“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 maggio 2023
PASOLINI PER MARILYN
DESTRA E SINISTRA OGGI
mercoledì 31 maggio 2023
Destra-sinistra – se la sinistra non sa cosa fa la destra
astolfo
Si chiude a una ragazzina l’account Instagram perché ha osato criticare, educatamente, Chiara Ferragni. Non si può criticare Chiara Ferragni perché è una procuratrice pubblicitaria, promotrice efficace, pare, di vendite, e quindi fa ricca Google. Ma senza sdegno per la censura – anzi, lo sdegno è per la ragazza: non aveva l’età per l’account, ha barato, il suo post è troppo ben scritto.... (leggere per credere, l’infamia non ha limiti). Perché Ferragni è, anche, una icona della sinistra. Non sinistra, nel senso che è una che vende pubblicità senza dirlo, ma della sinistra politica.
Dunque, la sinistra è una pubblicità? Bella, certo, almeno per qualcuno, ma sempre pubblicità, compulsione a spendere – consumismo, spreco, superfluo, etc., etc., la vecchia vergogna, da riccastri parafascisti, o parà e fascisti...? In questo paese nulla è certo.
Vince la destra e la sinistra s’interroga. No, non s’interroga nemmeno, “in questo Paese”.
“Questo paese”, “in questo paese”, da D’Alema a Nanni Moretti è locuzione che connota di sinistra. Si dice “questo paese”, “in questo paese” è si è automaticamente di sinistra. Nel senso che chi lo dice, lei\lui, è migliore, molto migliore, di “questo paese” – sottinteso “di merda”. Ma la cosa è di sinistra, dire un paese che è un paese di merda? Dirlo in continuo, pensarlo, non dormirci la notte, fare il Br? La supponenza è di sinistra, quel placido, bruto, stancante ritenersi i belli-e-buoni, i καλοκαγαθοι, della Repubblica? Il “discorso” della sinistra è di sinistra, fuori dalla polemichetta sterile degli onorevoli e delle influencer, che di partenza fanno commercio?
Protestano inutilmente a Roma i residenti residui, pochi, del centro storico, contro il Campidoglio di sinistra che moltiplica fast-food e birrerie. In effetti, la depredazione del centro storico, ora praticamente inabitabile, un tempo da centomila abitanti, è opera della sinistra: isole pedonali per lo struscio, divieti di circolazione, divieti di parcheggio, terrazze all’aperto fino all’alba.Nel nome della modernità – cioè nel nome del commercio, piccolo e grande. Il centro storico di Roma è stato svuotato, dietro queste apparenze. Ma è di sinistra. Come sono di sinistra i centri commerciali invece che le attività artigianali, e le concessioni balneari all’asta – ci ha provato pure con i mercatini rionali.
Con la vittoria politica della destra in Italia non si ragiona più. Basterebbe ragionare che sono quarant’anni che la destra vince, quando la fanno governare. Ma se ci si pensa è peggio: cosa lo impedisce? Perché non si studia per quale motivo e in che modo Meloni vince dopo un lungo Berlusconi? È anche curioso che, oltre a Fazio e Annunziata, la sinistra non abbia santi – due che peraltro sono persone d’affari.
Si dice che la sinistra ha il monopolio culturale, ma non si vede in che cosa. Se non che alimenta la destra politica, la destra al potere. O non sarà questa destra un po’sinistra? Almeno come lo sono i media. Che in Italia sono tutta la “cultura”. Una volta c’erano gli intellettuali, ora niente, solo intrattenitori, televisivi e social – teatranti. Si parla di destra e sinistra, in verità, solo per stanchezza, una cosa rituale. L’unica riflessione è di Bobbio, risale al 1994, ed era inerte già allora. Ferma alla rivoluzione francese, mentre la destra aveva stravinto in Italia. E con leadership di un Berlusconi – almeno Meloni ha esperienza politica. Dopo che la magistratura e il giornalismo “di sinistra” avevano abbattuto il sistema politico. Una riflessione ferma all’uguaglianza – che il fascismo ha probabilmente perseguito con più ampiezza della Repubblica (certo, dietro il sovietismo, che l’autocrazia realizzò totale). Con indifferenza, non di proposito ma di fatto, da hobbesiano studioso di Hobbes, alla libertà, e alle pari opportunità, di classe, di genere, tra Nord e Sud, del mondo e dell’Italia. Fermo, anche nella terminologia, al parlamentarismo della prima Repubblica francese – e al suo parolaismo (tra cui proprio destra e sinistra, segmenti dell’emiciclo parlamentare).
Invano Popper e l’ultimo Croce della polemica con Einaudi (“non c’è liberalismo senza liberismo”) hanno spiegato che in una società aperta la maggiore libertà per un individuo e la maggiore libertà per tutti si stabilisce caso per caso, secondo la situazione del momento, a volte con una soluzione liberistica, a volte con una collettivistica - Croce usava proprio questa parola. Senza ricorrere a schieramenti fissi – tantomeno dichiarati, autoelettivi. La Pira, curiosamente, il sindaco più di sinistra che l’Italia abbia mai avuto, uomo pio, non parlava di destra e sinistra, ciò che professava e faceva chiamava “la cosa giusta”, al momento, nelle circostanze.
Destra-sinistra è uno dei tanti cascami del gergo politico francese, che l’Italia ha adottato nell’Ottocento e di cui non si è mai liberata, né sotto il fascismo e neppure negli ormai ottant’anni della Repubblica. Nella fraseologia giuridica e politica, e in quella dell’informazione, nell’opinione pubblica.
