27 agosto 2017

LA POESIA MIGRANTE SECONDO FABIO D'ANNA



        Lo scorso 17 agosto, nella terrazza S. Francesco di Marsala, si è svolta una partecipata serata poetica dedicata a tutti i migranti del mondo. La serata è stata introdotta da un intervento dell' Avv. Fabio D'Anna che di seguito riproduciamo:

 Poesia migrante
 
Poesia migrante è un titolo suggestivo per una lettura di poesie , ma può anche essere un intrigante pleonasmo. La poesia, infatti, parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o quello ma lo dice con un effetto d’eco che ci ricorda come non la si possa prendere in parola. Questa sua ambiguità fondamentale è la sua lezione, una lezione insostituibile. La poesia, pertanto, può dirsi un sogno fatto in presenza della ragione, oppure un ragionamento fatto in presenza di un sogno. Cioè un discorso che in apparenza è simile ad altri: d’amore, di dolore, di disperazione, di sapienza, ma fatto sotto lo sguardo  di un fantasma che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto nei sogni.
La poesia, è per sua natura migrante perché la sua essenza si nutre dell’essenziale ambiguità polisemica.  E cioè della capacità di fare coesistere in una stessa parola significati diversi, sia come estensione semantica del vocabolo o come effetto dell’annullamento della diversità etimologica tra due o più parole semanticamente diverse, ma fonologicamente identiche.
Anche vivere, però, significa migrare, come ci ricorda Edouard Glissant, poeta, romanziere, saggista nato nel 1928 a Bézaudin di Sainte-Marie, nell’isola di Martinica e scomparso nel 2011, discendente di schiavi, che tanti studi ha dedicato alla poesia e al tema dell’identità, da lui identificata con la relazione. «Bisogna amare l’uomo, accettando di non capirlo fino in fondo»
Le radici — ha scritto Édouard Glissant — non sprofondano nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pian­ta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani. Tale chiave di lettura ci fornisce la giusta rispo­sta all’equivoco e lacerante dilemma tra la pau­ra della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e l’esasperazione delle diversità stes­se, ognuna delle quali si chiude regressivamen­te alle altre in un gretto nazionalismo. Glissant afferma che ogni identità e il mondo stesso si costruiscono nella relazione, in un processo creativo e armonioso che egli definisce «creolizzazione»..
L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere si­gnifica errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che si cre­sce, cambiando senza snaturarsi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universa­le reclamata dal colonialismo.
L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; sia di chi la costruisce, impendendo di uscirne, sia di chi la vede come un ostacolo per vedere oltre la costruzione figlia della paura. Chiudersi in se stessi è terribilequanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo.
Glissant ha inoltre teorizzato un concetto molto affascinante: quello dell’opacità. Lo scrittore rivendicava il diritto di ognuno all’opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere total­mente l’altro. Ogni esistenza, diceva, ha un fondo com­plesso e oscuro, che non può e non deve essere attraversato dai raggi X di una pretesa cono­scenza totale. Bisogna vivere con l’altro e amar­lo, accettando di non poterlo capire a fondo e di potere essere capiti a fondo da lui.
Glissant affermava, inoltre, che ogni atto poetico è conoscenza del reale. «Non si emettono parole nell’aria», ha ripetuto più volte nei suoi testi, ogni immaginario poetico, infatti, proviene dal luogo «in cui viene articolata la parola», un luogo che ne condiziona non solo il modo, ma la sua stessa possibilità di espressione.
Così, aggiungo io, ogni parola che usiamo è figlia dell’aria che respiriamo, delle pietre che calpestiamo, della polvere che respiriamo, delle relazioni che intrecciamo, degli abiti che indossiamo. Ecco perché stasera indosso una tunica araba donatami da un amico senegalese che vive a Pantelleria,la indosso come un silente abbraccio alle radici con cui ho intrecciato la mia vita e per testimoniare una relazione che nasce qui, stasera, tra chi leggerà dei testi poetici e chi li ascolterà con il silenzio figlio dell’amore per la condivisione.
Glissant difendeva il principio della creaolizzazione, intesa come il risultato imprevedibile dell’incontro tra culture, forme di sensibilità e di intuizione diverse.  La sua analisi muoveva dalla contestazionedi quella concezione «sublime e mortale che i popoli dell’Europa e le culture occidentali hanno veicolato nel mondo, ovvero che ogni identità è un’identità a radice unica, escludente ogni altra».
Un pensiero fondato sulla rivendicazione del diritto all’opacità, perché «non è più necessario ‘comprendere’ l’altro, cioè ridurlo al modello della mia stessa trasparenza, per vivere con lui o per costruire con lui».
Rinunciando all’idea di un ordine sovrano che riconduca una volta per tutte ogni cosa ad unità, Glissant ha elaborato –una sua versione della «identità rizomatica per offrire una definizione dell’identità» L’identità, per Glissant, era dunque costitutivamente una relazione, un’apertura all’altro, un luogo di scambio tra il «medesimo» e il «diverso» in cui ciò che conta è il nodo, la maniera in cui si entra in contatto con gli altri. Non, dunque, un’identità evanescente, un’abdicazione del soggetto, perché pur respingendo l’idea di una radice totalitaria Glissant ne rivendicava comunque il radicamento nel luogo, vera condizione per l’apertura al «caos-mondo», ovvero «lo choc, l’intreccio, le repulsioni, le attrazioni, le connivenze, le opposizioni, i conflitti tra le culture dei popoli, nella totalità-mondo contemporanea». Idee che trasferite sul piano compositivo si sono tradotte nella rinuncia all’unicità formale in favore della necessità barocca di inventare forme multiple e della «volontà di disfare i generi, questa divisione che è stata così utile, così fruttuosa nel caso della letteratura occidentale».
Altrettanto inadeguato risulta, com’è ovvio, l’ancoraggio al monolinguismo: ogni scrittore moderno – sosteneva Glissant – «non è monolingue, anche se non conosce che una sola lingua, perché scrive in presenza di tutte le lingue del mondo».
 Scrivere è arte dello sfiorarsi e dell’avvicinarsi, e pratica esemplare del «pensiero della traccia». E che si affida alla poesia, all’esercizio dell’immaginario per cambiare il mondo. Perché ogni atto poetico – sosteneva ÉdouardGlissant – «è un elemento della conoscenza del reale».
Sebbene le culture occidentali non siano monolitiche, tanto che ognuna ha conosciuto le proprie deviazioni e le proprie eresie, tuttavia esse hanno imposto di volta in volta il loro razionalismo, fosse nel nome del cattolicesimo, o del protestantesimo, o della dialettica, o del marxismo, o del capitalismo o del comunismo: niente altro che sistemi, per fuggire i quali non abbiamo potuto che appellarci a qualcosa che li contraddicesse: mi impongono l’uniforme? Cerco il diverso. Mi impongono il pensiero continentale? Cerco il pensiero dell’arcipelago. Mi impongono le culture ataviche? Cerco quelle composite.
Lo slogan che recita «agisci localmente, pensa globalmente» può paradossalmente riassumere meglio di ogni altra cosa la mia posizione, diceva Glissant, perché rinvia alla necessità di mettere in rapporto il proprio luogo con tutti i luoghi del mondo. La poesia migrante , allora, può essere il modo per scongiurare il conflitto delle differenze e ricercare l’armonia nella diversità.

