Addio a Jeanne Moreau.
Voce inimitabile,broncio seducente era un'icona dell'immaginario. Da
«Ascensore per il patibolo» di Malle a «Jules e Jim» di Truffaut
ha attraversato il cinema della modernità.
Cristina Piccino
La passione di essere attrice con
l’amore per la libertà
Di sé rivendicava
soprattutto «l’indipendenza»: «Oggi questa espressione forse non
è più di moda ma questo non significa che dobbiamo modificarla. E
poi le parole contano poco, vale ciò che si fa, come si vive, con
che libertà si affronta il mondo, questo sì che è importante». E
lei, Jeanne Moreau non era mai cambiata, questa libertà, questo «io
sono libera» che aveva sempre mostrato nella sua vita e nelle sue
scelte artistiche non l’aveva messi da parte.
Magnifica attrice, la
voce roca anche di sigarette, tante, sul set e fuori – non c’è
quasi un ritratto che la mostri senza fumare – e una bellezza
«difficile da inquadrare» l’avevano resa subito un’icona della
modernità; lo sguardo malinconico nella Parigi in bianco e nero di
Louis Malle (Ascensore per il patibolo), la risata sotto ai baffi
dipinti e la maglietta a righe mentre corre insieme ai suoi due
amanti in quel capolavoro che è Jules e Jim, sono immagini che
hanno attraversato generazioni di sogni cinefili e non solo.
Querelle (1982)
Decenni dopo la
ritroviamo davanti alla macchina da presa che canta rimpianti e
desiderio: «Each man kills the thing he loves», sussurra nel
bordello di Querelle, l’ultimo film di R.W.Fassbinder, arrivato al
pubblico che lui era già morto. E intanto si lascia scivolare tempo
e inganni sul viso sempre bellissimo tra marinai e marchette pieni di
muscoli, iperrealismo di carne sangue e spudoratezza che, era
l’inizio degli anni Ottanta, sembrano svaniti dalla pellicola
(digitalizzata) e dalla realtà.
Libera Jeanne Moreau
quando firmava nel 1971 il manifesto delle 343 in favore della
legalizzazione dell’aborto, dicendo con quella sua ironia sempre
elegante di non essere femminista – «Amo gli uomini e mi danno
fastidio gli ’ismi’ di qualsiasi segno». O quando, nel 2013, si
è schierata accanto alle Pussy Riots chiedendone la liberazione. E
ancora quando, quasi novantenne, rispondeva alla domanda sulla
relazione con Miles Davis – passione fou – con un: «Non c’è
bisogno di andare a letto con un uomo per amarlo».
Era nata nel 1928 a
Parigi Jeanne Moreau, il padre era un ristoratore francese, la madre
inglese, una danzatrice. Lei era cresciuta in mezzo a questa coppia e
ai loro litigi, il padre l’aveva destinata a un marito e ai figli,
pensare che voleva un maschio, l’avrebbe chiamato Pierre. Però da
ragazzina, insieme alle amiche Jeanne si infila in un teatro, sono
gli anni della guerra, Parigi è occupata (li racconterà nel suo
secondo film da regista L’Adolescente, 1978) e quell’Antigone in
scena la folgora: «Mi sono dedicata alla recitazione con lo stesso
trasporto con cui si aderisce a una fede religiosa» racconterà.
Il debutto avviene nel
1947, sul palcoscenico di Avignone, nel 1949 arriva al cinema, il
film è Dernier Amour di Jean Stelli a cui seguono altri
piccoli ruoli – con Henri Decoin, Marc Allégret, Becker.
Ascensore per il patibolo
La rivelazione arriva
però con Ascensore per il patibolo, che fa di lei una star. Il
sax sublime di Miles Davis accompagna l’erranza del personaggio di
Moreau tra le strade parigine che la nouvella vague sta reinventando.
Raffinata, le labbra piene e quella voce unica, è il corpo di una
seduzione lunare, misteriosa, melanconica accordata al tempo e alle
sue cicatrici interiori, le stesse che ritorneranno nei personaggi
pensati per lei da altri grandi registi del cinema moderno: Peter
Brook (Moderato Cantabile, dal romanzo di Duras), Michelangelo
Antonioni (La notte, ancora un classico dello spaesamento e della
crisi di coppia), Jean-Luc Godard (un cameo in Une femme est une
femme), Orson Welles (Il processo), Buñuel (Il Diario di una
cameriera), Jacques Demy (La Baie des anges, il diamante nero del
regista in cui Moreau affronta con fierezza spavalda l’azzardo del
potere). e ancora Joseph Losey (Eva, l’oscurità della seduzione).
Jules e Jim, il racconto dell’amore a tre, dal romanzo di Henri-Pierre
Roché ( Catherine era ispirata alla madre di Stephane Hessel) svela
un’altra Moreau: Truffaut lascia fuoricampo l’aura «noir» per liberarne
l’allegria, una spensieratezza irriverente, la risata gaia con cui
attraversa il Tourbillion – come recita la canzone di Rizvani – degli
amori e dell’esistenza.
Seven days... seven nights (1960)
Dopo un incontro con Jean
Renoir per Le Petit Théatre (1969), film a episodi in cui
uno, La cantante è costruito su di lei che canta Quand
l’amour meurt, Moreau lavora con Paul Mazurski, Carlos Diegues, in
Francia la chiamano i nuovi registi del momento: André Techiné la
vuole per il suo esordio, molto bello, Souvenirs d’en
France senza dimenticare Nathalie Granger di
Marguerite Duras, riferimento questo della scrittrice che torna
spesso nella sua carriera.L’attrice è tra le predilette di Welles
( Falstaff, Il processo, Una storia immortale) a cui la
lega una profonda amicizia, con Losey gira Mr. Klein accanto
a Alain Delon, è in Gli ultimi fuochi di Kazan.
Il tempo passa, Moreau
nel segno dell’indipendenza accetta scommesse sempre nuove e
diverse. Ma anche questo appartiene a una grande interprete quale
era, giocare e mettersi alla prova, personaggio dopo personaggio.
Ecco che allora daL’amante di Annaud succede di trovarla con
Ozon (Il tempo che resta) e Manoel De Oliveira (Gebo e l’ombra). O
accompagnare Amos Gitai tornando a Avignone in La Guerre des
fils de lumière contre les fils des ténèbres, la voce, sì ancora
quella, appena più velata di raucedine tra le macerie di un’utopia;
e in due film, Désengagement e Plus tard tu comprendras. Pronta
sempre a ricominciare.
Il Manifesto – 1 agosto
2017
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