“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
L' anno scorso sono stati pubblicati gli atti di un importante Convegno di studi, svoltosi a Casarsa della Delizia (UD), intitolato IL GRAMSCI DI PASOLINI (Marsilio Editori, Venezia 2022). Il curatore degli Atti, Paolo Desogus (docente di letteratura italiana alla Sorbona di Parigi) nell'Introduzione ha dovuto riconoscere che sono stati ben pochi gli studi che hanno messo a fuoco il rapporto tra Gramsci e Pasolini. Tra i pochi è stato notato il saggio che lo scrivente ha pubblicato, nel novembre del 2011, sulla rivista dell'Università di Barcelona Quaderns d' Italià , con il titolo Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini.
Dopo 22 anni è stato finalmente riconosciuto che in questo saggio, riprendendo e sviluppando originalmente, in modo documentato, una intuizione del compianto Prof. Tullio De Mauro, sono stato tra i primi a dimostrare l'origine gramsciana di gran parte dell'opera pasoliniana.
Il poeta e regista bolognese, dopo le sue prime letture del grande pensatore sardo, nei primi anni sessanta, sulle pagine del settimanale comunista Vie Nuove, ha mostrato di aver ben assimilato la lezione pedagogica gramsciana e, fin dal 1965, dopo aver rilevato la deformazione dogmatica del creativo pensiero critico di Marx e Gramsci, si è posto il compito di costruire «un nuovo modo d’essere gramsciani» per comprendere meglio il neocapitalismo. Più precisamente Pasolini, dopo aver rivendicato con orgoglio di essere stato un marxista critico e di aver dato un contributo originale allo storicismo gramsciano, afferma, memore della classica lezione marxiana:
bisogna tenere presente l’assioma primo e fondamentale dell’economia politica, cioè che chi produce non produce solo merci, produce rapporti sociali, cioè umanità.
Ora, aggiunge Pasolini, dato che il neocapitalismo ha rivoluzionato il vecchio modo di produzione e tramite la produzione di beni superflui e il consumismo ha trasformato antropologicamente gli italiani, i vecchi comunisti non sanno più cosa fare. Nella confusione tendono a trasformarsi in «un nuovo tipo di chierici» che, non tenendo conto dei cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi dieci anni, ripetono salmodicamente il catechismo marxista-leninista, accusando di eresia tutti coloro che la pensano diversamente:
dove ho scritto che bisogna ritornare indietro? Dove? Vedete punto per punto, e io [...] vi dico no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro, appunto perché mi pongo i problemi più attuali, fiuto i problemi del momento [...] Gramsci lavorava quaranta anni fa, in un mondo arcaico che noi non osiamo neppure immaginare [...] puoi ricordarmi Gramsci come anello di una catena storica che porta a fare nuovi ragionamenti oggi, a riproporre un nuovo modo di essere progressisti, un nuovo modo di essere gramsciani.
Come si vede, anche queste parole confermano l’immagine data di sé nell’intervista ad Arbasino del 1963: «la mia caratteristica principe è la fedeltà».
Uno dei lettori più attenti delle ultime opere di Pasolini (Dagli Scritti corsari agli ultimi versi friulani, dalle Lettere luterane a Salò) è stato Gianni Scalia. Amico e collaboratore del poeta fin dagli anni cinquanta, quando si ritrovarono, insieme a Franco Fortini, Francesco Leonetti, Angelo Romanò e Roberto Roversi, a redigere la rivista Officina.
I due vecchi amici, dopo aver seguito strade diverse, si ritrovano di nuovo in sintonia un mese prima che Pasolini venga assassinato. Lo dimostra un importante carteggio che si trova oggi in Appendice alla riedizione arricchita di un libro dello Scalia (La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, Portatori d'acqua Editori, Urbino 2020, pp. 242-245) È quest’ultimo a riaprire il dialogo con l’amico nel settembre del 1975, con una lettera in cui si compiace di notare come solo chi non vuole capire si ostina a fraintendere il senso dei suoi ultimi articoli pubblicati sul Corriere della Sera, accusandolo di “irrazionalismo, vitalismo, arcaismo eccetera eccetera”. Al contrario Scalia, intravedendo tra le righe pasoliniane l’antico spirito critico marxiano, propone di “tradurre” in termini marxisti gli articoli dell’ amico.
Il successivo 3 ottobre Pasolini risponde con entusiasmo a Scalia affermando: «La tua idea di “tradurre” in termini di economia politica ciò che io dico giornalisticamente mi sembra non solo bellissima, ma da attuarsi subito». Purtroppo il poeta non fa in tempo a leggere la “traduzione” dell’amico che, comunque, mantiene l’impegno scrivendo, tra l’altro: «Credo che l’ultima ricerca di Pasolini (la sua scoperta di Marx) sia tutta qui: capire la società del capitale nella sua ultima figura; chiedere di essere aiutato a capire sempre di più, e più profondamente; di essere aiutato cioè tradotto. Insomma, Pasolini stava facendo, a suo modo, con i suoi mezzi e la sua cultura, attraverso le sue intuizioni, un’analisi della società del capitale da marxista, (…), in mezzo a marxisti progressisti e storicisti: ritrovava l’analisi della totalità del Capitale, della sua produzione non solo di merci e di plusvalore ma di rapporti sociali (…) totalmente alienati nella mercificazione (…). Riconosceva, in mezzo a un marxismo endemico, o, meglio, introuvable, l’analisi marxiana, incentrandola in tre grandi questioni: la “mutazione antropologica” prodotta dal capitale nella sua ultima figura di ‘modernità’; la totalizzazione e socializzazione del modo di produzione capitalistico nel ‘produttivismo-consumismo’; il “genocidio delle culture” (secondo una espressione marxiana del Manifesto, che continuava a ‘recitare’) nella produzione culturale capitalistica».
