08 agosto 2017

MORAVIA VISTO DA G. RABONI


Moravia uno e due

 Giovanni Raboni


Un caso troppo maligno per non essere anche, almeno un poco, divertente, ha fatto coincidere in questi giorni un fatto culturale e un fatterello di cronaca che hanno per protagonista, entrambi, uno dei più famosi scrittori italiani, Alberto Moravia. Assunto, come vedremo fra poco, in una sorta di Olimpo, l’autore degli Indifferenti viene, quasi nello stesso momento, convocato (solo idealmente, per fortuna) sul banco degli imputati, come autore di un testo teatrale - La cintura - che le autorità cosiddette competenti reputano tanto scabroso da dover essere vietato ai minori di anni diciotto, neanche si trattasse di un film di Tinto Brass, di Salvatore Samperi o di Marco Bellocchio.
Naturalmente, né l’una cosa né l’altra sono, nella carriera di Moravia, prive di precedenti. Nel consesso dei predestinati all’immortalità, degli immortali «in pectore», Moravia staziona ormai da decenni, e non c’è riserva o perplessità critica che valga a staccargli di dosso l’etichetta di massimo narratore italiano vivente. E, quanto all’altra faccenda, molti ricorderanno che alcuni suoi libri hanno passato (sia pure a lieto fine, sempre) guai anche più seri: ultimo, se non sbaglio, il sequestro decretato nel 1978 dal procuratore della Repubblica Massimo Donato Bartolomei ai danni del suo terzultimo romanzo, La vita interiore, accusato senza mezzi termini di «accentuata e disgustosa oscenità profondamente offensiva del buoncostume», nonché - entrando più sottilmente nel merito - di «linguaggio postribolare» e persino di «prosa triviale».
Se volessimo tentare di fornire una qualche plasticità d’immagine alla curiosa coincidenza di cui stiamo parlando, penso che potremmo abbozzare una sorta di centauro con zampe e zoccoli da pornografo e con busto e testa da vate coronato d'alloro. Ma accantoniamo la statua equestre e veniamo ai fatti, cominciando dalla testa, cioè dalla parte più nobile dell’amena mostruosità.
All’insegna di una frase di Valentino Bompiani che forse non significa nulla, ma che suona benissimo («Classico è ciò che si ripete nella vita e diventa la vita stessa»), l’editore Bompiani ha inaugurato in questi giorni una collana, appunto, di classici. Molto bella la veste: carta sottile ma non trasparente, caratteri tipografici belli e ben stampati, rilegatura elegante e solida. Insomma, come si suol dire in questi casi, denunciando una soggezione un po’ ridicola ai celebrati modelli d’oltralpe: «Sembra la Plèiade!».
Dai due volumi, già usciti, e da quelli annunciati, sembra proprio di capire che quella dei «Classici Bompiani» sarà una collana riservata a una categoria particolare di classici: i classici del Novecento. Già poco propenso, in generale, a disquisire sul tema «che cos’è un classico» (esiste un saggio molto bello, sull’argomento, di Thomas S. Eliot, che di queste cose se ne intendeva, e uno può sempre andare a rileggerselo), lo sono ancora meno quando il discorso si sposta al nostro secolo. Che cosa sarà mai un classico del Novecento? Un libro (un autore) tipicamente novecentesco o, al contrario, un libro (un autore) che ripropone in forme attuali i grandi temi, i grandi valori della tradizione?
Mah. Lasciamo in sospeso la noiosa domanda e occupiamoci, come da programma, di uno dei due volumi che inaugurano la collana: le Opere 1927-1947 di Alberto Moravia. (L’altro è Romanzi e racconti di Marguerite Yourcenar, scrittrice che, se non è un classico, è in ogni caso fermamente convinta di esserlo, e per la quale nutro un’antipatia viscerale che mi impedisce ogni serenità di giudizio).
Dunque: il Moravia del primo ventenio, il Moravia degli Indifferenti (1929) e di racconti bellissimi come Inverno di malato (1930), il Moravia di Agostino (1943) e della Romana (1947)... Classico o non classico, un grande scrittore, senza dubbio: uno dei pochi veri narratori che la letteratura italiana abbia avuto, e non solo in questo secolo; capace come pochi, pochissimi altri di conciliare - in nome di quello che Geno Pampaioni, nella sua bella introduzione al volume, chiama «il realismo dell’utopia» - la chiarezza e l’ambiguità, le ragioni dell’intelligenza e quelle della disperazione morale.
