Tristezza e convito sono incompatibili
Gian Luigi Beccaria
Convito è civiltà,
piacere di vivere, di comunicare, di lasciar scorrere le ore
conversando. Con il Rinascimento (esemplare Il galateo del
Della Casa) il piacere del cibo, del banchetto, dello stare assieme,
si connetterà col comportamento: il mangiare si socializza, occorre
seguire le convenzioni del galateo, i commensali devono sapersi
comportare. In particolare, nella Francia del Sei e Settecento, il
convito verrà esaltato come il luogo e il momento della
conversazione brillante e scintillante. Annotava Grimod de la
Reynière nell’Almanacco dei Buongustai (1803): «I bocconi
chiacchierati sembrano migliori, dice un vecchio proverbio; e questo
adagio è così vero che, sebbene i certosini fossero ben nutriti, la
legge che prescriveva loro il silenzio quando mangiavano in comune
era la più dura da osservare. Alla loro splendida tavola avrebbero
preferito un pasto da anacoreta ma con la libertà di parlare a
proprio agio».
Il silenzio e la
tristezza non s’addicono alla tavola. Già Varrone fissava nelle
Satire Menippee un ragionevole codice di comportamento a
tavola, intorno alla quale occorre riunire persone simpatiche, «non
bisogna scegliere commensali né troppo ciarlieri né silenziosi», e
«i discorsi non devono vertere su argomenti tristi e complicati, ma
devono essere giocondi e piacevoli [...] e riuscire utili».
Lo scambio comunicativo
tra commensali rileva i segni fondamentali della convivenza civile.
Lo si evidenziò nel secolo dei Lumi: il lasciar scorrere le ore
conversando, «contribuisce non poco - scriveva Montesquieu - a darci
quell’allegria che, unita a una certa modesta dimestichezza, viene
chiamata civiltà».
Oggi la fretta sta
vincendo virtù e vantaggi della lentezza. Siamo costretti a perdere,
del mangiare, la dimensione rituale che comporta indugio e comunione.
Non è permesso perdere il tempo nel consumare lentamente un pasto,
seduti intorno a un tavolo. La giornata va colmata tutta di
operosità, di lavoro sempre più stressante. Neppure l’operosa
civiltà rurale era stata toccata dall’idea che il consumare il
cibo fosse un perdere tempo, uno sciupare la giornata. «Quanne se
mangia nu nze stai’ a patrone», quando si mangia non si deve
aver fretta, come avviene quando si lavora sotto padrone. Così si
usava dire nel nostro Mezzogiorno. Oggi, si sa, una grossa fetta
dell’umanità è costretta per necessità a sottostare alla fretta
del fast-food in piedi, alla rapidità del selfservice, o a comprare
cibi già pronti, la maggior parte senza qualità, da consumare
rapidamente: si mangia guardando la tv, senza troppo badare a quel
che si ingurgita, si fa il pieno, come con l’auto. Con
l’omogeneizzazione globale dei sapori si diventa sempre più
incapaci di giudicare. Il mercato detta sempre più gli standard del
gusto, semplifica le variabili e le trasforma in costanti. Semplifica
e omologa su un gusto diciamo ‘internazionale’, tanto ‘perfetto’
quanto privo di personalità. C’è da augurarsi che non si vada
insieme perdendo il senso dello «stare» a tavola come condivisione,
comunione, scambio della parola; il senso dell’alimentarsi non
soltanto come un fatto culinario privato ma momento di socialità.
Anche perché il mangiare
e il bere fugano la tristezza: tristezza e convito sono
incompatibili. Questo valore positivo della mensa si è sedimentato
nei secoli anche nei detti e nei proverbi (A tavola si diventa
giovani, A tavola non s’invecchia), insieme al motivo di
lunga tradizione del potere salutare del vino, del vino come sangue
(Buon vino fa buon sangue, Il vino è il latte dei vecchi), e
dell’allegria che il vino scatena (L’acqua fa male e il vino
fa cantare, non rientra nella norma avere il vino triste),
e la capacità (Il vino fa parlare) di liberare la parola. E
la parola è con più efficacia accolta da chi l’ascolta. Il
convito è momento in cui grazie al vino i commensali diventano
docili all’ascolto (quindi più influenzabili, osservava Platone
nelle Leggi).
Misticanze, Garzanti,
2009
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