La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui:
il poeta bolognese è stato «interpretato, giudicato, commemorato: encasillado (come direbbe Unamuno). Ma non compreso. Chiedeva di essere aiutato nella sua ricerca dei “perché” della condizione presente […]. Faceva domande e sollecitava risposte[...]. Gli si rispondeva con i silenzi puntuali, le polemiche […], o, come diceva con il “silenzio”». (G. Scalia, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, Portatori d'acqua Editori, Urbino 2020, p. 51).
Naturalmente quanto sopra esposto in modo sommario lo potete leggere, in modo più articolato e documentato, nel mio ultimo libro Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene Multimedia, Bologna 2022, di cui è in corso di stampa la II edizione.
Dietro le grandi proteste in corso in Francia ci sono anche relazioni di solidarietà, poco raccontate, con radici antiche. Le prime casse di sciopero risalgono alle società di mutuo soccorso sorte nell’800. Nel ‘900 le pratiche delle sottoscrizioni si diffondono con la stampa operaia e socialista, è quello il periodo anche delle straordinarie “zuppe comuniste”. Dopo la guerra le casse di sciopero riaffiorano in poche occasioni. Oggi, anche grazie al web, sono tornate ad essere un fatto politico importante che non riguarda solo la mobilitazione francese
Il giornale di destra Le Figaro lo scrive in modo chiaro: “La cassa di solidarietà agli scioperi dei sindacati oltrepassa già 2,5 milioni di euro”. Come dice Romain Altmann della CGT: “Dopo il decreto del governo per imporre la riforma assistiamo a un’esplosione dei doni e a una valanga di solidarietà». La colletta è stata lanciata il 10 gennaio ma ha avuto un enorme incremento nelle due ultime settimane e oltre 405.000 euro in 24 ore, con oltre cinquemila donazione in vista della mobilitazione del 23 marzo. Ci sono stati anche donazioni importanti fra cui una di 30.000 euro.
Ecco il sito della cassa di solidarietà agli scioperanti: caisse-solidarite.fr e il conteggio aggiornato al 31 marzo 2023 alle ore 9:
Ma ci sono anche tante piccole casse di solidarietà a livello locale o di categoria (lavoratori delle ferrovie, panifici, operatori ecologici…). Molti sono i lavoratori che non possono smettere di lavorare e contribuiscono alla lotta con donazioni alle casse di solidarietà. Giovedì scorso si è avuto un dono record di 100.000 euro. La France insoumise (il partito di Mélenchon) ha una sua cassa e dall’ottobre 2022 ha già raccolto 805.591 euro; tutte le donazioni sono interamente versate alle cassedegli scioperanti.
Un ottimo articolo di Gabriel Rosenman su theconversation.com ricostruiscela straordinaria storia di questi fondiper lo sciopero. Le prime casse di sciopero risalgono alle società di mutuo soccorso sorte negli anni Trenta dell’Ottocento: in un contesto segnato dall’assenza di protezione sociale, queste prime organizzazioni di lavoratori mirano a mettere in comune le risorse per garantire ai propri iscritti un’indennità in caso di malattia, disoccupazione o sciopero. È il caso, ad esempio, della “Société du Devoir Mutuel”, fondata dai capi delle botteghe dei tessitori lionesi nell’ambito della loro lotta per una tariffa minima garantita: questi lavoratori giocheranno un ruolo importante durante le rivolte di Canuts del 1831 e del 1834. Furono queste le prime irruzioni della classe operaia sulla scena politica francese, prima dunque del 1848. Dopo la stretta sorveglianza del mutualismo da parte di Napoleone III (1852) queste società si ritirarono dal sostenere gli scioperanti e cedettero gradualmente il posto alle prime camere del lavoro, dove il denaro, durante gli scioperi, si presta reciprocamente tra sindacati.