Perché non confessarlo? Di fronte a questo volume (che, accanto ai citati capolavori narrativi, accoglie le migliori pagine coeve del Moravia saggista, mentre esclude, assai opportunamente, la sua seconda, e fallimentare, prova romanzesca, Le ambizioni sbagliate), di fronte a questo volume, dicevo, mi sono sorpreso a pensare: che bello se Moravia si fosse fermato qui! Che vantaggio, per lui e per tutti noi, se la sua mano si fosse rifiutata di vergare le centinaia, le migliaia di pagine sempre più astratte, faticose e banali, sempre meno sorrette dalla necessità e dalla grazia, che formano il ripetitivo ammasso della sua sterminata produzione postbellica!
Forse, pensavo, bisognerebbe difendere i grandi scrittori, i grandi artisti, soprattutto quelli precoci (e Moravia lo è: aveva meno di vent’anni quando ha scritto Gli indifferenti), dallo sperpero che possono fare della propria immagine una volta che la genialità li abbia abbandonati. Qualcuno, non ricordo chi, ha formulato l’ipotesi che forse, se Arthur Rimbaud non avesse voltato le spalle alla letteratura e non fosse partito per l’Africa alla ricerca di avventure e di morte, avremmo avuto un secondo e diversissimo Rimbaud, autore di lunghi e noiosi poemi sentimentali... Tutto può essere; ma siamo tutti convinti, credo, che Rimbaud, in Africa, non ci sia andato per caso né a cuor leggero. Quanto a Moravia, come sappiamo, in Africa ci va anche lui, spessissimo; ma ne ritorna ogni volta più sano, più vispo e più petulante che mai, e con la valigia, ahimè, piena di articoli per il “Corriere della Sera” ...
Questo ho pensato, un po’ sul serio e un po’ per scherzo, davanti al volume che consacra la «classicità» del primo Moravia. Ma devo anche dire che mi sono subito vergognato dei miei pensieri. Uno scrittore, un artista, è libero, deve essere libero, è giusto che sia libero come qualsiasi altra persona di guastarsi, dilapidarsi, diventare l’ombra o la caricatura di se stesso. Non sempre «la maturità è tutto», come sosteneva Shakespeare; a volte è solo dispersione, involgarimento, aridità, avidità; così come non sempre la vecchiaia è saggezza. Insomma, non tocca agli artisti, ma a noi - a noi fruitori delle loro opere - difendere la verità (piccola o grande, istantanea o duratura) che in un certo momento, lungo o breve, della loro vita hanno espresso.
Del resto, non mancano certo gli estimatori o addirittura gli ammiratori del Moravia, diciamo così, ulteriore. Romanzi come La noia o Io e lui, come La vita interiore o L’uomo che guarda, che a me sembrano tentativi disperati e disperanti di rivestire di carne, di verità espressiva, poche idee rudimentali, pochi e scheletrici luoghi comuni sull’uomo e sulla società, ad altri - a molti altri, comprese intelligenze assai sottili - sembrano invece capolavori di chiarezza, di coraggio e di rigore. I gusti sono gusti, e io non chiedo di meglio che rispettare quelli degli altri, senza nemmeno pretendere un trattamento di reciprocità.
Veniamo dunque senza altri indugi all’altro corno, all’altra metà del bizzarro connubio procuratoci dal caso: Moravia «classico» e Moravia «pornografo». Il dramma coinvolto nella vicenda si intitola, l’ho già detto, La cintura. Per indagare sulle eventuali interferenze di natura come dire? fonosimbolica tra il titolo della «pièce» e il destino - la «censura» - che l’ha colpita, ci vorrebbero l'umore e la penna di Alberto Savinio. Non sentendomi neppure lontanamente all’altezza di una tale impresa, mi limiterò a dire - a beneficio di chi non avesse avuto modo o voglia di assistere allo spettacolo o di leggere il testo, e soprattutto di chi, non avendo ancora compiuta la maggiore età, ne fosse per il momento legalmente impedito - che La cintura è la storia di un marito e di una moglie legati, e al tempo stesso psicologicamente divisi, da un rapporto sadomasochistico.
Lei, interpretata da Marina Malfatti, si chiama Vittoria, ed è affetta da un vistoso complesso d’Edipo. Detesta la madre al punto che, in una delle scene più singolari del dramma, si rifiuta di toglierle un callo dal dito mignolo di un piede. E siccome, in passato, è accaduto che il padre, allo scopo di sottrarla alla morte per annegamento, le ha assestato un pugno in faccia (metodo infallibile, come ognuno sa, per evitare che il malcapitato si aggrappi al salvatore trascinandolo con sé negli abissi), la sua immaginazione erotica si è fissata su quel gesto, su quella percossa, sentita come punitiva e salvifica al tempo stesso: con la conseguenza che, sin dalla prima volta, per fare l’amore col marito deve cominciare col dargli una cinturata in faccia (donde il titolo) per essere poi percossa a sua volta e infine posseduta, per dirla nel più aulico dei modi, «more ferarum».
