Moravia uno e due
Giovanni Raboni
Un caso troppo maligno
per non essere anche, almeno un poco, divertente, ha fatto coincidere
in questi giorni un fatto culturale e un fatterello di cronaca che
hanno per protagonista, entrambi, uno dei più famosi scrittori
italiani, Alberto Moravia. Assunto, come vedremo fra poco, in una
sorta di Olimpo, l’autore degli Indifferenti viene, quasi
nello stesso momento, convocato (solo idealmente, per fortuna) sul
banco degli imputati, come autore di un testo teatrale - La
cintura - che le autorità cosiddette competenti reputano tanto
scabroso da dover essere vietato ai minori di anni diciotto, neanche
si trattasse di un film di Tinto Brass, di Salvatore Samperi o di
Marco Bellocchio.
Naturalmente, né l’una
cosa né l’altra sono, nella carriera di Moravia, prive di
precedenti. Nel consesso dei predestinati all’immortalità, degli
immortali «in pectore», Moravia staziona ormai da decenni, e non
c’è riserva o perplessità critica che valga a staccargli di dosso
l’etichetta di massimo narratore italiano vivente. E, quanto
all’altra faccenda, molti ricorderanno che alcuni suoi libri hanno
passato (sia pure a lieto fine, sempre) guai anche più seri: ultimo,
se non sbaglio, il sequestro decretato nel 1978 dal procuratore della
Repubblica Massimo Donato Bartolomei ai danni del suo terzultimo
romanzo, La vita interiore, accusato senza mezzi termini di
«accentuata e disgustosa oscenità profondamente offensiva del
buoncostume», nonché - entrando più sottilmente nel merito - di
«linguaggio postribolare» e persino di «prosa triviale».
Se volessimo tentare di
fornire una qualche plasticità d’immagine alla curiosa coincidenza
di cui stiamo parlando, penso che potremmo abbozzare una sorta di
centauro con zampe e zoccoli da pornografo e con busto e testa da
vate coronato d'alloro. Ma accantoniamo la statua equestre e veniamo
ai fatti, cominciando dalla testa, cioè dalla parte più nobile
dell’amena mostruosità.
All’insegna di una
frase di Valentino Bompiani che forse non significa nulla, ma che
suona benissimo («Classico è ciò che si ripete nella vita e
diventa la vita stessa»), l’editore Bompiani ha inaugurato in
questi giorni una collana, appunto, di classici. Molto bella la
veste: carta sottile ma non trasparente, caratteri tipografici belli
e ben stampati, rilegatura elegante e solida. Insomma, come si suol
dire in questi casi, denunciando una soggezione un po’ ridicola ai
celebrati modelli d’oltralpe: «Sembra la Plèiade!».
Dai due volumi, già
usciti, e da quelli annunciati, sembra proprio di capire che quella
dei «Classici Bompiani» sarà una collana riservata a una categoria
particolare di classici: i classici del Novecento. Già poco
propenso, in generale, a disquisire sul tema «che cos’è un
classico» (esiste un saggio molto bello, sull’argomento, di Thomas
S. Eliot, che di queste cose se ne intendeva, e uno può sempre
andare a rileggerselo), lo sono ancora meno quando il discorso si
sposta al nostro secolo. Che cosa sarà mai un classico del
Novecento? Un libro (un autore) tipicamente novecentesco o, al
contrario, un libro (un autore) che ripropone in forme attuali i
grandi temi, i grandi valori della tradizione?
Mah. Lasciamo in sospeso
la noiosa domanda e occupiamoci, come da programma, di uno dei due
volumi che inaugurano la collana: le Opere 1927-1947 di
Alberto Moravia. (L’altro è Romanzi e racconti di
Marguerite Yourcenar, scrittrice che, se non è un classico, è in
ogni caso fermamente convinta di esserlo, e per la quale nutro
un’antipatia viscerale che mi impedisce ogni serenità di
giudizio).
Dunque: il Moravia del
primo ventenio, il Moravia degli Indifferenti (1929) e di
racconti bellissimi come Inverno di malato (1930), il Moravia
di Agostino (1943) e della Romana (1947)... Classico o
non classico, un grande scrittore, senza dubbio: uno dei pochi veri
narratori che la letteratura italiana abbia avuto, e non solo in
questo secolo; capace come pochi, pochissimi altri di conciliare - in
nome di quello che Geno Pampaioni, nella sua bella introduzione al
volume, chiama «il realismo dell’utopia» - la chiarezza e
l’ambiguità, le ragioni dell’intelligenza e quelle della
disperazione morale.
Perché non confessarlo?