Alla fine dell’Ottocento la morfologia degli scioperi subisce una profonda trasformazione. Gli scioperi sono più numerosi e massicci e coinvolgono anche lavoratori poco qualificati e poco sindacalizzati. La pratica della sottoscrizione si diffonde allora nella stampa operaia e socialista. La richiesta di donazioni rischia infatti di intrappolare gli scioperanti in una posizione di inferiorità (“la mano che dà è sempre sopra la mano che riceve”). E rischia anche di mischiare il denaro della solidarietà operaia con quello della beneficenza borghese, infrangendo così l’imperativo dell’“autonomia operaia”. Anche la pratica della solidarietà finanziaria con gli scioperanti cambia sotto l’effetto dei progressi tecnologici: la sua portata geografica si estende grazie allo sviluppo del telegrafo e dei bonifici bancari. I primi decenni del Novecento sono caratterizzati da un forte aumento della durata media degli scioperi e spinge molti sindacati a istituire casse di sciopero permanenti. Questo periodo è anche quello delle “zuppe comuniste”: sindacati e comuni socialisti moltiplicano i pasti collettivi, che permettono di sostenere sia materialmente che moralmente gli scioperanti. Queste pratiche di solidarietà conoscono una brutale interruzione con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Nella Francia del dopoguerra, i sindacati diventano organizzazioni di massa riconosciute e lo sciopero acquista lo status di legge costituzionale. La pratica delle casse di sciopero riaffiora solo in poche occasioni, come durante i lunghi scioperi dei minatori del 1948 e del 1963. Gli anni Settanta registrano una temporanea ripresa delle casse di sciopero e delle pratiche di solidarietà finanziaria: i lunghi scioperi del Joint francese (1972), del LIP (1973) o del Parisien Libéré (1975) ne sono esempi emblematici. Ma dall’inizio degli anni Ottanta il movimento operaio di fatto si ritira: si riducono enormemente gli iscritti, le giornate di sciopero
Soltanto alla fine degli anni 2000 assistiamo a un duraturo ritorno alle casse di sciopero. Nel 2007 gli operai della fabbrica PSA di Aulnay-sous-Bois aggiornamo questa modalità di azione, poi imitata da una serie di lunghi scioperi in vari settori: gli impiegati delle poste di Hauts-de-Seine (2009), la raffineria Grandpuits (2010), le cameriere di vari alberghi e palazzi (2012), le addette alle pulizie di Onet (2017), ancora i ferrovieri dal 2018. La stragrande maggioranza dei fondi recenti sono raccolti online. Il ritorno dei fondi di sciopero si spiega anche con un inasprimento delle condizioni per l’esercizio dello sciopero, come dimostra ad esempio il ricorso sistematico, da parte dei datori di lavoro, alla sostituzione degli scioperanti.
Dare soldi per sostenere gli scioperanti appare oggi a migliaia di dipendenti l’unico gesto utile e possibile. Mentre il 75% delle donazioni era di origine operaia tra il 1870 e il 1890, gli attuali donatori del fondo CGT InfoCom hanno un profilo sociale ben diverso: il 50% di loro è sindacalizzato e il 40% guadagna più di 2.400 euro al mese. Le casse di solidarietà agli scioperi, dunque, diventano un fatto politico totale di una lotta di classe globale.
Davanti alle tante tragedie che si ripetono di anno in anno, non possiamo più voltarci dall'altra parte, lasciando annegare tanti uomini, donne e bambini senza far nulla. Abbiamo trasformato il Mediterraneo in un cimitero. Questo mare bellissimo è diventato il simbolo della nostra tranquilla e pacifica mostruosità, della nostra totale mancanza di umanità. E la peggior mancanza di umanità è quella che cerca di giustificarsi con elementi razionali. Guardiamo la gente annegare nel Mediterraneo e intanto continuiamo a parlare dei nostri valori democratici. Me ne vergogno. E quindi fino a quando questo mare, a cui sono tanto legato, sarà il teatro di eventi tragici come quello di Cutro, non potrò più bagnarmi nelle sue acque. Non farò più il bagno nel Mediterraneo. Non posso più far finta di niente.
"Sai che sei sogno e donna E tenerti vicino significa condividere il vento e i fiori e gli oceani e le montagne e i giorni e le notti."
"Tu sais que tu es un rêve et une femme Et te garder proche signifie partager le vent et les fleurs et les océans et les montagnes et les jours et les nuits."
[Questo articolo è apparso sul n° 334 di marzo/aprile de “l’immaginazione” ed è dedicato al libro di Filippo La Porta e Luca Cirese, Perché non possiamo non dirci non violenti. Dialoghetto su un tema cruciale del nostro agire pubblico, Castelvecchi, Roma, 2021].
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Di Andrea Inglese
L’invasione russa dell’Ucraina ci ha di colpo ricordato che l’imperialismo travestito da guerra umanitaria non è una prerogativa degli Stati Uniti e dei governi occidentali suoi alleati. Questo fatto non ha creato grandi sorprese nella lettura della guerra che hanno dato i principali organi d’informazione europei (filoatlantisti), ma ha sollevato, soprattutto in Italia, un dilemma nella sinistra. Di questo dilemma, un libro uscito nel settembre 2021, ossia cinque mesi prima dell’invasione russa – ha costituito una profetica espressione. Mi riferisco a Non possiamo non dirci non violenti. Dialoghetto intergenerazionale su un tema cruciale del nostro agire pubblico, che raccoglie le voci di Filippo La Porta (classe 1952), critico e saggista, e quelle di Luca Cirese (classe 1988), giornalista e militante nonviolento.