Quando aveva affrontato la libertà, scrivendone vent’anni prima (nelle voci “Eguaglianza” e “Libertà” scritte per l’“Enciclopedia del Novecento”, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, pubblicate rispettivamente nei voll. II, 1977, e III, 1978) Bobbio ha mostrato che non solo la teneva anche in conto ma molte cose in materia le sapeva. Da studioso di Hobbes partiva anche “dalla constatazione che gli uomini nello stato di natura sono eguali”. Ma, a differenza dei teorici dell’eguaglianza, trovava proprio nello stato di natura una delle cause del bellum omnium contra omnes. Bella e semplice, l’eguaglianza è inafferrabile. E Bobbio non sapeva nascondere l’irritazione – erano anni in cui pencolava dal partito Socialista verso Berlinguer, il partito Comunista: l’eguaglianza è vuota, detto alla prima pagina, l’eguaglianza è vacua, è una petizione di principio in tutte le sue formulazioni – “a ciascuno il suo”, “la legge è uguale per tutti”, “a ciascuno secondo i suoi bisogni” (Marx). L’ineguaglianza è certo reazionaria, concludeva. Ma l’eguaglianza è una petizione di principio, va ogni volta riempita, sempre con la libertà.
La seconda voce, “Libertà”, trovava Bobbio a suo agio, pianamente didattico. La libertà gli bastava esporla: è una petizione di principio anch’essa, ma non problematica. A disposizione di tutti, e senza controindicazioni. Non fino al “silentium legis” come Hobbes già configura. E tuttavia sempre operosa. Anche se il Novecento l’ha negata.
La sintesi che Bobbio faceva mezzo secolo fa della libertà ferma da un secolo è tuttora applicabile. Con i tre problemi della non-libertà rimasti irrisolti, allora come oggi: “A livello economico il tema dell’alienazione di derivazione marxiana, a livello politico il tema della burocratizzazione (o razionalizzazione del potere legittimo nella forma del potere legale), di derivazione weberiana, a livello ideologico il tema della manipolazione dell’opinione attraverso le comunicazioni di massa, che ha avuto la sua prima e contestata formulazione nella teoria critica della Scuola di Francoforte”.
Un problema – i tre problemi – per tutti. Perfino per i fascisti, si direbbe. Bobbio infatti non prospettava a essi vie d’uscita. Ma purtroppo apriva un quarto fronte, che ora ci attanaglia, con la categoria della società civile.
Società civile Bobbio brevemente chiarisce come “organizzazione della produzione e dell’intera società” rispetto allo Stato - il leviatano del pensiero liberale. Ma fatalmente convergendo nello slogan di Scalfari e Berlinguer, che chiude in un impasse da mezzo secolo l’Italia - la società dei belli-e-buoni, esclusivi, spregiatori, i pataccari della questione morale.
La società “civile” è una contraddizione. E un’autoaffermazione. L’aggettivo ha indubbiamente una valenza positiva, e si spiega che un partito, o gli spezzoni della Dc e del Pci che se ne fanno bandiera, lo utilizzino e lo vantino. Ma: cui prodest? Tanta saccenza e tanta ignoranza.
LA DISTRUZIONE DEL RISPARMIO
martedì 30
maggio 2023
Astolfo
“Da Paese di risparmiatori siamo diventati un Paese di indebitati”, è
osservazione marginale di Antonella Sciarrone Alibrandi, docente alla Cattolica
di Milano di Diritto dell’Economia, a pranzo con un intervistatore. E invece
no, non marginale. È il segno del mutamento profondo dell’Italia negli ultimi
quarant’anni, uno dei segni.
Dei tre miracoli economici del dopoguerra, dei tre paesi sconfitti, l’Italia
condivideva col Giappone il record mondiale del risparmio tra la varie forme di
distribuzione del reddito. In una con gli assetti familiari, monogamici, anche
contro le evidenze di fatto, comunque improntati alla continuità. A differenza
della Germania, dove il consumo prevaleva sul risparmio. Ora l’italiano – anche
l’italiano – è in mano alle banche, tra fondi comuni, fondi pensione
e polizze vita che sarebbero da codice penale, e assicurazioni che non
assicurano nulla - non valgono al bisogno, servono solo a salvare il posto di
lavoro ai residui impiegati di banca, che altrimenti lo perderebbero. Cioè è,
progressivamente certo, poco per volta, senza farsi accorgere, derubato
legalmente.
L’univa forma di risparmio è tenersi liquidi – tenere i soldi “sotto il
materasso”. È sciocco, ma è vero.
Le banche non remunerano più i depositi. E in qualche modo, più o meno
surrettiziamente, li tassano. Un conto ad attività medio bassa, da pensionato,
paga ogni anno un migliaio di euro: 900 alla banca, per servizi ordinariamente
in automatico, e 100 allo Stato per bolli. Si pagano alla banca (prelievi,
bonifici, incassi, compravendite di titoli): 140 euro per il conto corrente, 60
per la carta di credito (40 per l’emissione, 24 per gli addebiti mensili), 40
per i servizi di investimento, 400 per la gestione del deposito titoli, 250 per
gli incassi per conto del cliente. Bonifici e bancomat a un costo hanno
sostituito gli assegni che invece erano gratuiti, e non sono nemmeno tanto più
pratici. Si paga per niente, un addebito o un accredito costa sempre uno e due
euro.
Nel recente rialzo dei tassi primari il fatto è di evidenza sconcertante: pochi
centesimi ai correntisti, contro un tasso medo sui prestiti al 4 per cento – di
fatto all’8-12. E senza alternative: il risparmiatore italiano, contrariamente
alla vulgata, pigramente diffusa dai giornali, è il meno invischiato tra i
“capitalisti europei in fuga”, in Svizzera, negli Usa, nelle varie isole ma
opportunamente indolori. Le tensioni di metà marzo, che hanno registrato in
tutta Europa fughe in massa dei grandi depositi verso la Svizzera e gli Usa,
sono stati irrilevanti in Italia - malgrado la minima, o nessuna,
remunerazione. Il piccolo calo dei depositi tra marzo e aprile si calcola che
sia andato sui Btp, le cui emissioni si sono intensificate nel periodo, pari a
un decimo delle emissioni totali in cantiere al Tesoro nel 2023.
