolieri, estri smarriti» diceva il poeta barocco Giacomo Lubrano che nel ’600 assistette al ballo terapeutico delle donne in preda alla stravaganza velenosa della tarantola. Una musicoterapia che dal Medioevo costituisce un enigma per medici, letterati e filosofi. Nonché un problema per la Chiesa. Costretta a fare i conti con una storia non sua.
Fatta di dee vendicative
e di numi trasgressivi, morsi e rimorsi. Come quelli delle contadine
che dopo aver subito il primo morso, pativano il cosiddetto rimorso,
la recidiva del male che si manifestava una volta all’anno. Le
chiamavano le spose di San Paolo perché andavano a ballare vestite
di bianco a Galatina, come menadi pizzicate davanti alla statua
dell’apostolo. Santu Paulu meu de le tarante, facitene la grazia a
tutte quante. Era il loro stralunato Help!
Nel tarantismo
salentino s’intrecciano i fili di una vicenda che viene da lontano.
Da Dioniso e Medea. All’origine c’è proprio lei, la madre di
tutti gli infanticidi che, dopo aver ucciso i figli, li gettò nelle
acque di Punta Ristola, all’estremo del “finimondo” di Leuca. I
due innocenti si trasformarono nei cosiddetti scogli dannati. «È
stata lei la prima a sentire il rimorso », dicono le donne di
Soleto, Calimera e Sternatia. Un vaso pugliese del III secolo a.C.,
ora a Monaco, la raffigura mentre fugge via su un carro guidato da un
auriga che si chiama proprio Oistros. Pura coincidenza? Difficile,
visto che il mito non lascia nulla al caso.
Platone, nelle Leggi, parla di malattie provocate dagli dei e che si curano con il movimento. Saltellando come cerbiatti al suono di strumenti dionisiaci. Proprio quel che facevano le tarantolate, che zompettavano come ninfe epilettiche. Obbedendo incantate al suono del tamburello e del violino, maneggiati da musicisti sciamani che conoscevano, per esperienza, la scala dei temperamenti, la gamma dei toni, le dissonanze degli umori e le consonanze degli amori. Era la rivincita degli antichi dei, declassati a demoni dal cristianesimo che li aveva occultati nei simulacri di santi benedicenti e di angeli svolazzanti. Ma, come diceva García Lorca, niente può l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato. Niente può e dunque si ritrae, smarrito, esitante.
E proprio in questa
esitazione si è prodotto il compromesso storico tra pathos pagano ed
ethos cristiano. Che ha avvicendato Aracne e Dioniso, patroni dei
sussulti mantici e delle esaltazioni coreutiche, con San Paolo.
L’intellettuale della Chiesa, campione del logos e vincitore
dell’oistros. Perché a Malta aveva neutralizzato il veleno di un
serpente diventandone immune. Così, al termine di un morphing
secolare, l’apostolo di Tarso diventa il signore delle tarantole,
un Dioniso cristiano. Per effetto di quel dispositivo cumulativo
della storia, che non scarta ma ricicla.
Non a caso il Salento è un incrocio di tempi e di culture. Su questo tavolato è passato il mondo: Messapi, Spartani, Romani, Bizantini, Longobardi, Normanni, Svevi, Spagnoli, Turchi, Levantini. Il risultato è il particolare mood salentino. Ragione e arzigogolo, sobrietà e signorilità. Un bizantinismo frugale, che arrotonda gli spigoli del tempo e i caratteri degli uomini. Sovrappone segni, recupera eredità, ricicla identità. Stratifica e giustappone. Al punto da fare di megaliti preistorici come dolmen e menhir, pietrefitte e specchie, matrici di mitologie e leggende. Si dice che ogni menhir custodisca un tesoro.
Giurdignano
Sotto la Specchia dei
mori, a Martano, un paese della Grecia salentina, dove si parla
ancora il griko, un dialetto greco giunto nel Medioevo da Bisanzio,
sia nascosta una chioccia con dodici pulcini d’oro. E a
Giurdignano, la Stonehenge italiana, con le sue lastre allineate in
asse solstiziale, si trova il menhir di San Paolo. Una bocca da forno
ciclopica al cui interno è dipinta un’immagine del santo. Sullo
sfondo rosso, una ragnatela con tarantola. Sopra si innalza un dito
preistorico che punta l’assoluto. Pare sia l’ultimo rifugio degli
adepti del ragno che fa ballare. C’è chi assicura che vi si
svolgano sabba della possessione mediterranea.
È la fotografia di un
sincretismo vivente che fa del Salento un pandemonio mitologico.
Un’officina di simboli. Aveva ragione Aldous Huxley, quando diceva
che il cristianesimo ha commesso l’errore di desacralizzare la
danza, emarginandola dal suo rituale. Come un residuo pagano da
obliterare. Ma quella pizzica che Paracelso ribattezzò Lasciva
Chorea, frenesia sfrenata, oggi torna. E diventa il motore culturale
di un revival pagano. Feste, sagre, libri, siti che rimettono insieme
frammenti di storie per costruire una nuova mitologia del ragno.
Upgradando la rete di Aracne con quella del Web. Per costruire il
neotarantismo 2.0.
La Repubblica –
26 agosto 2017
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