Il titolo è per certi versi ingannevole soprattutto per il suo carattere assertivo e non d’interrogazione diretta, in quanto, nei fatti, lo scambio tra i due autori si svolge intorno all’esistenza o meno di clausole limitative dell’atteggiamento nonviolento in un’ottica pacifista e di condanna della guerra nelle sue varie forme. In estrema sintesi, il pacifismo è necessariamente sempre nonviolento? Posta in questi termini – che sono quelli che interessano La Porta e Cirese nel corso del loro dialogo –, si capisce bene come una tale questione sia emersa proprio all’interno della sinistra e del campo pacifista all’inizio di questa guerra. Ricorderò solo, a questo proposito, uno scambio avvenuto tra Adriano Sofri e Lea Melandri, intorno all’attitudine da prendere nei confronti della resistenza ucraina. Anche qui si è trattato di un dialogo (uno scambio epistolare pubblico) dove si poneva, in forma di dilemma morale, la questione delle clausole limitative nei riguardi di una presa di posizione radicalmente nonviolenta.
Il vero pregio del libro di La Porta e Cirese è illustrato, in realtà, nel suo sottotitolo: si parla di “dialogo”, e non di dibattito, e si parla di “tema cruciale del nostro agire pubblico”, ossia dell’impegno nei confronti della pace che non può non essere collettivo e riguardare tutti. I dialoghi veri si sono fatti assai rari, perché sul piano mediatico (sia mass-media tradizionali sia social) trionfa il dibattito, ossia il trattamento di un tema attraverso la giustapposizione di posizioni, che si presentano come merci nel mercato dell’opinione, tra cui il telespettatore e l’utilizzatore dei social debbono “liberamente” scegliere. Il dibattito, insomma, si basa sulla logica della comunicazione pubblicitaria: testimonial di diversi prodotti si affrontano per la conquista dei consumatori, posti come pubblico “esterno” alla scena. Il dialogo funziona su tutt’altre premesse ideologiche, come La Porta e Cirese ci insegnano. Innanzitutto, il dialogo – come il saggio, per altri versi – coinvolge non un portatore di opinioni, il veicolo di un’idea, ma una persona e la sua storia. Il suo terreno è quello esistenziale, non quello dell’astratta comunicazione di messaggi. Il tempo del dialogo è quello mutevole e evolutivo dell’esperienza, non quello della performance comunicativa (“chi è stato più convincente, in studio, stasera?”). Il dialogo, infine, nasce sempre da un interrogativo, ossia da un dubbio o un’indeterminatezza parziale o, in ogni caso, da un desiderio di confrontarsi con l’altro, e quindi di ascoltarlo nelle sue ragioni. Già per questo motivo, il breve “dialoghetto intergenerazionale” (una settantina di pagine) è ampiamente raccomandabile. A questa virtù, si aggiunge poi quella – anche qui saggistica – della digressione. E La Porta, in questo, eccelle, evocando Aldo De Capitini, Simone Weil, Guido Viale, John Belushi, Dante, Taika Waititi, regista di Jojo Rabbit, ma anche il Vietnam, la Resistenza, la guerra civile spagnola. Questa mobilità di sguardo, adottata con naturalezza anche da Cirese, blocca qualsiasi tentativo di argomentazione lineare, per costringerci a sottoporre senza sosta i nostri principi a controesempi o a situazioni ambigue, paradossali. Nonostante l’andamento sinuoso, il dialogo non sfocia in una sospensione del giudizio, ma ribadisce il dilemma di partenza, avendolo però arricchito di pensiero ed esempi storici, fornendogli insomma più spessore, ma anche, inevitabilmente, meno nettezza. E sono due esperienze che si confrontano, non due principi o due “opinioni politiche”: quello di una non-violenza intransigente e utopica, difesa da Cirese, e quella di un pacifismo che cerca di affermarsi, senza ignorare l’impossibilità di un’eliminazione totale dell’aggressività umana come costante socio-biologica o i contesti eccezionali che legittimano forme di violenza difensive, nel caso di La Porta. Entrambi gli autori, però, riconoscono che vi è un lavoro interminabile da fare su di sé, individualmente e collettivamente, per respingere innanzitutto ogni cultura più o meno compiacente con la violenza, affinché la guerra stessa diventi un tabù, anche quando è fatta al di fuori delle nostre frontiere e per ragioni che si pretendono “umanitarie”.