È l’effetto nefasto della banca universale, che nell’ondata di regolamentazioni
anglosassoni che ci ha seppelliti a fine Novecento (privatizzazioni,
liberalizzazioni, e appunto la banca universale) è arrivata in fretta
all’annientamento del risparmio. Non più casse di risparmio, popolari, rurali.
Risparmio non remunerato, in nessuna forma. Con rendimenti, se in obbligazioni,
al di sotto dell’inflazione. Di quella nominale ma già prima e di più di quella
reale – che non con i sistemi di rilevazione adottarti in parallelo è
costituzionalmente sottostimata.
Il credito approssima di fatto, anche quando legalmente si tiene al disotto,
l’usura, è costosissimo, tra interessi e spese. Sempre a fronte della nessuna
remunerazione del risparmio, e anzi delle pratiche tese a sottrarlo.
I redditi da capitale sono tassati al 21-26 per cento. Già questo è uno
scoraggiamento ad accumulare. Col ridicolo che la vincita al lotto è esentasse,
l’investimento in titoli è tassato al dividendo, e tassato al valore aggiunto
seppure di Borsa, e paga bolli in continuo, come una colpa.
L’immobiliare è ancora relativamente protetto dal vecchio catasto. Ma la casa è
da tempo nel mirino di un fisco perennemente indebitato, per una spesa pubblica
sempre più gonfia e sempre meno produttiva – basta vedere come sono praticati e
quanto sono pagati gli appalti pubblici. Tra Imu, Tari, Tasi, redditi
dominicali.
Peggio va la casa, il bene degli italiani – l’investimento di tutti, il
risparmio, anche dei poveri. L’82 per cento degli italiani possiede la casa in
proprio, poteva vantare Andreotti in uno dei suoi tanti governi attorno al
1980, confortato dal “Reddito delle famiglie”, l’annuario statistico della
Banca d’Italia. Oggi il 70 per cento possiede l’immobile in cui vive. Le quotazioni
del settore sono scese del 20 per cento tra il 2010 e il 2022. E solo il 28 per
cento ha anche altre case.
La contrazione è l’effetto delle tre “ultime tre recessioni” che la
Banca d’Italia rileva nei “Bilanci delle famiglie”, la crisi bancaria, quella
del debito, e quella del covid. “Nel 2020 il
reddito medio delle famiglie italiane a prezzi costanti e corretto per
confrontare tra loro nuclei familiari di diversa composizione, era più alto del
3,7 per cento di quello del 2016, ultimo dato disponibile, ma ancora inferiore
di quasi 8 punti percentuali rispetto al picco raggiunto nel 2006, prima delle
ultime tre recessioni che hanno colpito l'economia italiana”. Ma, di
più, anche se la Banca d’Italia non lo rileva, il reddito disponibile,
risparmio compreso, arranca per via della tassazione, che il governo Amato nel
1992 e il governo Monti dodici anni fa hanno dispensato sulle case, seconde e
anche prima.
Sulla prima casa i governi successivi hanno rimediato. Quella delle “seconde
case” è invece una storia a parte. Sono in larghissima maggioranza non il
casale in Umbria o in Toscana, o in Lomellina o in Brianza, sulla Riviera o
sulla Costiera. Sono le case familiari di origine, che gli italiani, pur
emigrando volentieri, non hanno abbandonato. Sempre nel quadro di una cultura
della durata: della famiglia, della continuità, del risparmio. Tutt’oggi,
ancora, il 55 per cento delle famiglie con reddito da primo quintile, quello da
minore condizione economica, possiede la casa di abitazione. La statistica non
c’è, ma lo stesso quintile ha anche la “seconda casa”, quella di origine,
magari solo un rudere.
È una continuità che fa l’immagine, e anche la maniera di essere, dell’Italia
rispetto ad altre culture, anche europee, anche prossime: la continuità del
paesaggio, degli insediamenti, della storia. Il radicamento, la stabilità,
anche nell’emigrazione. Molte sono ogni anno in abbondanza crescente
abbandonate, per i carichi fiscali che il governo Amato ha imposto e il governo
Monti ha triplicato. Disfarsene è impossibile, non c’è mercato, ma
disappropriarsene diventa un obbligo.
Col risparmio, anche il paesaggio e la storia vengono disfatte. Per quale buon
esito?
Non solo il paesaggio, la società cambia: non più figli, pet in
cambio. E il modo di vivere: si vive per sé stessi, per un arco di tempo
comunque breve. Cambia la coppia, cambia la psicologia. La demografia cambia,
dove ancora si procrea: già la famiglia “cinese”, la coppia con un solo figlio,
dopo due generazioni è isolata. Il risparmio perde la funzione generazionale –
“pensare ai figli” (con la casa, certo, la casa di famiglia, dei genitori, dei
nonni). Ma la deriva non è inevitabile. Se la stabilità non è più a premio e si
vive nell’instabilità stabile, questo è il peggio di tutto: non è uno sviluppo
accrescitivo ma diminutivo – è il consumo fatto vita.