Quanto al marito... beh, bisogna proprio dire che Dio li fa e poi li accoppia. Tanto per cominciare, se lei si chiama Vittoria, lui si chiama Vittorio. E poi, anche per lui la faccenda della cinturata in faccia, con quel che segue, funziona alla perfezione. Anzi, per essere più precisi, è solo così che funziona, il nostro Vittorio. Ossessionato dall’idea della bomba atomica, il poverino è del tutto incapace - come la moglie, momentaneamente dimentica dei propri personali problemi, non manca di rimproverargli - di fare «l’amore normale». Niente: senza i rituali colpi di cintura, dati e presi, Vittorio non ce la fa proprio. Il rapporto fra queste sue esigenze e l’ossessione della bomba a me sembra, francamente, un po’ meno chiaro di quello fra le parallele, anzi speculari esigenze della moglie e la faccenda del pugno in faccia del padre; ma Moravia ha l’aria di essere convinto che tutto quadri, e anche a noi conviene accontentarci.
Il vero problema, semmai, è capire come mai una coppia così miracolosamente bene assortita sia anche, nello stesso tempo, una coppia in crisi. Lei, soprattutto, non fa che lamentarsi, che avere nostalgia del famoso «amore normale» (ma che sarà mai, in fin dei conti, questo amore normale?); e, in preda all’inquietudine, litiga con i genitori, tenta di sedurre la cameriera e, subito dopo, di gettarla fra le braccia del marito... Insomma, non si dà pace; e, dal momento che fa l’attrice, si identifica nelle stupende parole di disperazione e speranza, di speranza al di là della disperazione, di una delle Tre sorelle di Anton Cechov: citazione con la quale, appunto, si apre e si chiude questa sconcertante vicenda di due sadomasochisti appagati e scontenti.
Il lettore (al quale chiedo scusa se, nel riassumere la «trama» della Cintura, ho un po’ accentuato i suoi aspetti comici) vorrà sapere, a questo punto, cosa ci sia di pornografico in tutto questo. La mia risposta è molto semplice e recisa: niente, assolutamente niente. La pornografia è, suppongo, allettamento, delega alla seduzione, o messa in atto di modi atti all’eccitazione, alla confusione dei sensi... Ebbene, in questo testo di Moravia - come, del resto, in tutti i suoi romanzi incriminati o incriminabili per la «scabrosità» dei temi e delle descrizioni - ciò che predomina (che predomina, appunto, sino al tedio, sino alla distruzione di ogni ambiguità, sino allo scatenamento di una comicità involontaria e non di rado irresistibile) è, al contrario, un intento didascalico, pedagogico, se non addirittura edificante.
Ecco, forse è proprio questo il punto: il punto, voglio dire, che spiega come e perché coincidano così perfettamente, nell’ultimo Moravia, austerità e bruttezza, la serietà delle intenzioni e la pessima qualità estetica dei risultati. Leggendo La cintura (così come, anni fa, leggendo La vita interiore o 1934), l’impressione più forte che ho avuto è stata quella di vedermi passare davanti agli occhi delle raffigurazioni da ex voto: ingenue e grossolane, impressionanti e incredibili, capaci solo di riprodurre, senza modificarle né ampliarle, le poche idee da cui è mossa la mano inesperta dell’anonimo artista.

Ecco così, nella Cintura, il marito impotente percosso sul viso dalla borchia di metallo del fatidico accessorio; eccolo, nella scena successiva, strappare la cintura dalle mani della moglie e percuoterla a sua volta; eccolo, nel quadretto che segue, chino sulla moglie, in atto di consumare l’abietto, anormale amore «more ferarum...». Se non ha niente a che vedere con la pornografia, una simile successione di rappresentazioni senza spessore, senza verità, senza brivido non ha molto a che vedere, temo, nemmeno con la letteratura. Ma questo è un altro discorso. Messa da parte La cintura - non quella con la borchia che può sempre servire, ma quella di carta stampata - possiamo sempre, per fortuna, allungare la mano e riprendere il volume dei «Classici Bompiani». Moravia, il vero Moravia, è lì dentro. Teniamocelo caro. Oltretutto, è a prova di censura. 

EUROPEO/17 MAGGIO 1986

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