Non dev’essere esattamente per un caso che oggi a scuola, quando si parla di guerra (e certo non lo si fa mai abbastanza), di fatto si torna più facilmente alla “storia”, cioè alle due grandi guerre mondiali “lontane” del seolo scorso, piuttosto che a quella che dilaniò la Jugoslavia fino all’inizio di questo secolo o alle due guerre del Golfo. Per questo ci pare tanto utile l’attento racconto che comincia con questo articolo la nostra amica Alexik, a vent’anni dalla seconda guerra del Golfo, quella che comincia con George W. Bush che ottiene dal Congresso degli Stati Uniti l’autorizzazione all’uso della forza al fine di “difendere la sicurezza nazionale degli Usa contro la minaccia posta dall’Iraq ”. Si tratta, certo, di una colonna portante di quella che la propaganda bellica ha chiamato fino a ieri “guerra al terrorismo”, dove il terrorismo sono in modo del tutto indistinto tutti i nemici, ma anche di una guerra estrattivista per eccellenza. Sangue e petrolio, come titola Alexik sul sempre prezioso Ecor, Extractivism, Conflicts Resistances. Le centinaia di migliaia di persone morte, irachene e non, per “liberare” Baghdad sono state infatti sacrificate sull’altare della pretesa di controllo del Medio Oriente e della metà delle riserve mondiali di petrolio contenute nel suo sottosuolo. Per un obiettivo così ambizioso Bush è riuscito a convincere la popolazione degli Stati Uniti ad accettare che si spendessero almeno tremila miliardi di dollari (altrettanti ne hanno investiti Blair e il resto del mondo), cifre che facevano impallidire quelle impiegate in precedenza, nelle due guerre mondiali come in Vietnam e Corea, ma anche, per fare solo un esempio, i bilanci delle Nazioni Unite
Un convoglio di marines in Iraq. foto en.wikipedia.org
Il 20 marzo di vent’anni fa ebbe inizio, sotto l’amministrazione di George W. Bush junior, l’invasione militare dell’Iraq da parte degli USA e dei suoi alleati di Regno Unito, Australia e Poloniai. Scatenata col pretesto di (inesistenti) armi di distruzione di massa in mano a Saddam Husseinii e di presunte, e totalmente false, complicità del regime baathista con Al-Qaeda, la seconda Guerra del Golfo venne inaugurata da due giorni di (vere) distruzioni di massa sulle città irachene – 3000 bombe caddero sui 5,6 milioni di abitanti di Baghdad – per poi continuarecon l’offensiva di terra. L’invasione del 2003 era una delle varie fasi di una lunghissima storia di aggressioni subite continuativamente da quel paese, una storia iniziata 12 anni prima e le cui conseguenze permangono ancora adesso.
Nel 1991 la prima Guerra del Golfoiii aveva già lasciato in terra 100.000 morti iracheni facendo piovere la morte dal cielo, con i bombardamenti sulle città e con l’infamia dell’eccidio di migliaia di soldati iracheni in ritirata, bersagliati con il napalm e con le micidiali bombe FAE (Fuel Air Explosives). All’epoca James Bakeriv– segretario di Stato di George Bush senior – aveva promesso di riportare l’Iraq all’età della pietra, distruggendo le centrali elettriche, le stazioni di pompaggio e depurazione dell’acqua, i ponti, i silos di cereali, i magazzini alimentari, 8.613 scuolev, e qualsiasi cosa assomigliasse ad una infrastruttura civile. Il bombardamento dei siti industriali e dei complessi petrolchimici, l’avvelenamento di immense estensioni di suolo con l’uranio impoverito, lasciarono una pesante eredità tossica, che sarebbe ricaduta a lungo sui civili di un paese piegato per altri 12 anni da un pesantissimo embargo. Nel 2000 si stimavano un milione e mezzo di civili iracheni – di cui centinaia di migliaia di bambini – morti di contaminazione ed embargo: leucemie, colera, malformazioni neonatali, denutrizione, mancanza di cure, di acqua potabile, di assistenza medica al partovi. Morti che si aggiungevano a quelli dei bombardamenti quasi quotidiani che gli USA e i loro alleati continuavano a dispensare, anche in tempo di “pace”, su città, villaggi, campi coltivati, allevamenti di bestiame e infrastrutture pubbliche, imponendo una “no fly zone” che potevano violare solo loro, con più di 280.000 attacchi dal 1991 al 2001vii.
Citando Jean-Marie Benjaminviii: “durante la guerra del Golfo fino ad oggi [era il 2000] sono state riversate sull’intero paese oltre 135.000 tonnellate di bombe, tra cui più di 940.000 proiettili all’uranio impoverito: circa 700 tonnellate di uranio 238”. Materiali che rimarranno radioattivi per più di 4,5 miliardi di anni, e che presentano anche una tossicità indipendente dalla radioattività (l’uranio impoverito è teratogeno, citotossico, tossico per reni, pancreas, stomaco e intestino).
Gli “effetti collaterali”
Nel marzo 2003, l’offensiva di terra contro l’Iraq – che portò alla caduta e all’esecuzione di Saddam – e la successiva occupazione militare aggiunsero alla stima dei morti altre 100.000 persone nei primi 18 mesiix, un conteggio che salì a 655.000 nell’ottobre 2006.x
Fra queste, i resistenti e gli abitanti di Fallujah, massacrati in massa con le bombe al fosforo bianco, ma anche gli invitati e gli sposi di una festa di matrimonio a Mogr el-Deebxi, o i civili di Haditha, uccisi – donne e bambini compresi – per rappresaglia dopo la morte di un soldato USAxii (esattamente come facevano i nazisti, ma con una proporzione di 24 a 1).