Pubblicato
da Giuseppe Leuzzi
30 maggio 2023
IL SOGGETTO MALINCONICO DAL BAROCCO AI NOSTRI GIORNI
Il soggetto malinconico, barocco e contemporaneo
Tra i numerosi studi pubblicati negli ultimi tre anni (due importanti monografie, riflessioni relative all’unità d’Italia e alla questione meridionale, e una significativa incursione nella storia più recente del nostro paese -Tangentopoli-), Aurelio Musi ha dedicato un’attenzione particolare anche alla storia dei sentimenti. A Storia della solitudine (2021), concepita significativamente durante il periodo del lockdown, segue ora Malinconia barocca (Vicenza, Neri Pozza, 2023, euro 13,50). Si tratta di una tipologia di studio che pone allo storico impegnative questioni metodologiche, situandosi in un campo di ricerca in cui il lavoro di ricostruzione a partire dalle fonti richiede uno sforzo ermeneutico decisamente più rischioso, dovendosi confrontare con riferimenti fattuali evidentemente più sfuggenti. Nel caso di Malinconia barocca, l’orizzonte cronologico è circoscritto a quella modernità che coincide con il periodo maggiormente studiato dallo storico, che ha insegnato Storia moderna all’Università di Salerno. Se nello studio precedente la riflessione si estendeva dall’epoca antica alla condizione contemporanea, in questo caso la malinconia viene indagata esclusivamente quale manifestazione rappresentativa di un’epoca e di un movimento culturale (il barocco), sulla cui singolarità (molto più complessa di quanto una tradizione storiografica abbia inteso) lo storico vuole sollecitare l’attenzione del lettore. «Al concetto di Barocco», come viene immediatamente precisato all’inizio dell’Introduzione, «non è toccata in sorte la stessa fortuna che ha avuto quello di Rinascimento o di Illuminismo […]», movimenti, questi ultimi, rispetto ai quali è senso comune scorgere l’origine di alcuni segni distintivi della modernità occidentale. La marginalizzazione del Barocco, invece, ha risentito del giudizio negativo che su tale movimento si diffuse alla fine del Settecento, ma anche presso la critica letteraria tardo ottocentesca (De Sanctis e Croce fra gli altri). Questo “riduzionismo” critico ha fatto sì che non si cogliessero con adeguata profondità i segni che fanno della malinconia barocca una manifestazione del disagio della modernità, le cui tracce sono particolarmente ben visibili nella nostra epoca: dalla schizofrenia del quotidiano, all’ambivalenza, al senso di vuoto e a una più generale condizione di alienazione. «La malinconia è la condizione media che si insinua nella struttura bipolare del Barocco dominata da una serie infinita di coppie oppositive: certezza e instabilità, ragione e pazzia, riflessione e tormento, dissimulazione e apparenza. E la politica come disciplina è chiamata a governare la condizione bipolare dell’uomo moderno.»
Siamo propensi a pensare (ma non ne abbiamo alcuna certezza) che la motivazione a concretizzare questa ricerca sia dovuta anche all’intenso studio che ha preceduto la pubblicazione della monografia su Filippo IV, alla cui figura viene dedicato un breve ma prezioso capitolo: «Nel sovrano asburgico sono riconoscibili tutti i segni della malinconia come Stimmung: la tristezza, l’inibizione, la sofferenza, l’angoscia, lo scacco della speranza sono gli effetti del conflitto fra vita dissoluta e sensi di colpa». Una condizione già ereditata dalla madre, che si concretizza in un senso di colpa per non saper evitare le sofferenze del proprio popolo, in un’incapacità di resistere alle tentazioni della carne, per cui le disgrazie personali e politiche del suo impero vengono interpretate alla luce di una punizione divina; psicologia tormentata, di cui è testimonianza la straordinaria e drammatica corrispondenza con suor Maria di Àgreda, la sua consulente spirituale e politica. Un senso di smarrimento dunque che coinvolge tutto, i potenti come il popolo, l’individuale e la costruzione politica: «quel sentimento di alienazione, dell’uscir fuori dall’ordine naturale, dalla carreggiata ordinaria, quando persino dal proprio sovrano si sentiva dire “che tutto pareva sul punto di colare a picco”».
L’intero studio di Musi è impostato a partire dall’analisi, che occupa quasi metà dell’opera, di Anatomia della malinconia di Robert Burton, pastore anglicano di straordinaria cultura nell’Inghilterra del XVII secolo; è questo studio che consente di contestualizzare le successive testimonianze della malinconia barocca, in un discorso dalle numerose sfumature. Burton amplia infatti lo sguardo a una serie di manifestazioni e sintomatologie (somatiche quanto psicologiche) non contemplate dalla tradizione, in particolare la medicina antica, che pure alla malinconia aveva dedicato parte delle sue riflessioni. Burton è in grado di cogliere sia la varietà delle manifestazioni (spesso apparentemente contraddittorie) con cui il sentimento si presenta, capace di far sperimentare al soggetto che la vive sensazioni sia di piacevolezza sia di dolore; sia di rendere ragione della complessa relazione mente-corpo sperimentata dal malinconico, che si differenzia in varie forme, dalla malinconia d’amore, alle malinconie nazionali, alla melanconia religiosa. In questo modo Burton può fare riferimento senza contraddirsi a tutta la riflessione precedente, arricchendola però con osservazioni e deduzioni decisamente più ardite e innovative. «La modernità di Burton è innanzitutto nella sua visione olistica, unitaria della malinconia. Essa è un sentimento-sistema, per così dire: unità di corpo e mente, fondata sull’interdipendenza fra le parti del primo e quelle della seconda e sul trait-d’union delle emozioni che le riunisce tutte». Grazie a tale visione olistica Burton può elencare le più diverse sintomatologie (somatiche e psicologiche) della melanconia, e proporre un inventario di tutte le fobie di un’epoca di crisi. É proprio il concetto di crisi che consente un’efficace proiezione sui tempi attuali; rendendo il soggetto contemporaneo particolarmente adatto a comprendere tale scissione della personalità. D’altronde, la modernità dell’analisi si rivela proprio nell’«ambigua tensione di Burton tra precettistica e condizionamento delle passioni» con cui, da una parte, fornisce consigli per una terapia, dall’altra esprime una consapevolezza pessimistica sull’impossibilità di «uscire per sempre dalla condizione malinconica»; contraddizione giustificata dal fatto che «è la stessa malinconia a essere ambivalente».