Di fronte a questo volume (che, accanto ai citati capolavori
narrativi, accoglie le migliori pagine coeve del Moravia saggista,
mentre esclude, assai opportunamente, la sua seconda, e fallimentare,
prova romanzesca, Le ambizioni sbagliate), di fronte a questo
volume, dicevo, mi sono sorpreso a pensare: che bello se Moravia si
fosse fermato qui! Che vantaggio, per lui e per tutti noi, se la sua
mano si fosse rifiutata di vergare le centinaia, le migliaia di
pagine sempre più astratte, faticose e banali, sempre meno sorrette
dalla necessità e dalla grazia, che formano il ripetitivo ammasso
della sua sterminata produzione postbellica!
Forse, pensavo,
bisognerebbe difendere i grandi scrittori, i grandi artisti,
soprattutto quelli precoci (e Moravia lo è: aveva meno di vent’anni
quando ha scritto Gli indifferenti), dallo sperpero che
possono fare della propria immagine una volta che la genialità li
abbia abbandonati. Qualcuno, non ricordo chi, ha formulato l’ipotesi
che forse, se Arthur Rimbaud non avesse voltato le spalle alla
letteratura e non fosse partito per l’Africa alla ricerca di
avventure e di morte, avremmo avuto un secondo e diversissimo
Rimbaud, autore di lunghi e noiosi poemi sentimentali... Tutto può
essere; ma siamo tutti convinti, credo, che Rimbaud, in Africa, non
ci sia andato per caso né a cuor leggero. Quanto a Moravia, come
sappiamo, in Africa ci va anche lui, spessissimo; ma ne ritorna ogni
volta più sano, più vispo e più petulante che mai, e con la
valigia, ahimè, piena di articoli per il “Corriere della Sera”
...
Questo ho pensato, un po’
sul serio e un po’ per scherzo, davanti al volume che consacra la
«classicità» del primo Moravia. Ma devo anche dire che mi sono
subito vergognato dei miei pensieri. Uno scrittore, un artista, è
libero, deve essere libero, è giusto che sia libero come qualsiasi
altra persona di guastarsi, dilapidarsi, diventare l’ombra o la
caricatura di se stesso. Non sempre «la maturità è tutto», come
sosteneva Shakespeare; a volte è solo dispersione, involgarimento,
aridità, avidità; così come non sempre la vecchiaia è saggezza.
Insomma, non tocca agli artisti, ma a noi - a noi fruitori delle loro
opere - difendere la verità (piccola o grande, istantanea o
duratura) che in un certo momento, lungo o breve, della loro vita
hanno espresso.
Del resto, non mancano
certo gli estimatori o addirittura gli ammiratori del Moravia,
diciamo così, ulteriore. Romanzi come La noia o Io e lui,
come La vita interiore o L’uomo che guarda, che a me
sembrano tentativi disperati e disperanti di rivestire di carne, di
verità espressiva, poche idee rudimentali, pochi e scheletrici
luoghi comuni sull’uomo e sulla società, ad altri - a molti altri,
comprese intelligenze assai sottili - sembrano invece capolavori di
chiarezza, di coraggio e di rigore. I gusti sono gusti, e io non
chiedo di meglio che rispettare quelli degli altri, senza nemmeno
pretendere un trattamento di reciprocità.
Veniamo dunque senza
altri indugi all’altro corno, all’altra metà del bizzarro
connubio procuratoci dal caso: Moravia «classico» e Moravia
«pornografo». Il dramma coinvolto nella vicenda si intitola, l’ho
già detto, La cintura. Per indagare sulle eventuali
interferenze di natura come dire? fonosimbolica tra il titolo della
«pièce» e il destino - la «censura» - che l’ha colpita, ci
vorrebbero l'umore e la penna di Alberto Savinio. Non sentendomi
neppure lontanamente all’altezza di una tale impresa, mi limiterò
a dire - a beneficio di chi non avesse avuto modo o voglia di
assistere allo spettacolo o di leggere il testo, e soprattutto di
chi, non avendo ancora compiuta la maggiore età, ne fosse per il
momento legalmente impedito - che La cintura è la storia di
un marito e di una moglie legati, e al tempo stesso psicologicamente
divisi, da un rapporto sadomasochistico.
Lei, interpretata da
Marina Malfatti, si chiama Vittoria, ed è affetta da un vistoso
complesso d’Edipo. Detesta la madre al punto che, in una delle
scene più singolari del dramma, si rifiuta di toglierle un callo dal
dito mignolo di un piede. E siccome, in passato, è accaduto che il
padre, allo scopo di sottrarla alla morte per annegamento, le ha
assestato un pugno in faccia (metodo infallibile, come ognuno sa, per
evitare che il malcapitato si aggrappi al salvatore trascinandolo con
sé negli abissi), la sua immaginazione erotica si è fissata su quel
gesto, su quella percossa, sentita come punitiva e salvifica al tempo
stesso: con la conseguenza che, sin dalla prima volta, per fare
l’amore col marito deve cominciare col dargli una cinturata in
faccia (donde il titolo) per essere poi percossa a sua volta e infine
posseduta, per dirla nel più aulico dei modi, «more ferarum».