Se non riuscite a caricare il video “Fallujah. La strage nascosta” di Pandora Tv, provate qui Video
Molti altri ne seguirono fino alla fine del 2011 (anno del ritiro della maggior parte delle truppe d’occupazione e della fine formale della seconda Guerra del Golfo) non solo per morte violenta ma anche per le contaminazioni da uranio impoverito, da metalli pesanti (torio, mercurio, piombo) prodotte dalle esplosioni ad altissima temperatura, da sostanze chimiche nocive rilasciate dagli incendi dovuti ai bombardamenti.
“Le statistiche ufficiali del governo iracheno mostrano che, prima dello scoppio della prima guerra del Golfo nel 1991, il tasso di casi di cancro in Iraq era di 40 su 100.000 persone. Nel 1995, era aumentato a 800 su 100.000 persone e, nel 2005, era raddoppiato ad almeno 1.600 su 100.000 persone”xiii. Una ricerca basata sui dati del Ministero della Sanità dava in crescita dal 2000 al 2016 quasi tutti le forme di cancroxiv.
A Fallujah, una città pesantemente colpita da operazioni belliche, si riscontravano l’aumento della sterilità e infertilità, della mortalità infantile e del cancro infantile, la riduzione del rapporto fra i sessi dei nuovi nati, e terribili malformazioni congenite: bambini nati con due teste o con un occhio solo, tumori multipli, deformità facciali e corporee, displasia tanatoforica, complessi problemi del sistema nervoso. Una situazione descritta come “il più alto tasso di danno genetico in qualsiasi popolazione mai studiata“.xv
“Abbiamo tutti i tipi di difetti ora, che vanno dalle malattie cardiache congenite a gravi anomalie fisiche, entrambi in numeri che non puoi immaginare“.xvi
Una situazione simile si riscontrava a Bassora, città petrolifera del sud dell’Iraq, anch’essa intensamente bombardata dai britannici nei giorni di marzo 2003, e sottoposta oltretutto all’inquinamento provocato dal rogo dei pozzi petroliferi, incendiati dall’esercito iracheno nel tentativo di ridurre la visibilità e ostacolare i bombardamenti.
“Tra l’ottobre 1994 e l’ottobre 1995, il numero di difetti alla nascita per 1000 nati vivi nell’ospedale di maternità di Al Basrah era di 1,37. Nel 2003, il numero di difetti alla nascita nell’Al Basrah Maternity Hospital era di 23 su 1.000 nati vivi. In meno di un decennio, il verificarsi di difetti congeniti alla nascita è aumentato sorprendentemente di 17 volte nello stesso ospedale. Un resoconto annuale del verificarsi e tipi di difetti alla nascita, tra il 2003 e il 2011, in Al Basrah Maternity Hospital, è stato segnalato. Sono stati forniti anche livelli di metallo in capelli, unghie dei piedi e campioni di denti dei residenti di Al Basrah. La porzione di smalto del dente deciduo da un bambino con difetti alla nascita da Al Basrah (4,19 μg/ g) aveva un piombo quasi tre volte superiore rispetto ai denti interi dei bambini che vivono in aree non impattate. Il piombo era 1,4 volte più alto nello smalto dei denti dei genitori di bambini con difetti alla nascita (2.497 1.400 μg/g, SD media) rispetto ai genitori di bambini normali (1.826 1.819 μg/g)”.
Successivamente, sempre a Bassora, una ricerca effettuata nel 2016 sui bambini con difetti congeniti riscontrava altissimi livelli di piombo nei loro denti da lattexvii. Ancora nel 2016, vivere vicino ad una base militare americana in Iraq (Nassirya) comportava l’esposizione al torio e una maggiore probabilità di anomalie congenite fra i neonati.xviii
Pessime, nel paese, anche le conseguenze sanitarie della distruzione delle infrastrutture fognariee dell’acqua potabile, come dimostrano le statistiche sul colera.
Chi ci ha guadagnato?
Per quanto il termine non fosse in voga all’epoca (il concetto di imperialismo ci bastava), le guerre contro l’Iraq che hanno chiuso il vecchio millennio e aperto il nuovo sono state per eccellenza estrattiviste.Quelle centinaia di migliaia di morti, iracheni e non solo, furono gli agnelli sacrificali sull’altare del controllo del Medio Oriente, e del 50% delle riserve mondiali di petrolio nel suo sottosuolo.
La posta in gioco per gli USA era la riconquista di un’area strategica sottratta alla loro sfera di influenza dalla rivoluzione iraniana del ’79 e dal nazionalismo arabo, ma anche l’egemonia sul mondo, resa dal crollo dell’URSS priva di contraltari. Fra gli obiettivi c’era sicuramente quello di disciplinare l’OPEC, tornando a stabilire il prezzo del petrolio, per eliminare la possibilità che un’altra “crisi del ‘73”xix mettesse a nudo la propria vulnerabilità di paese importatore. E poi, rompere il monopolio statale del petrolio iracheno, mirando alle grandissime riserve sottoutilizzate. Impedire o limitare, con gli stivali militari sul terreno, la disponibilità delle risorse strategiche per nemici e concorrenti. Procurare prebende e contratti per le proprie multinazionali di riferimento, a cominciare dalla Halliburton, la seconda multinazionale al mondo per la costruzione di infrastrutture petrolifere, di cui il Segretario di Stato dell’amministrazione di George W.Bush – Dick Cheney – era stato amministratore delegato. Obiettivi non precisamente raggiunti, o almeno non in misura tale da rendere “l’investimento” conveniente, tanto più che le previsioni iniziali dei costi della guerra si dimostrarono per l’aggressore decisamente sottostimate.