Ambivalenza che si mostra nell’unità di follia e saggezza, in un comportamento vicino alla pazzia, ma capace di un linguaggio che esprime contemporaneamente lucidità e verità. Un conflitto psicologico evidenziato con efficacia da Musi, grazie alla sua profonda conoscenza del pensiero di Freud (si ricordino Freud e la storia e Memoria, cervello, storia in cui si sostiene l’importanze per uno storico di una approfondita conoscenza delle dinamiche psicologiche e cognitive); ma anche il riferimento a Foucault è costante, in quanto permette quel lavoro, propriamente storico, di classificazione e spazializzazione del dolore, che non confina la malinconia alla pura diagnosi patologica («Secondo Foucault bisogna porsi e mantenersi a livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentale del patologico, là dove ha origine e si raccoglie lo sguardo eloquente che il medico posa sul cuore velenoso delle cose»).
Lo studio prosegue analizzando, proprio secondo questa prospettiva, varie personalità: da Cervantes, già oggetto di approfondite valutazioni in Storia della solitudine, a Descartes e Spinoza fra gli altri. Un’incursione in alcuni tratti della soggettività (p.es. l’analisi dei tre sogni di Descartes, oggetto d’attenzione anche da parte di Freud), di indubbia importanza anche per la comprensione della loro produzione intellettuale. Sconvolgente la descrizione di una delle allucinazioni più diffuse della melanconia barocca, quella dell’uomo di vetro, laddove il soggetto teme di potersi disintegrare al minimo urto. Fobia di cui soffriva Carlo VI di Francia, e oggetto di diverse opere letterarie. Secondo l’interpretazione psicoanalitica, un simbolo della rottura dell’«equilibrio narcisistico», propria del soggetto malinconico.
Un capitolo specifico è dedicato alla “malinconia femminile”; la pluralità dei caratteri delle personalità indicate (Artemisia Gentileschi, Lucrezia Barberini, Apollonia Ventiquattro, Veronica Giuliani) potrebbe far sembrare strumentale l’isolare in pagine specifiche il riferimento al genere. In realtà questa attenzione specifica alla sensibilità femminile porta ad approfondire secondo una prospettiva singolare la particolare relazione tra malinconia e corpo. Per quanto riguarda la pittrice, Musi propone un’ampia disamina delle diverse fasi della sua attività artistica; e mostra come proprio il riferimento alla malinconia consenta di emanciparsi dal semplice cliché della «donna vendicatrice». In queste donne, dal destino molto diverso, la malinconia sembra dare luogo a un processo di sublimazione che, nel caso della Gentileschi, trova sfogo proprio nell’operare artistico. Nella Maria Maddalena come la melanconia Artemisia «offre invece un’altra espressione della malinconia barocca. […] una malinconia ritratta non nella fase della sua tensione, bensì in quella della sua risoluzione agognata; una risoluzione che negli occhi chiusi aspira quasi a una sospensione eterna. […] la sublimazione della sofferenza del suo vissuto, della malinconia, della depressione del genio artistico: questa fu Artemisia Gentileschi». Ciò che invece accomuna le altre tre personalità femminili è la scelta a favore di una vocazione mistica radicale, la solitudine del convento, la mortificazione del corpo che si manifesta attraverso una chiara propensione anoressica. Storie diverse (nel caso di Lucrezia la sua vocazione fu a lungo impedita dalle esigenza della propria famiglia aristocratica) mostrano ancora una volta il carattere contemporaneamente individuale e collettivo della malinconia, in una tensione tra la propria individualità e l’evidenza di essere parte di un tutto che condiziona il nostro ruolo (come già in Filippo IV). Ne deriva una serie di comportamenti schizofrenici in cui al centro vi è la questione della corporeità: «In queste donne molto spesso il controllo del corpo si rivela uno scacco: e la malinconia ne rappresenta la manifestazione più evidente». Al centro vi è sempre un «conflitto di passioni». I «rimorsi per i desideri passati» in Francesca Farnese, laddove la malinconia «derivava da un grandissimo rimorso interno di coscienza». In Apollonia «la malinconia è un vero e proprio nutrimento dell’anima che sostituisce il nutrimento del corpo. La sostituzione non è indolore, i costi sono elevati, e si configurano soprattutto come malattie psicosomatiche e anoressia». Un controllo del corpo, dunque, che si vuole assoluto ma che sfocia poi in sintomi devastanti, a sancire lo scacco di questo tentativo di radicale spiritualizzazione. Si tratta in fondo di «storie di spersonalizzazione», dove i personaggi «vivono una doppia realtà, una di fatto e una fantastica».
Significativa anche l’analisi comparata, nelle pagine conclusive, tra Tasso e Marino; nel caso dell’Adone, con la doppia proiezione dell’Autore nei personaggi opposti di Mercurio e di Adone. La prospettiva permette di cogliere meglio il carattere di una «poesia falsamente solare, il buio e il chiuso sono la sua matrice».
Malinconia barocca, con le sue sollecitazioni intellettuali, è anche un testo di grande rilevanza metodologica. Non solo perché accetta il rischio di un’indagine storica di frontiera, come abbiamo notato all’inizio; ma perché dimostra quanto la considerazione di tali aspetti -ne è un esempio, del resto, la stessa monografia su Filippo IV- risulti decisiva, e in qualche modo irrinunciabile, per un’interpretazione storica adeguata, anche quando rivolta a contesti politici e, in generale, a tutti i fatti che rientrano nella storia evenemenziale. Il non tenere conto di questo dato pregiudica in alcuni casi l’analisi storica, in quanto il non saper interpretare in base a un contesto epocale il moto dell’animo origina poi processi di mitizzazione o giudizi moralistici che compromettono l’affidabilità scientifica dell’analisi.
