09 agosto 2017

Non c'è posto per la tristezza a tavola

Tristezza e convito sono incompatibili

Gian Luigi Beccaria

Convito è civiltà, piacere di vivere, di comunicare, di lasciar scorrere le ore conversando. Con il Rinascimento (esemplare Il galateo del Della Casa) il piacere del cibo, del banchetto, dello stare assieme, si connetterà col comportamento: il mangiare si socializza, occorre seguire le convenzioni del galateo, i commensali devono sapersi comportare. In particolare, nella Francia del Sei e Settecento, il convito verrà esaltato come il luogo e il momento della conversazione brillante e scintillante. Annotava Grimod de la Reynière nell’Almanacco dei Buongustai (1803): «I bocconi chiacchierati sembrano migliori, dice un vecchio proverbio; e questo adagio è così vero che, sebbene i certosini fossero ben nutriti, la legge che prescriveva loro il silenzio quando mangiavano in comune era la più dura da osservare. Alla loro splendida tavola avrebbero preferito un pasto da anacoreta ma con la libertà di parlare a proprio agio».
Il silenzio e la tristezza non s’addicono alla tavola. Già Varrone fissava nelle Satire Menippee un ragionevole codice di comportamento a tavola, intorno alla quale occorre riunire persone simpatiche, «non bisogna scegliere commensali né troppo ciarlieri né silenziosi», e «i discorsi non devono vertere su argomenti tristi e complicati, ma devono essere giocondi e piacevoli [...] e riuscire utili».
Lo scambio comunicativo tra commensali rileva i segni fondamentali della convivenza civile. Lo si evidenziò nel secolo dei Lumi: il lasciar scorrere le ore conversando, «contribuisce non poco - scriveva Montesquieu - a darci quell’allegria che, unita a una certa modesta dimestichezza, viene chiamata civiltà».
Oggi la fretta sta vincendo virtù e vantaggi della lentezza. Siamo costretti a perdere, del mangiare, la dimensione rituale che comporta indugio e comunione. Non è permesso perdere il tempo nel consumare lentamente un pasto, seduti intorno a un tavolo. La giornata va colmata tutta di operosità, di lavoro sempre più stressante. Neppure l’operosa civiltà rurale era stata toccata dall’idea che il consumare il cibo fosse un perdere tempo, uno sciupare la giornata. «Quanne se mangia nu nze stai’ a patrone», quando si mangia non si deve aver fretta, come avviene quando si lavora sotto padrone. Così si usava dire nel nostro Mezzogiorno. Oggi, si sa, una grossa fetta dell’umanità è costretta per necessità a sottostare alla fretta del fast-food in piedi, alla rapidità del selfservice, o a comprare cibi già pronti, la maggior parte senza qualità, da consumare rapidamente: si mangia guardando la tv, senza troppo badare a quel che si ingurgita, si fa il pieno, come con l’auto. Con l’omogeneizzazione globale dei sapori si diventa sempre più incapaci di giudicare. Il mercato detta sempre più gli standard del gusto, semplifica le variabili e le trasforma in costanti. Semplifica e omologa su un gusto diciamo ‘internazionale’, tanto ‘perfetto’ quanto privo di personalità. C’è da augurarsi che non si vada insieme perdendo il senso dello «stare» a tavola come condivisione, comunione, scambio della parola; il senso dell’alimentarsi non soltanto come un fatto culinario privato ma momento di socialità.
Anche perché il mangiare e il bere fugano la tristezza: tristezza e convito sono incompatibili. Questo valore positivo della mensa si è sedimentato nei secoli anche nei detti e nei proverbi (A tavola si diventa giovani, A tavola non s’invecchia), insieme al motivo di lunga tradizione del potere salutare del vino, del vino come sangue (Buon vino fa buon sangue, Il vino è il latte dei vecchi), e dell’allegria che il vino scatena (L’acqua fa male e il vino fa cantare, non rientra nella norma avere il vino triste), e la capacità (Il vino fa parlare) di liberare la parola. E la parola è con più efficacia accolta da chi l’ascolta. Il convito è momento in cui grazie al vino i commensali diventano docili all’ascolto (quindi più influenzabili, osservava Platone nelle Leggi).


Misticanze, Garzanti, 2009

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