Nel 2008 lo studio condotto da Joseph E. Stiglitz e Linda J. Bilmesxx diede una misura dei costi della seconda guerra del Golfo, attestandosi “conservativamente” sui tremila miliardi di $ per gli Stati Uniti ed altrettanti per il resto del mondo.
Infinitamente di più di quelli previsti da George W. Bush all’inizio della guerra (quei 50-60 miliardi di dollari che le entrate derivanti dal petrolio avrebbero dovuto ripagare), e dalle cifre ratificate dal Congresso ($ 500 miliardi nel 2005), che non conteggiava miliardi di $ dispersi nei rivoli di una contabilità occulta, nelle enormi spese per i contractors, nelle assegnazioni degli appalti senza gara, nelle cure, assistenza e risarcimenti per migliaia di soldati feriti e mutilati. E non conteggiava nemmeno l’impatto sull’economia degli USA (e di tutti gli altri paesi importatori) del rialzo del prezzo del petrolio indotto dalla guerra.
Come commentava Aida Edemariam su The Guardian nel febbraio 2008: “Il mese prossimo l’America avrà speso per cinque anni in Iraq più di quanto abbia speso in entrambe le guerre mondiali. Le operazioni militari quotidiane (senza contare, ad esempio, la futura cura dei feriti) sono già costate più di 12 anni in Vietnam e il doppio della guerra di Corea. L’America sta spendendo 16 miliardi di dollari al mese solo per i costi di gestione (cioè in aggiunta alle spese regolari del Dipartimento della Difesa) in Iraq e Afghanistan; si tratta dell’intero bilancio annuale delle Nazioni Unite. Grandi quantità di denaro scompaiono – il Fondo di sviluppo da 8,8 miliardi di dollari per l’Iraq sotto l’Autorità provvisoria della coalizione, per esempio; e i milioni meno pubblicizzati che cadono tra le crepe del Dipartimento della Difesa, che non ha superato l’esame di nessun audit ufficiale degli ultimi 10 anni”xxi.
Nel breve termine, se l’obbiettivo era riacquistare il controllo dei prezzi del petrolio – di cui all’epoca gli USA erano forti importatori – il crollo della produzione irachena produsse l’effetto esattamente contrario.
“Quali che siano state le motivazioni per giustificare il bombardamento di Baghdad, il risultato non è stato certamente il petrolio a basso costo. Di fatto negli ultimi cinque anni [2003/2008] il prezzo del petrolio è balzato da 25 a 100 dollari al barile: risultato eccellente per le imprese petrolifere e per i paesi produttori di petrolio i quali sono, insieme ai contractors, i soli beneficiari di questa guerra, ma solo per loro. Un calcolo effettuato sulla base dei futures spinge Stiglitz e Bilmes a ritenere che una parte consistente di tale balzo sia direttamente conseguente dalle distruzioni e dalle instabilità causate dalla guerra in Iraq. La sola ascesa del prezzo del petrolio è costata agli Stati Uniti, che importano circa 5 miliardi di barili l’anno, una spesa extra annuale di 25 miliardi di dollari; con una proiezione al 2015 abbiamo un extra di solo petrolio pari a 1.600 miliardi di dollari nel periodo”xxii.
Gli USA avrebbero risolto la contraddizione solo durante il mandato di Barack Obama, quando la produzione interna di petrolio di scisto passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno, e forse non è un caso il fatto che il ritiro del grosso delle truppe dall’Iraq avvenne proprio in quel periodo.
Quanto alle prospettive di controllo del Medio Oriente, un risultato delle guerre irachene fu quello di ampliare il numero delle basi militari USA nell’area, ora presenti in Kuwait, Iraq, Gibuti, Oman, Bahrain, Giordania, Quatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, in aggiunta alle presenze storiche in Egitto, Israele e Turchiaxxiii.
Ma in Iraq, gli Stati Uniti consegnarono agli sciiti le chiavi del governo (ad esclusione del kurdistan iracheno) determinando automaticamente il suo passaggio nella sfera di influenza iraniana. Un bel risultato, per chi considera il paese degli ayatollah uno dei suoi peggiori nemici! E’ vero che non si ritirarono mai del tutto, rinforzando la presenza militare in occasione dell’Operation Inherent Resolve contro il Daesh, e intervenendo dalla loro base di Al Asad nel tentativo di arginare l’influenza iraniana, con l’assassinio via drone del generale iraniano Qasem Soleimani. Ma non è detto che col terrorismo possano assicurarsi il controllo del paese, o innalzare il loro indice di gradimento.