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2023/05/30/il-soggetto-malinconico-barocco-e-contemporaneo/
29 maggio 2023
CHANDRA LIVIA CANDIANI, Amo il bianco tra le parole
F. LORENZONI, VIVERE NELL' ATTENZIONE
Vivere nell’attenzione
Uno dei punti di forza della scuola di Barbiana è stato vivere nell’attenzione attraverso il lunghissimo tempo dedicato alla ricerca comune e all’apprendimento. Cinquant’anni dopo scopriamo che ci sono città del sud e periferie in molte regioni nelle quali più della metà dei bambini e delle bambine non ha il tempo pieno e dove la dispersione scolastica supera il 30%. “Non è certo un caso – scrive Franco Lorenzoni – che nei territori maggiormente segnati dalla povertà educativa da alcuni anni si stiano sperimentando alleanze e patti tra diversi soggetti del volontariato educativo, degli enti locali e delle associazioni del terzo settore in grado di sostenere la scuola prolungando e ampliando l’offerta formativa oltre l’orario e oltre i muri della scuola…”
«Ho detto una volta che Barbiana era una realtà particolare. Ora mi vien fatto di dire che lassù si viveva nell’attenzione. (…) Le case erano lontane una dall’altra. La strada si arrampicava nella solitudine. Vivendo lassù, invece, si sapeva che era “una solitudine abitata” e chi l’abitava non era distratto, ma attento. E il più attento di tutti era il Priore di Barbiana». Parto da questa testimonianza di Adele Corradi perché l’attenzione è la qualità del lavoro di Lorenzo Milani che sarebbe importante ispirasse tutti noi che operiamo in campo educativo.
Non perdere nessuno
“La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. Basterebbe questa frase, accompagnata dalle documentate statistiche raccolte dai ragazzi di montagna a cui fece scuola per tredici anni don Lorenzo Milani, per comprendere che Barbiana non fu solo un luogo particolarissimo dove si faceva scuola 365 giorni l’anno, ma anche uno spazio collettivo di elaborazione culturale che ha ancora molto da dire a chi creda in una scuola all’altezza della nostra Costituzione.
Ancora oggi il 14 per cento di ragazze e ragazzi non terminano la scuola dell’obbligo e questo numero raddoppia per i figli delle famiglie immigrate. Ci sono città del sud e periferie in molte regioni dove la dispersione scolastica supera il 30 per cento. A un ragazzo su tre è dunque negata una istruzione di base perché possa esercitare con piena consapevolezza e strumenti adeguati i suoi diritti di cittadinanza. Piero Calamandrei sosteneva che la scuola è il luogo dove si compie il miracolo di trasformare i sudditi in cittadini. Negli anni Sessanta del secolo scorso un prete ha mostrato che non si tratta di un miracolo, ma di un duro lavoro quotidiano che richiede impegno e dedizione, determinazione e coerenza.
Può essere dunque importante tornare alla lezione di Don Milani a cento anni dalla sua nascita, perché ci sono azioni che intraprese, che ancora oggi ci aiutano a comprendere alcuni compiti a cui non ci possiamo sottrarre.
“I veri uomini che anticipano il futuro non sono i retori, i demagoghi, gli scrittori, gli oratori che dalla cattedra si abbandonano a fantasie, ma sono i manovali della storia, che dall’interno delle fatiche del vivere quotidiano portano un segno che si rivelerà fecondo di futuro”, ha scritto Ernesto Balducci, affermando che “Don Milani era un uomo di questo tipo”.
Manovale della storia
Se vogliamo provare ad avvicinarci al pensiero e alle opere di questo particolarissimo manovale della storia dobbiamo partire da ciò che lo colpì fin dal suo arrivo nella parrocchia di San Donato a Calenzano nel 1947, e cioè dall’impossibilità di predicare il Vangelo senza aver prima creato le condizioni per un ascolto pieno e consapevole di quelle parole.
In una lettera a Enzo Ichino del maggio 1959 Lorenzo Milani scrive:
“Quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un retorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza di interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti. Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel far scuola” (1).
L’idea che una vera fraternità si possa costruire solo condividendo una ricerca profonda intorno alle parole e a una intensa e prolungata costruzione comune di un linguaggio capace di sostenere pensieri che si interrogano accompagna tutta la pratica educativa di Lorenzo Milani.
A proposito di Esperienze pastorali, il libro messo all’indice dalla curia fiorentina che gli costò l’esilio a Barbiana imposto dal cardinale Florit, scrive:
“Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di aver imparato da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Son loro che mi hanno avviato a pensare le cose che sono scritte in questo libro”.
Con la chiarezza che caratterizza ogni suo scritto don Milani assume la reciprocità come fondamento dell’esperienza educativa, convinto che “ogni anima è un universo di dignità infinita” ed è “da questo riconoscimento che bisogna partire”.
Si delineano così alcuni elementi che noi, oggi, siamo tenuti a tenere in gran conto: la reciprocità tra chi insegna e chi apprende come fondamento di una scuola attiva e una ricerca espressiva di gruppo come pratica quotidiana in grado di dare la parola a ciascuno migliorando la capacità di pensiero e di scrittura di tutti.
Nel ricostruire il metodo seguito a Barbiana per la stesura di Lettera a una professoressa, anni dopo Adele Corradi, scriverà: “Lo stile mi pare proprio che glielo abbiano dato i ragazzi. Ma certo nessuno di loro avrebbe saputo scrivere in quel modo senza l’aiuto degli altri. E anche a don Lorenzo non gli sarebbero certo nate in testa tante idee senza parlare con i ragazzi, senza ascoltarli, senza confessarli, senza discutere con loro […]. Per questo è giusto che di quegli otto che per nove mesi, tutte le mattine, hanno lavorato a quel libro, non si sappiano i nomi. (2) È importante ricordare che il metodo della scrittura collettiva don Milani lo aveva appreso da Mario Lodi, maestro elementare del Movimento di Cooperazione Educativa che si recò a Barbiana nell’estate del 1963, con cui il Priore scambiò lettere di grande rilievo pedagogico (3). Quell’incontro e l’assunzione di quel metodo di lavoro cooperativo, quella tecnica piccina – come viene definito nella Lettera – rese possibile, nell’Italia del boom economico, l’elaborazione di una scrittura nitida e dirompente che si fondava su un incontro generativo tra due culture che nulla avevano in comune: la millenaria cultura materiale dei contadini di montagna, in quegli anni già in via d’estinzione, e la vasta cultura borghese e cosmopolita, di radice ebraica, incarnata da Lorenzo Milani, figlio di un ricco possidente fiorentino. Quell’incontro tra figli di analfabeti e un cultore quasi maniacale della parola precisa, capace di indagare e denunciare i mali del mondo, ha portato alla creazione di un testo straordinariamente efficace che divenne, anche grazie alle rivolte studentesche del ’68, il più letto e discusso manifesto contro la scuola di classe in diversi paesi europei.