Quanto al marito... beh,
bisogna proprio dire che Dio li fa e poi li accoppia. Tanto per
cominciare, se lei si chiama Vittoria, lui si chiama Vittorio. E poi,
anche per lui la faccenda della cinturata in faccia, con quel che
segue, funziona alla perfezione. Anzi, per essere più precisi, è
solo così che funziona, il nostro Vittorio. Ossessionato dall’idea
della bomba atomica, il poverino è del tutto incapace - come la
moglie, momentaneamente dimentica dei propri personali problemi, non
manca di rimproverargli - di fare «l’amore normale». Niente:
senza i rituali colpi di cintura, dati e presi, Vittorio non ce la fa
proprio. Il rapporto fra queste sue esigenze e l’ossessione della
bomba a me sembra, francamente, un po’ meno chiaro di quello fra le
parallele, anzi speculari esigenze della moglie e la faccenda del
pugno in faccia del padre; ma Moravia ha l’aria di essere convinto
che tutto quadri, e anche a noi conviene accontentarci.
Il vero problema, semmai,
è capire come mai una coppia così miracolosamente bene assortita
sia anche, nello stesso tempo, una coppia in crisi. Lei, soprattutto,
non fa che lamentarsi, che avere nostalgia del famoso «amore
normale» (ma che sarà mai, in fin dei conti, questo amore
normale?); e, in preda all’inquietudine, litiga con i genitori,
tenta di sedurre la cameriera e, subito dopo, di gettarla fra le
braccia del marito... Insomma, non si dà pace; e, dal momento che fa
l’attrice, si identifica nelle stupende parole di disperazione e
speranza, di speranza al di là della disperazione, di una delle Tre
sorelle di Anton Cechov: citazione con la quale, appunto, si apre
e si chiude questa sconcertante vicenda di due sadomasochisti
appagati e scontenti.
Il lettore (al quale
chiedo scusa se, nel riassumere la «trama» della Cintura, ho un po’
accentuato i suoi aspetti comici) vorrà sapere, a questo punto, cosa
ci sia di pornografico in tutto questo. La mia risposta è molto
semplice e recisa: niente, assolutamente niente. La pornografia è,
suppongo, allettamento, delega alla seduzione, o messa in atto di
modi atti all’eccitazione, alla confusione dei sensi... Ebbene, in
questo testo di Moravia - come, del resto, in tutti i suoi romanzi
incriminati o incriminabili per la «scabrosità» dei temi e delle
descrizioni - ciò che predomina (che predomina, appunto, sino al
tedio, sino alla distruzione di ogni ambiguità, sino allo
scatenamento di una comicità involontaria e non di rado
irresistibile) è, al contrario, un intento didascalico, pedagogico,
se non addirittura edificante.
Ecco, forse è proprio
questo il punto: il punto, voglio dire, che spiega come e perché
coincidano così perfettamente, nell’ultimo Moravia, austerità e
bruttezza, la serietà delle intenzioni e la pessima qualità
estetica dei risultati. Leggendo La cintura (così come, anni
fa, leggendo La vita interiore o 1934), l’impressione
più forte che ho avuto è stata quella di vedermi passare davanti
agli occhi delle raffigurazioni da ex voto: ingenue e grossolane,
impressionanti e incredibili, capaci solo di riprodurre, senza
modificarle né ampliarle, le poche idee da cui è mossa la mano
inesperta dell’anonimo artista.
Ecco così, nella
Cintura, il marito impotente percosso sul viso dalla borchia
di metallo del fatidico accessorio; eccolo, nella scena successiva,
strappare la cintura dalle mani della moglie e percuoterla a sua
volta; eccolo, nel quadretto che segue, chino sulla moglie, in atto
di consumare l’abietto, anormale amore «more ferarum...». Se non
ha niente a che vedere con la pornografia, una simile successione di
rappresentazioni senza spessore, senza verità, senza brivido non ha
molto a che vedere, temo, nemmeno con la letteratura. Ma questo è un
altro discorso. Messa da parte La cintura - non quella con la
borchia che può sempre servire, ma quella di carta stampata -
possiamo sempre, per fortuna, allungare la mano e riprendere il
volume dei «Classici Bompiani». Moravia, il vero Moravia, è lì
dentro. Teniamocelo caro. Oltretutto, è a prova di censura.
EUROPEO/17 MAGGIO 1986
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