Ecco perché ho scelto l’accostamento della parola poesia con l’aggettivo migrante, per mettere l’accento sull’atteggiamento di trasloco dell’anima, di apertura, di relazione, come se noi, stasera, tutti insieme tendessimo un abbraccio tra questa terrazza e tutti i luoghi del mondo in cui la migrazione è non solo una dolorosa necessità sociale e politica, ma anche il modo di dirsi umani e di porlo in collegamento con l’altro che ci completa e ci definisce.

Fabio D’Anna


 Fabio D'Anna

Odisseo nero

Chi sei tu, uomo bianco, che usi il colore per imbrattare la mia anima,
che distruggi i sogni variopinti del mio sonno giovane,
che usi i pennelli dell’odio
per farmi pesce senza pinne
e cibo del mare della vergogna?

Quale colore ha il tuo Paradiso,
quale Dio accoglierà
la tua anima di carceriere,
che lingua parlano le tue preghiere
al caldo delle tue case
tinteggiate di catene tenui e dolorose?

Cosa insegni ai tuoi bambini
che mi sorridono
ai semafori,
agli incroci volanti
delle vie polverose e bruciate
dai raggi del disprezzo?

Tu, uomo bianco, che disprezzi la mia pelle,
che usi il nero per il tuo sfarzo vestito a festa
e per il lutto dei tuoi morti,
perché oscuri la notte
col colore della paura
che fugge lo sguardo?

Perché affami il mio popolo
e baratti
diamanti
per corpi all’ammasso?
Perché armi i mercanti di morte
e riempi le tue case
di oggetti senza parola
che urlano
silenti
il pianto dei bambini uccisi
dai tuoi fucili?

Non avere timore
uomo bianco,
sono solo io,
un nomade
errante
in cerca di pace.

Odisseo nero senza Itaca,
soffoco le lacrime
della nostalgia
per farmi opaco
e difendermi capendo.

Non affamare l’amore
uomo bianco,
non cibarti di cecità
e oblio,
sono un uomo anch’io.


Incontrami
uomo bianco,
porgi la tua mano,
rimarrà bianca
pur stringendo la mia.
Non permettere
che l’acqua
cancelli
la supplica.

Abbracciami,
la mia pelle non puzza
più della tua,
il mio sudore
è carico d’incontro
e vuoto di mani.

Il mio sangue
è rosso,
circola in silenzio
per non turbare
la tua vita rumorosa.

Ho figli e amori,
paure e sconfitte,
memorie e speranze,
illusioni e ponti
per unire le sponde
delle coste vicine e nemiche.

Parlo lingue
che non capisci,
ma se mi guardassi negli occhi
solo per un attimo,
se solo ti spogliassi
dei vestiti cuciti addosso
per essere nudo come un bambino,
ti vedresti allo specchio
e l’arcobaleno
sarebbe una barca su cui
viaggiare insieme,
senza più colori
e, insieme, con tutti
i colori del mondo.

( Fabio D’Anna)









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