Ciò che stava più a cuore al Priore di Barbiana, nelle quattro settimane che separarono l’uscita della Lettera dalla sua morte, fu che fosse riconosciuta come un’opera collettiva perché tutti potessero riconoscere che, in questo caso, il mezzo era davvero il messaggio. O meglio, il modo in cui era stato forgiato il mezzo era il messaggio (4).
Un tempo lungo per colmare le distanze culturali
Il segreto della scuola di Barbiana, oltre alla straordinaria dedizione del suo creatore, stava nel lunghissimo tempo dedicato alla ricerca comune e all’apprendimento.
Per arrivare a conquistare parole comprese pienamente, parole che dialogano e che ricercano c’è bisogno di tempo, molto tempo. E poiché al Priore era ben chiaro che solo una ricchezza di linguaggio poteva fondare su basi solide l’autonomia di pensiero dei suoi ragazzi ecco che la questione del tempo si presenta come elemento imprescindibile per contrasto ogni forma di discriminazione.
“Vediamo a chi giova che la scuola sia poca. Settecentoquaranta ore l’anno sono due ore al giorno. Nelle famiglie privilegiate sono quattordici ore di assistenza culturale di ogni genitore. Per i contadini sono quattordici ore di solitudine e silenzio a diventare sempre più timidi. Per i figlioli degli operai sono quattordici ore alla scuola dei persuasori occulti (nota. La pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie siano necessarie). Un milione e 31.000 respinti l’anno. È un vocabolo tecnico di quella che voi chiamate scuola. Ma è anche un vocabolo di scienza militare. Respingerli prima che afferrino le leve. Non per nulla gli esami sono di origine prussiana”.
In teoria, già con l’introduzione della scuola media unica nel 1962, il tempo della scuola avrebbe dovuto essere aumentato. A questo proposito nella Lettera a una professoressa si rileva che
“c’è un filo di speranza nell’articolo tre. Istituisce un doposcuola di almeno dieci ore settimanali. Subito, lo stesso articolo vi offre la scappatoia per non farlo: il doposcuola verrà attuato “previo accertamento delle possibilità locali…”.
La dannazione italiana delle riforme lasciate a metà viene qui intuita e denunciata perché l’introduzione per legge del tempo pieno nella scuola elementare dal 1971 produrrà disparità mai sanate. Nelle città industriali del nord, infatti, si diffusero rapidamente le scuole a tempo pieno, che spesso divennero luoghi di sperimentazioni innovative. Ma poiché la legge prevedeva, assai ingiustamente, che l’opzione del prolungamento dell’orario fosse a discrezione delle scuole e dei Comuni, si è arrivati al paradosso per il quale oggi assistiamo a una assurda e ingiusta disparità per la quale i nevecentomila studenti che usufruiscono del tempo pieno sono così distribuiti: il 58 per cento frequenta le scuole del nord, il 26 per cento quelle del centro e solo il 15 per cento quelle del sud e delle isole, cioè delle regioni in cui ci sarebbe maggior bisogno di istruzione.
Non è certo possibile immaginare una scuola totale come quella realizzata da don Milani, ma se siamo consapevoli di quanto tempo sia necessario per affinare l’uso del linguaggio e dare la parola davvero a tutte e tutti, dobbiamo impegnarci a scoprire e sperimentare le forme che oggi può assumere una educazione democratica diffusa senza esclusioni all’altezza delle sfide dell’oggi. Non è certo un caso che nei territori maggiormente segnati dalla povertà educativa da alcuni anni si stiano sperimentando alleanze e patti tra diversi soggetti del volontariato educativo, degli enti locali e delle associazioni del terzo settore in grado di sostenere la scuola prolungando e ampliano l’offerta formativa oltre l’orario e oltre i muri della scuola.
Eduecare alla disobbedienza
Un’ultima ragione per tornare all’esperienza di Barbiana è forse la più necessaria e dimenticata. Riguarda il rapporto con la legge e dunque con la storia. Sulla necessità di educare alla disobbedienza, don Milani usa parole inequivocabili nella Lettera ai giudici:
“Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. (…) Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l’ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore”.
Lorenzo Milani fu accusato e condannato e per arrivare alla legge che permise l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni persuasi come lui. È figlia di un maestro capace di insegnare con l’esempio ad avere coraggio, convinto che i ragazzi “bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto”.
Sentirsi responsabili di tutto è l’eredità di Barbiana più difficile da raccogliere. In un tempo in cui è venuta meno l’adesione di massa a grandi organizzazioni collettive, torna con forza la necessità di educare alla responsabilità, sapendo compiere scelte coerenti riguardo al futuro del pianeta e alla convivenza tra gli esseri umani. Ci sono una grande quantità di leggi ingiuste che perpetuano disuguaglianze e discriminazioni di fronte alle quali, per dare spazio a una società più aperta, abbiamo bisogno del coraggio di testimoni capaci di ribellioni all’ingiustizia concrete e puntuali.