Un obiettivo parzialmente raggiunto fu la distribuzione di prebende per le multinazionali e imprese statunitensi, sicuramente per l’Halliburton, che al 2008 si era aggiudicata in Iraq contratti senza gara per 19,3 miliardi di $, e per gli affidatari dei lavori di ricostruzione, che secondo la legge sugli appalti degli Stati Uniti, andarono a costose aziende americane piuttosto che a quelle irachenexxiv. Le compagnie petrolifere nordamericane, invece, dovettero probabilmente ridimensionare le aspettative iniziali sulle possibilità di saccheggio delle risorse irachene di idrocarburi.
“Per quanto riguarda il ritorno delle major occidentali, il governo iracheno ha impiegato fino al 2007 per redigere una legge sugli idrocarburi che stabilisse un quadro giuridico per gli investimenti stranieri, e poi non è riuscito a far approvare la legislazione al parlamento iracheno. Quando, nel 2010, ha finalmente assegnato i contratti, ha dato accesso alle imprese non occidentali al pari delle grandi compagnie... In un’assurdità quasi perfetta, considerando gli scopi della guerra in Iraq, la maggior parte delle compagnie petrolifere occidentali hanno, negli ultimi anni, abbandonato o ridotto le loro operazioni, mentre il Ministero del Petrolio iraniano ha istituito un ufficio nel centro di Baghdad e le imprese cinesi sono in ascesa”xxv.
(1. Continua)
Note:
i Per quanto l’invasione fosse stata condotta dalle forze armate di USA, Regno Unito, Australia e Polonia (più un piccolo contingente ceco che non prese parte alle operazioni offensive), la coalizione (“Multi-National Force – Iraq” o “Coalizione dei volenterosi”) era formalmente composta da 48 paesi: Afghanistan, Albania, Angola, Australia, Azerbaigian, Bulgaria, Colombia, Corea del Sud, Rep. Ceca, Danimarca, Rep. Dominicana, El Salvador Eritrea, Estonia, Etiopia, Georgia, Regno Unito, Honduras, Ungheria, Islanda, Italia, Giappone, Kuwait, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Isole Marshall, Micronesia Mongolia, Nicaragua, Paesi Bassi, Palau, Panama, Filippine, Polonia, Portogallo, Romania, Ruanda, Singapore, Slovacchia, Isole Salomone, Spagna, Stati Uniti, Tonga, Turchia, Uganda, Ucraina, Uzbekistan.
v Padre Jean-Marie Benjamin, lettera al Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, 13 settembre 2000. Padre Jean-Marie Benjamin era all’epoca assistente del Segretario di Stato Vaticano per le missioni all’estero.
ix Les Roberts, Riyadh Lafta, Richard Garfield, Jamal Khudhairi, Gilbert Burnham, Mortality before and after the 2003 invasion of Iraq: cluster sample survey, The Lancet, 29 ottobre 2004. Lo studio di coorte ha selezionato 33 serie di 30 famiglie confrontando il numero e le cause di morte prima e dopo l’invasione. “Due terzi di tutti i morti violenti sono stati segnalati in un cluster nella città di Falluja. stimiamo che 98 000 morti in più del previsto (8000-194 000) siano accadute dopo l’invasione al di fuori di Falluja e molte di più se il includiamo il cluster di Falluja. Le principali cause di morte prima dell’invasione erano infarto miocardico, incidenti cerebrovascolari, e altri disturbi cronici, mentre dopo invasione la violenza è stata la causa principale di morte. Le morti violente erano diffuse, riportate in 15 dei 33 gruppi, e sono state principalmente attribuite alle forze della coalizione. La maggior parte delle persone uccise dalle forze della coalizione erano donne e bambini. Il rischio di morte per violenza nel periodo dopo l’invasione era 58 volte più alto (95% CI 8 1-419) che nel periodo prima della guerra. Facendo ipotesi conservative, pensiamo che circa 100 000 morti in eccesso, o più sono avvenuti dal 2003 l’invasione dell’Iraq. La violenza ha rappresentato la maggior parte delle morti in eccesso e gli attacchi aerei da parte delle forze della coalizione hanno causato le morti più violente”.
xi L’eccidio si svolse il il 19 maggio 2004, con 45 morti fra cui molte donne e bambini. Scheherezade Faramarzi, Iraqi survivors recount attack, Ocala StarBanner, 21/05/2004
xvi Dichiarazione della dottoressa Samira Alani, specialista pediatrica presso il Fallujah General Hospital. In: Dahr Jamail, Iraq: War’s legacy of cancer, Al Jazeera, 15 marzo 2013. Samira Telfah Alaani, Mohannad A.R. Al-Fallouji, Christopher Busby, Malak Hamdan, Pilot study of congenital anomaly rates at birth in Fallujah, Iraq, 2010, Journal of the Islamic Medical Association of North America, Vol 44 No 1 (2012).
xix Durante la guerra del Kippur, i produttori di petroli medio orientali raddoppiarono il prezzo di vendita del petrolio a livello mondiale e diminuirono del 25% le esportazioni, in aperto contrasto alla NATO e agli Stati Uniti, storici alleati di Israele. Gli altri paesi arabi appartenenti all’OPEC appoggiarono la causa e bloccarono le proprie esportazioni di petrolio verso Stati Uniti fino al gennaio 1975.