Lo scorso 17 agosto, nella terrazza S. Francesco di Marsala, si è svolta una partecipata serata poetica dedicata a tutti i migranti del mondo. La serata è stata introdotta da un intervento dell' Avv. Fabio D'Anna che di seguito riproduciamo:
Poesia migrante
Poesia migrante è
un titolo suggestivo per una lettura di poesie , ma può anche essere un
intrigante pleonasmo. La poesia,
infatti, parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della
poesia dice questo o quello ma lo dice con un effetto d’eco che ci ricorda come
non la si possa prendere in parola. Questa sua ambiguità fondamentale è la sua
lezione, una lezione insostituibile. La poesia, pertanto, può dirsi un sogno fatto in presenza della ragione, oppure un
ragionamento fatto in presenza di un sogno. Cioè un discorso che in
apparenza è simile ad altri: d’amore, di dolore, di disperazione, di sapienza,
ma fatto sotto lo sguardo di un fantasma
che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto
nei sogni.
La poesia, è per
sua natura migrante perché la sua essenza si nutre dell’essenziale ambiguità
polisemica. E cioè della capacità di
fare coesistere in una stessa parola significati diversi, sia come estensione
semantica del vocabolo o come effetto dell’annullamento della diversità
etimologica tra due o più parole semanticamente diverse, ma fonologicamente
identiche.
Anche vivere,
però, significa migrare, come ci ricorda Edouard Glissant, poeta, romanziere,
saggista nato nel 1928 a Bézaudin di Sainte-Marie, nell’isola di Martinica e
scomparso nel 2011, discendente di schiavi, che tanti studi ha dedicato alla poesia e al
tema dell’identità, da lui identificata con la relazione. «Bisogna
amare l’uomo, accettando di non capirlo fino in fondo»
Le radici
— ha scritto Édouard Glissant — non sprofondano nel buio atavico delle origini,
alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di
una pianta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani. Tale chiave
di lettura ci fornisce la giusta risposta all’equivoco e lacerante dilemma tra
la paura della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e
l’esasperazione delle diversità stesse, ognuna delle quali si chiude
regressivamente alle altre in un gretto nazionalismo. Glissant afferma che
ogni identità e il mondo stesso si costruiscono nella relazione, in un processo
creativo e armonioso che egli definisce «creolizzazione»..
L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che si cresce, cambiando senza snaturarsi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo.
L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; sia di chi la costruisce, impendendo di uscirne, sia di chi la vede come un ostacolo per vedere oltre la costruzione figlia della paura. Chiudersi in se stessi è terribilequanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo.
L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che si cresce, cambiando senza snaturarsi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo.
L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; sia di chi la costruisce, impendendo di uscirne, sia di chi la vede come un ostacolo per vedere oltre la costruzione figlia della paura. Chiudersi in se stessi è terribilequanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo.
Glissant ha inoltre teorizzato un concetto molto affascinante:
quello dell’opacità. Lo scrittore rivendicava il diritto di ognuno all’opacità,
ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere totalmente l’altro.
Ogni esistenza, diceva, ha un fondo complesso e oscuro, che non può e non deve
essere attraversato dai raggi X di una pretesa conoscenza totale. Bisogna
vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di
potere essere capiti a fondo da lui.
Glissant affermava, inoltre, che ogni atto poetico è conoscenza
del reale. «Non si
emettono parole nell’aria», ha ripetuto più volte nei suoi testi, ogni immaginario poetico,
infatti, proviene dal luogo «in cui viene articolata la parola», un luogo che
ne condiziona non solo il modo, ma la sua stessa possibilità di espressione.
Così, aggiungo io, ogni parola che usiamo è figlia dell’aria che
respiriamo, delle pietre che calpestiamo, della polvere che respiriamo, delle
relazioni che intrecciamo, degli abiti che indossiamo. Ecco perché stasera
indosso una tunica araba donatami da un amico senegalese che vive a
Pantelleria,la indosso come un silente abbraccio alle radici con cui ho
intrecciato la mia vita e per testimoniare una relazione che nasce qui,
stasera, tra chi leggerà dei testi poetici e chi li ascolterà con il silenzio
figlio dell’amore per la condivisione.
Glissant difendeva il principio della creaolizzazione, intesa come il risultato
imprevedibile dell’incontro tra culture, forme di sensibilità e di intuizione
diverse. La sua analisi muoveva dalla
contestazionedi quella concezione «sublime e mortale che i popoli dell’Europa e
le culture occidentali hanno veicolato nel mondo, ovvero che ogni identità è
un’identità a radice unica, escludente ogni altra».
Un pensiero fondato sulla
rivendicazione del diritto all’opacità, perché «non è più necessario
‘comprendere’ l’altro, cioè ridurlo al modello della mia stessa trasparenza,
per vivere con lui o per costruire con lui».
Rinunciando all’idea di
un ordine sovrano che riconduca una volta per tutte ogni cosa ad unità,
Glissant ha elaborato –una sua versione della «identità rizomatica per offrire una
definizione dell’identità» L’identità, per Glissant, era dunque
costitutivamente una relazione, un’apertura all’altro, un luogo di scambio tra
il «medesimo» e il «diverso» in cui ciò che conta è il nodo, la maniera in cui
si entra in contatto con gli altri. Non, dunque, un’identità evanescente,
un’abdicazione del soggetto, perché pur respingendo l’idea di una radice
totalitaria Glissant ne rivendicava comunque il radicamento nel luogo, vera
condizione per l’apertura al «caos-mondo», ovvero «lo choc, l’intreccio, le
repulsioni, le attrazioni, le connivenze, le opposizioni, i conflitti tra le
culture dei popoli, nella totalità-mondo contemporanea». Idee che trasferite
sul piano compositivo si sono tradotte nella rinuncia all’unicità formale in
favore della necessità barocca di inventare forme multiple e della «volontà di
disfare i generi, questa divisione che è stata così utile, così fruttuosa nel
caso della letteratura occidentale».
Altrettanto inadeguato
risulta, com’è ovvio, l’ancoraggio al monolinguismo: ogni scrittore moderno –
sosteneva Glissant – «non è monolingue, anche se non conosce che una sola
lingua, perché scrive in presenza di tutte le lingue del mondo».
Scrivere è arte dello sfiorarsi e
dell’avvicinarsi, e pratica esemplare del «pensiero della traccia». E che si
affida alla poesia, all’esercizio dell’immaginario per cambiare il mondo.
Perché ogni atto poetico – sosteneva ÉdouardGlissant – «è un elemento della
conoscenza del reale».
Sebbene le culture
occidentali non siano monolitiche, tanto che ognuna ha conosciuto le proprie
deviazioni e le proprie eresie, tuttavia esse hanno imposto di volta in volta
il loro razionalismo, fosse nel nome del cattolicesimo, o del protestantesimo,
o della dialettica, o del marxismo, o del capitalismo o del comunismo: niente
altro che sistemi, per fuggire i quali non abbiamo potuto che appellarci a
qualcosa che li contraddicesse: mi impongono l’uniforme? Cerco il diverso. Mi
impongono il pensiero continentale? Cerco il pensiero dell’arcipelago. Mi
impongono le culture ataviche? Cerco quelle composite.
Lo slogan che recita
«agisci localmente, pensa globalmente» può paradossalmente riassumere meglio di
ogni altra cosa la mia posizione, diceva Glissant, perché rinvia alla necessità
di mettere in rapporto il proprio luogo con tutti i luoghi del mondo. La poesia
migrante , allora, può essere il modo per scongiurare il conflitto delle
differenze e ricercare l’armonia nella diversità.
Ecco
perché ho scelto l’accostamento della parola poesia con l’aggettivo migrante,
per mettere l’accento sull’atteggiamento di trasloco dell’anima, di apertura,
di relazione, come se noi, stasera, tutti insieme tendessimo un abbraccio tra
questa terrazza e tutti i luoghi del mondo in cui la migrazione è non solo una
dolorosa necessità sociale e politica, ma anche il modo di dirsi umani e di
porlo in collegamento con l’altro che ci completa e ci definisce.
Fabio D’Anna
Fabio D'Anna
Odisseo nero
Chi sei tu,
uomo bianco, che usi il colore per imbrattare la mia anima,
che
distruggi i sogni variopinti del mio sonno giovane,
che usi i
pennelli dell’odio
per farmi
pesce senza pinne
e cibo del
mare della vergogna?
Quale colore
ha il tuo Paradiso,
quale Dio
accoglierà
la tua anima
di carceriere,
che lingua
parlano le tue preghiere
al caldo
delle tue case
tinteggiate
di catene tenui e dolorose?
Cosa insegni
ai tuoi bambini
che mi
sorridono
ai semafori,
agli incroci
volanti
delle vie
polverose e bruciate
dai raggi
del disprezzo?
Tu, uomo
bianco, che disprezzi la mia pelle,
che usi il
nero per il tuo sfarzo vestito a festa
e per il
lutto dei tuoi morti,
perché
oscuri la notte
col colore
della paura
che fugge lo
sguardo?
Perché
affami il mio popolo
e baratti
diamanti
per corpi
all’ammasso?
Perché armi
i mercanti di morte
e riempi le
tue case
di oggetti
senza parola
che urlano
silenti
il pianto
dei bambini uccisi
dai tuoi
fucili?
Non avere
timore
uomo bianco,
sono solo io,
un nomade
errante
in cerca di
pace.
Odisseo nero
senza Itaca,
soffoco le
lacrime
della
nostalgia
per farmi
opaco
e difendermi
capendo.
Non affamare
l’amore
uomo bianco,
non cibarti
di cecità
e oblio,
sono un uomo
anch’io.
Incontrami
uomo bianco,
porgi la tua
mano,
rimarrà
bianca
pur
stringendo la mia.
Non
permettere
che l’acqua
cancelli
la supplica.
Abbracciami,
la mia pelle
non puzza
più della
tua,
il mio
sudore
è carico
d’incontro
e vuoto di
mani.
Il mio
sangue
è rosso,
circola in
silenzio
per non
turbare
la tua vita
rumorosa.
Ho figli e
amori,
paure e
sconfitte,
memorie e
speranze,
illusioni e
ponti
per unire le
sponde
delle coste
vicine e nemiche.
Parlo lingue
che non
capisci,
ma se mi
guardassi negli occhi
solo per un
attimo,
se solo ti
spogliassi
dei vestiti
cuciti addosso
per essere
nudo come un bambino,
ti vedresti
allo specchio
e
l’arcobaleno
sarebbe una
barca su cui
viaggiare
insieme,
senza più
colori
e, insieme,
con tutti
i colori del
mondo.
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