Note
1 Vanessa Roghi, La lettera sovversiva (Laterza, 2017); 2 Adele Corradi, Non so se Don Lorenzo (Feltrinelli, 2012); 3 Cosetta Lodi, Francesco Tonucci, L’arte dello scrivere (Casa delle Arti e del gioco – Mario Lodi, 2017); 4 Franco Lorenzoni, Educare controvento (Sellerio, 2023)
Articolo uscito sul quindicinale “LA ROCCA” della Cittadella di Assisia cento anni dalla nascita di Lorenzo Milani
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APPUNTAMENTI Lunedì 29 maggio, dalle ore 17 alla Scuola Simonetta Salacone di Roma (via Francesco Ferraironi), Franco Lorenzoni dialoga con MCE Roma, MaTeMu/CIES, studenti, insegnanti, docenti di CPIA 1 e genitori intorno ai difficili compiti che attendono la scuola e l’intera comunità educante.
28 maggio 2023
DON MILANI CONTRO I CAPPELLANI MILITARI
Don Milani e la guerra
Barbiana e don Lorenzo Milani hanno avuto la lucidità e il coraggio di criticare la scuola classista dello Stato, rompere il concetto di patria, sperimentare i principi universali, fondati sulla coscienza individuale, della formazione all’impegno contro ogni guerra. Pur non conoscendo don Milani, quei principi oggi orientano molti ucraini e russi, non certo chi, pur conoscendolo e celebrandolo, alimenta la guerra
Il 27 maggio si è celebrato il centenario della nascita di Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, noto al grande pubblico per la famosa Lettera a una professoressa del 1967, che rappresenterà un punto di riferimento fondamentale per la critica del ‘68 alla scuola classista e per il metodo pedagogico della scuola popolare, che avrà infinite imitazioni. Eppure, è destino comune a molti personaggi, dirompenti nel proprio tempo, di essere trasformati in innocui “santini” nella narrazione pubblica successiva, come per esempio è successo a Martin Luther King negli Usa: in Italia è accaduto proprio a don Milani, di cui, pur avendo oggi innumerevoli scuole a lui dedicate, è andata persa la radicalità trasformativa del suo insegnamento. La cui potenza e attualità emergono in tutta la loro evidenza anche da altre due lettere, forse meno note ai più: quella ai cappellani militari della Toscana e la successiva ai giudici del suo processo per apologia di reato.
Tra i “meccanismi del disimpegno morale” analizzati dallo psicologo Albert Bandura hanno un ruolo rilevante e diffuso – in particolare nella partecipazione alle guerre e ai crimini che ne derivano – quelli che depotenziano la responsabilità individuale, attraverso lo spostamento di responsabilità su qualcun altro, occultando o minimizzando il proprio ruolo (è la linea di difesa dei gerarchi nazisti a Norimberga o di Eichmann a Gerusalemme) e la diluizione della responsabilità su più soggetti agenti, perché “lo hanno fatto tutti” (è il meccanismo di discolpa nella cosiddetta violenza di branco). Ecco, le lettere ai cappellani militari e ai giudici – pubblicate con il titolo unitario de L’obbedienza non è più una virtù – elaborate da don Lorenzo Milani insieme ai ragazzi di Barbiana, due anni prima della Lettera a una professoressa, rappresentano, invece, i principi della formazione all’impegno morale contro la guerra. Validi sempre ed universalmente perché fondati sulla coscienza individuale.
La scuola di don Lorenzo ha precisamente lo scopo di formare cittadini consapevoli e responsabili, ossia “sovrani”, attraverso l’elaborazione collettiva del pensiero che si manifesta anche attraverso gli esercizi della lettura, per esempio giornaliera dei quotidiani, e della scrittura, per esempio nelle lettere.
“La scuola è diversa dall’aula di tribunale – scriverà ai giudici – Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede tra passato e futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi sul filo del rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico”.
E nel far questo i testi di lettura a Barbiana sono la Costituzione, i dialoghi socratici, i Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere tra Claude Eatherly uno dei piloti di Hiroshima e il filosofo Günther Anders, le Lettere di Bertrand Russell ai potenti della terra… i fondamenti del pensiero nonviolento e pacifista.
Per questo la lettura, insieme ai ragazzi, del comunicato stampa dei cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato su La Nazione del 12 febbraio 1965, che definivano “espressione di viltà” l’obiezione di coscienza al servizio militare dei giovani che finivano a centinaia nelle carceri militari – quando non esisteva una legge per il servizio civile, che sarebbe arrivata solo nel 1972 – meritava una lettera di risposta, che fu pubblicata sul settimanale comunista Rinascita e su Azione nonviolenta, mensile del Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini. In questa lettera – e nell’insegnamento che la presuppone – don Milani apre il concetto chiuso di patria nazionalista e lo ribalta nel concetto di patria comune degli oppressi:
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, in non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.
E contemporaneamente punta l’attenzione sui mezzi per realizzarlo, ancorati al ripudio costituzionale della guerra:
“Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
Concetti che don Milani rinforza nella Lettera ai giudici, ai quali scrive sia come insegnante che come sacerdote, ribadendo che a Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito e che, invece, avrebbero dovuto obiettare, ossia disobbedire; e che di fronte al pericolo sempre più incombente della guerra atomica non si può tacitare la coscienza frammentando la responsabilità tra tutti, ma che
“bisogna avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”.
La stessa sovranità che oggi stanno esercitando, perseguitati dai rispettivi governi, anche gli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini (leggi anche Resistenza nonviolenta in Ucraina di Bruna Bianchi, ndr) che probabilmente non conoscono don Milani ma ne stanno svolgendo l’insegnamento. Mentre noi, che lo conosciamo – e magari lo celebriamo – alimentiamo irresponsabilmente la guerra dei loro governi (anche di questo abbiamo parlato ad EireneFest, il Festival del libro per la pace e la nonviolenza che si è svolto a Roma dal 26 al al 28 maggio).
LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI FRANCO LORENZONI: